New York, 1976. Donna Summer apre la finestra della stanza d'hotel dove alloggia, situata all'undicesimo piano di un grattacielo. Guarda giù, sta per saltare nel vuoto. Improvvisamente entra la cameriera di servizio che si spaventa a morte nel vederla in bilico sul davanzale, ma ha la prontezza d'animo di parlarle con voce calma, e la convince a scendere e chiudere la finestra. Per Donna è uno shock, come rientrare improvvisamente in se stessa dopo un'esperienza extracorporea. Sono anni intensi; lo stress, la solitudine, la figlia abbandonata ai nonni e il conflitto che si sta silenziosamente portando dentro, tutto sembra ritorcerlesi contro proprio adesso che è finalmente arrivato il tanto agognato successo. Per anni Donna non accennerà mai (volotariamente) all'accaduto, solo una volta passata la disco fever troverà le parole per affrontare l'argomento e raccontare la sua storia con tutte le sfaccettature del caso, incluse le più drammatiche e inaspettate da parte di una diva del suo rango. Una cosa è certa: etichettare Donna Summer unicamente come Queen Of Disco può essere riduttivo. Certo, fu proprio una sua canzone - di fatto - a rivelare al mondo il lato più spinto e goliardico del movimento. E incidentalmente, quando la disco implose col botto a cavallo tra il 79 e l'80, l'immagine e la carriera di Donna Summer rimasero come cristallizzate nel tempo. Tutto quel che è seguito poi è stato per la maggior parte incapace di attirare nuove attenzioni, e per l'immaginario popolare Donna è rimasta per sempre la First Lady Of Love.
Ma la storia di Donna Summer è molto più intricata di quanto la sua luccicante immagine non lasciasse trapelare ai tempi. Dietro ai vestitini di paillettes indossati rigorosamente senza reggiseno, Donna è stata molto più di una semplice vocalist di bella presenza. Personalità forte e determinata tanto quanto sfuggente e complessa, fu una delle prime cantanti post-Elvis (e pre-Jackson) a doversi giostrare un enorme successo di pubblico ottenuto mediante un'immagine nella quale in realtà non si ritrovava per intero, con tutte le ritorsioni del caso. Molti tendono a dimenticare, per esempio, che la tanto peccaminosa Queen Of Disco era in realtà una madre assente, affetta da terribili sensi di colpa - già prima di diventare famosa: aveva infatti lasciato la figlia Mimi alle cure dei nonni per inseguire il sogno di fare la cantante. Donna era anche un'inguaribile romantica che fu eletta paladina del movimento in assoluto più libertino del secolo scorso. Il conflitto con l'educazione religiosa ricevuta sin da bambina finì col causarle un sacco di turbe a livello personale (ma, a onor del vero, in tempi difficili, la fede fu anche il suo unico faro nel buio). Nessuno in famiglia era contento del fatto che Donna fosse diventata famosa dopo aver simulato 16 minuti di orgasmi sulla storica "Love To Love You Baby", e su di lei la cosa pesava alquanto, ma allo stesso tempo i guadagni da capogiro ottenuti da quella stessa canzone furono usati anche per sfamare la sua numerosa orda di fratelli e sorelle - non tutto il male vien per nuocere, pare.
Insomma Donna è stata un ossimoro vivente, vittima di sé stessa e della sua voglia di successo tanto duramente perseguita quanto vissuta come un peccato, e certamente non esente dall'essere il bersaglio di percezioni mediatiche distorte ("ma mentre registravi 'Love To Love You Baby' ti... toccavi?" era la domanda che le veniva spesso rivolta ai tempi). Sul palcoscenico quindi Donna Summer sapeva trasformarsi in una leonessa, eppure allo stesso tempo, una volta chiusa in camerino, si sentiva prigioniera della propria immagine, che riteneva troppo sensuale e provocante. All'apice del successo, il divario tra l'immagine pubblica e la vera Donna si fece talmente grande da sdoppiare progressivamente la sua personalità, fino a portarla all'abuso di psicofarmaci ed esaurimenti nervosi, e di lì a breve al conseguente crollo della carriera e alla dispendiosa causa giudiziaria contro la sua casa discografica, la storica Casablanca Records.
Come ha fatto, dunque, Donna Summer ad andare avanti nel corso degli anni? Banalmente, grazie alla passione per la musica. La palpabile emozione che ha saputo infondere nelle sue canzoni si può apprezzare anche stando lontani dalle luci riflesse di una mirror ball. Le sue interpretazioni sono nate dal profondo, quasi fossero il mezzo di fuga verso un mondo felice dove potersi eclissare dalla follia che la circondava - follia che, croce e delizia, proveniva proprio dal suo continuare a cantare. Ascoltando le sue ballate più struggenti viene da pensare che forse è proprio Donna l'erede morale di Barbra Streisand (non a caso le due registrarono assieme un duetto di enorme successo). Non solo: Donna Summer è stata sempre co-autrice dei propri brani, acuta osservatrice di sé stessa e con un brillante orecchio per la melodia. E' anche grazie al suo lavoro in sala d'incisione che diversi suoi dischi hanno saputo strabordare oltre al semplice concetto di musica da ballo; ricchi e forbiti, architettati come dei veri e propri concept, gli album degli anni d'oro sono al contempo il suo fulgido testamento personale e la punta di diamante di un irripetibile spaccato di cultura popolare. Oggi come allora, l'iridescente bellezza di quei lavori splende intatta come non mai.
E poi ricordiamolo (come se ce ne fosse ancora bisogno), alla fine è pur sempre suo anche il pezzo che ha coniato l'electronic dance music come la intendiamo comunemente oggi. Vi sembra poco?
Prima tappa, sola andata: Boston-New York-Monaco
La storia della star di umili origini che passa attraverso la chiesa sembra proprio un abusato cliché, ma sembra ripetersi costantemente, anche - e soprattutto - in un caso come questo. LaDonna Adrian Gaines nasce il 31 dicembre 1948 a Boston, in una famiglia di modestissime origini. Ha un'innata passione per il canto e frequenta il coro della parrocchia del suo quartiere di Mission Hill. Tuttavia, resta schiacciata tra altri 6 figli e nessuno presta poi troppa attenzione alla sua voce. Una domenica, quando ha circa 10 anni, il parroco le chiede di fare il solo durante la messa. Mentre la piccola canta, si sente improvvisamente toccata da una mano divina, come se Lui, da lassù, volesse illustrarle la via da seguire. Il resto della sala è ammutolito. Suo padre ricorda che "quando Donna finì di cantare, l'intera chiesa era in lacrime, io stesso non riuscivo a capire cos'era successo". E' un momento cruciale, durante il quale Donna decide che d'ora in avanti ogni suo sforzo sarà speso per fare la cantante. E, nei limiti consentiti dalle modeste condizioni economiche (e dal rispetto della religione cristiana), la famiglia farà di tutto per aiutarla nel suo sogno.
Nel 1967 Donna si sposta a New York. Per la ragazzina di provincia è un discreto shock; camminando per il cuore della metropoli, tra stralci di beat generation e l'idealismo del movimento hippie, il mondo appare improvvisamente più vasto, colorato, permissivo ed elettrizzante, ma non per questo più magnanimo. Prende parte alle audizioni per il musical "Hair", una storica messinscena controculturale in aperta protesta contro la guerra in Vietnam; non ottiene la parte sperata, ma le viene proposto di seguire una seconda produzione dello show che si sta spostando in Germania. Dapprima la famiglia non ne vuole sapere, ma Donna è determinata a seguire il suo sogno ad ogni costo.
Monaco, fine anni 60, è una città pulita e ordinata, soprattuto se comparata a New York. Donna si trova bene, impara la lingua con facilità e per due anni ha lavoro assicurato nel cast di "Hair". Tuttavia, a scadenza del contratto, Donna decide di rimanere in Europa e tentare la strada da sola. All'inizio le cose non girano, i lavori nel mondo dello spettacolo tardano ad arrivare e presto Donna si trova a sbarcare il lunario come può (per un periodo vivrà pure a Vienna). In questi anni, sotto il nome Donna Gaines, riesce a incidere le prime canzoni, pop di ordinaria amministrazione come "Aquarius" (un brano tratto da "Hair"), "Sally Go 'Round The Roses" e "If You Walkin' Alone", che mancano puntualmente il bersaglio.
Sola in terra straniera, e ampiamente in età da marito secondo la sua educazione, Donna compie quindi il primo passo che presto le costerà molto a livello emotivo; nel 1973 sposa l'attore austriaco Helmut Sommer, dal quale ha la prima figlia, Mimi, lo stesso anno. Ma la vita domestica non le si addice, il desiderio di fare la cantante è talmente forte che non può resistere. Il divorzio sarà veloce, e con questo giunge il primo (e probabilmente il più grande) sacrificio della sua carriera: non potendo mantenerla, né dedicarle il tempo necessario, Donna si separa dalla figlia, mandandola in cura dai nonni a Boston.
Come spesso accade, l'incontro della svolta avviene per puro caso. Un giorno Donna entra nei Musicland Studios per un lavoretto da corista, e dietro alla console trova Giorgio Moroder e Pete Bellotte. La sinergia tra i tre è istantanea. Donna ha la voce, il volto e un sacco di idee, Pete sa scrivere canzoni e Giorgio, beh, sappiamo tutti cosa sa fare. Guarda caso, i due hanno una piccola label - la Oasis - e presto Donna incide le prime canzoni.
Lady Of The Night viene pubblicato in Olanda nel 1974 attraverso un contatto di Giorgio con la Groovy Records, etichetta che già dal nome promette poco di buono. Il successo, infatti, sarà limitato all'Olanda (e un filo di Francia). Del "periodo olandese" esiste un filmato di Donna Summer che, in qualità di ospite durante un allucinante talk show, canta il singolo "Lady Of The Night". La grana della sua splendida voce è subito chiara, e anche la canzone, con quelle progressioni melodiche nel ritornello stile ABBA, si imprime subito nella memoria. Ma da sola non è abbastanza per il salto lungo.
Dalla foto di copertina - che cattura Donna in un'espressione vagamente corrucciata, incappucciata e seminascosta dal fogliame - si può trarre qualche indizio circa i contenuti del resto di Lady Of The Night. Trattasi di un generico pop-rock con accenni di folk, chitarre e sprazzi di pianoforte, sicuramente piacevole ma assolutamente non memorabile. Forse è anche la troppa innocenza di canzoni come "Friends", "Domino" o "Sad Song (Sing Along)" che, unita al vago retaggio family friendly di alcune trovate, rende l'album un po' troppo stucchevole. L'altro singolo "The Hostage", semmai, ha una fattura vagamente più rock e un ritornello ben congegnato, oltre a presentare un inedito tema poliziesco molto accattivante (anni dopo, per dire, Sade diventerà famosa grazie a un pezzo dal tema simile, "Smooth Operator"); il successo però è nuovamente limitato, perché a seguito del rapimento di un noto politico tedesco proprio in quel periodo il brano viene bandito per via dei contenuti ritenuti "non idonei alla situazione" (la canzone, infatti, inizia con la telefonata di un rapitore che chiede il riscatto). Insomma, la signora della notte finisce con l'andare a letto presto.
Ohh... Ahh... Il ritorno a casa sulle ali dorate della disco
"Giorgio, mi è venuta un'idea, senti qui: ohh, love to love you, baby..."
"Mi piace!"
La disco secondo Donna Summer nasce proprio così, un'idea di quattro parole appena e un semplice motivetto. Bellotte ne è entusiasta. Nel giro di una notte Giorgio ha già pronto il canovaccio del pezzo. Ma quando Donna arriva in studio il giorno dopo non ne vuole più sapere. Che porci questi italiani! Davvero Giorgio vuole registrare una canzone coi suoi gemiti d'amore? Donna giura e spergiura di non farlo, ma dopo le insistenze degli altri due scende a un compromesso: registrerà il pezzo solo come provino da proporre ad altre case discografiche, e se a qualcuno dovesse piacere, che se la ricantino da soli! Così, per qualche minuto Donna si immedesima nel ruolo di Marilyn Monroe, nuda a letto con due gocce di Chanel sul collo mentre aspetta il Presidente (grazie al passato nei musical recitare non le viene nemmen troppo difficile). Il resto è storia.
Nella prima fase, il pezzo si intitola solo "Love To Love You", e dura poco più di tre minuti. Giorgio ha ancora i contatti giusti, e lo fa pubblicare in Olanda. Ma non solo. Una copia del disco finisce sulla scrivania di Neil Bogart, l'allora direttore di una piccola etichetta di Los Angeles, la Casablanca Records. Neil è un vero personaggio, ha gusti fuori dal comune, voglia di strafare e coraggio da vendere. Proprio in quei mesi, per dire, è l'unico uomo al mondo a credere ciecamente in una band di quattro capelloni truccati col cerone che viaggiano sotto il nome di Kiss. Figuriamoci, ma chi se li filerebbe mai quelli? Grasse risate.
Non è un caso, quindi, che per un tipo come lui, l'ascolto di "Love To Love You" è rivelatorio. Sua moglie Joyce racconta che, durante un dinner party, Neil suonò la canzone a ripetizione "per ore ed ore". Riuscite a immaginare il costipato imbarazzo della signora Bogart che tenta di sviare l'attenzione servendo gamberetti ai propri ospiti, mentre il marito suona il disco di una che si masturba?
Il giorno dopo Neil telefona a Giorgio e la sua richiesta è esosa: il pezzo è sfavillante, ma ne vuole di più! Vuole 20 minuti di canzone, anzi no, vuole proprio che non finisca mai! Ancora una volta, Giorgio riesce a convincere Donna che questa è la mossa giusta. La base è presto pronta. Allungato all'impossibile dell'estaticità, il nuovo sound è più accattivante che mai; il battito è ovattato ma serrato, invita a muoversi e lasciarsi andare, ed è percorso da un lucido filo rosso di sintetizzatore (il celebre Moog). Poi si abbassano le luci in studio, per rispettare la privacy di Donna e darle un po' d'intimità; i 16:48 di "Love To Love You Baby" - e con essi l'intera disco fever più spinta e libertina - nascono qui. Sarà sempre una telefonata dall'America a dare la "buona nuova":
"Complimenti signora, il suo pezzo è al n.2 di Billboard"
"Scusi... quale pezzo?"
Come un fulmine a ciel sereno, la situazione provoca in Donna un contrasto di emozioni senza precedenti. Ma come! Una vita intera passata a cantare, otto anni di dura gavetta oltreoceano, tanti sacrifici, un divorzio e una figlia che non vede quasi mai, e quando il successo finalmente arriva, deve essere proprio per quel pezzo lì che lei manco voleva cantare, quello dove stando al conto della Bbc in sedici minuti simula la bellezza di 23 orgasmi? Cosa penserà di lei la comunità di Mission Hill? E la famiglia?
Tuttavia c'è poco tempo per preoccuparsi della questione, l'album è fuori, ed è un successone. Pur nella sua curiosa idiosincrasia, Love To Love You Baby (1975) fa fare subito alla sua interprete il salto verso un milione di copie vendute. Ovviamente, la title track occupa tutto il lato A; sul risvolto, "Need-A-Man Blues" conserva un motivetto funky e una sibillina linea di synth che lo lega stilisticamente alla traccia madre, tanto che sarà scelto come lato B del singolo. Ma il resto del lavoro è tutt'altro che disco music. Ecco una ballata dai vaghi sentori blues come "Full Of Emptiness" (del quale appare anche la "Reprise") e "Pandora's Box" che sembra in tutto e per tutto un pezzo di Carole King. Ancora più straniante, ma semplicemente splendida, è la presenza di "Whispering Waves", con suoni di onde in sottofondo, un calibratissimo lavaggio elettrico e una interpretazione eccezionalmente bucolica (del resto, il 1975 è pure l'anno in cui l'angelica Minnie Riperton va al n.1 cinguettando "Loving You", pezzo prodotto da Stevie Wonder).
Fin da subito, insomma, Donna Summer dimostra di avere una bella anima black nella voce, ma di non essere necessariamente univoca nella sua proposta; se infatti la disco music va a braccetto col soul di Marvin Gaye, Barry White, Isaac Hayes e lo stesso Wonder, Love To Love You Baby è un disco tutto sommato ancora europeo e capace di mostrare qualche delicatezza pop a tinta di acquarello. Ma la frenesia generata dal famoso pezzo "con la signora che viene" oscura il resto, e Donna diventa ufficialmente la First Lady Of Love.
Passano otto mesi appena, e il trio Summer/Moroder/Bellotte ha già pronto il seguito. Nonostante le titubanze della cantante, la Casablanca insiste nel perpretrarne l'immagine da fatalona sexy e battere il ferro dell'amore finché è caldo. A Love Trilogy (1976) è un concept album fatto apposta per essere suonato in camera da letto. Il lato A è nuovamente occupato da un'unica traccia di quasi 18 minuti, "Try Me, I Know We Can Make It" che, pur lussureggiante di coretti, incastri d'archi e un motivetto di xilofono, non ha proprio lo stesso appeal rispetto alla suite del disco precedente. Fa meglio il lato B, che si apre con "Prelude To Love", un minuto appena di moìne capricciose atte a introdurre "Could It Be Magic", il rifacimento della celebre canzone di Barry Manilow reinterpretata da Donna con tutta la passione e la sensualità di cui è capace. "Wasted" segue il sontuoso filo rosso della disco più orchestrale con una birichina sezione di archi ad accompagnare la voce in falsetto, mentre "Come With Me" gioca su toni vagamente più forzati.
A Love Trilogy vende abbastanza bene, ma non produce nessun singolo di successo. Visto col senno di poi, è un album che fu certamente importante ai tempi per aiutare a cementare l'immagine della First Lady Of Love agli occhi del pubblico, ma allo stesso tempo fu anche responsabile per aver iniziato a farla pesare alla sua interprete - il tentato suicidio in quell'hotel di New York, di cui si è già accennato, avviene in questo periodo. Oggi il suo ascolto è certo piacevole ma non indispensabile.
Tuttavia, indipendentemente dallo stato di salute di Donna, la macchina mangiasoldi della Casablanca non si ferma. Ad appena sette mesi di distanza, Four Seasons Of Love (1976) aggiunge un nuovo capitolo alla discografia. Stavolta, il concept è una relazione amorosa consumata lungo la durata delle quattro stagioni. Senza più tracce lunghe, l'album suona molto più bilanciato, e rispetto al precedente il suo ascolto è a tutt'oggi più avvincente. "Spring Affair" (e relativa "Reprise") hanno il compito di attuare il risveglio ormonale, mentre "Summer Fever" rappresenta una ben più calda quanto irrefrenabile voglia di sesso.
Sul lato B, "Autumn Changes" gioca su una bella gamma ritmica dai sapori funky, lasciando alla splendida "Winter Melody" il compito di stemperare i toni e accompagnarci, volteggiando tra gli assoli di flauto, sax e chitarra, al caldo di un piumone a farsi le coccole di fronte al caminetto mentre fuori fiocca la neve.
Ancora una volta le vendite sono soddisfacenti, ma i singoli non doppiano neanche lontanamente i fasti di "Love To Love You Baby". Come l'album precedente, Four Seasons Of Love è forse caduto un po' nel dimenticatoio, ma il suo ascolto è sempre molto piacevole e anche divertente per quel garbato erotismo che sprigiona. Almeno "Winter Melody" meriterebbe di essere inserita in ogni raccolta che si rispetti.
I Feel Love
Pure la successiva pubblicazione I Remember Yesterday (1977) è un concept. Ma stavolta l'idea lascia momentaneamente da parte il lato più peccaminoso della disco - con evidente sospiro di sollievo da parte di Donna - e percorre piuttosto un viaggio immaginario attraverso le varie ere della musica da ballo, un vero e proprio omaggio che Moroder e Bellotte hanno particolarmente a cuore. Assolutamente da non perdere è l'atmosfera anni 20 di "I Remember Yesterday" (che per l'orecchio odierno è il massimo del vintage dentro al vintage), ma sono spassosi pure il rifacimento anni 50 di "Love's Unkind" (bellissimo incastro tra sax, giro d'archi e pianoforte), e quello anni 60 di "Back In Love Again", che omaggia apertamente le Supremes e il wall of sound di Phil Spector con un saltellante r'n'b corale; Donna si dimostra a proprio agio in ogni dove, come se fino ad ora non avesse cantato altro. Il lato B invece si concentra sul presente, con due pezzi disco come "Black Lady" e "Take Me" (il cui comicissimo coro maschile sembra il canovaccio sul quale gli Aqua baseranno "Barbie Girl"...). C'è posto anche per una vera e propria power ballad a gola spiegata, quale "Can't We Just Sit Down (And Talk It Over)".
Tuttavia, pur nella riuscita complessiva di I Remember Yesterday (oggettivamente tra i migliori album della carriera di Donna), niente - e ripeto niente - prepara l'ascolto per quello che il trio intende proporre come il "futuro" della musica da ballo. E siano dannati se il futuro non l'hanno scritto davvero! Ma per questo ci vuole un capitolo a parte.
Inizia tutto con una linea di Moog, che si erge dall'orizzonte lenta ma inesorabile. Poi parte il ritmo, tre sole note modulate all'ossessione con una precisione robotica senza pietà, capaci di generare agitazione e mandare in frenesia il sistema nervoso. Infine entra la voce, un falsetto limpido dai toni lirici ma rarefatti, come se avesse perso la propria umanità contro quell'assordante muro di suono sintetico. L'ipnotica melodia che viene intonata torna a ripresentarsi ciclicamente su tonalità diverse ogni volta, in un saliscendi che manda l'ascoltatore in estasi. Poi scoppia il ritornello - I! Feel! Love! - dove ogni briciolo di umanità rimasto si concentra tutto assieme ed esplode. Nell'intermezzo strumentale il synth batte più secco e robotico che mai, si agita e si contorce, sembra che la macchina riacquisti momentaneamente il sopravvento prima che la voce torni a lottare, impossibilmente eterea e snaturata, eppure allo stesso tempo così umana. Un capolavoro.
Composizioni di musica interamente elettronica esistevano già da decenni - gli stessi Kraftwerk avevano fatto scuola - ma l'idea di Giorgio Moroder è semplice quanto rivoluzionaria: creare un pezzo disco utilizzando come base strati sovrapposti ricavati esclusivamente dall'uso di un sintetizzatore. "I Feel Love" otterrà enorme successo in America, in Inghilterra e nel resto del mondo, ed è a tutt'oggi forse il pezzo più amato di Donna Summer. Le lodi, i tributi e i rifacimenti realizzati nel corso dei decenni si sprecano. Aneddoto famoso: durante le registrazioni della celebre trilogia berlinese, David Bowie ricorda l'entusiasmo di Brian Eno, che entrò in studio brandendo in mano il 7" dicendo "ho appena sentito il suono del futuro!".
Ma il lascito di "I Feel Love" è molto più grande. Una volta estrapolato e velocizzato, il ritmo del pezzo getta le fondamenta per la musica techno, aiutando a definire quello che oggi intendiamo comunemente come Edm (electronic dance music). Nel 2012, a ridosso della scomparsa di Donna Summer, la canzone è stata ufficialmente aggiunta al National Recording Registry.
From Disco To Eternity - Il periodo imperiale
L'impatto di "I Feel Love" sul resto del mondo è subito palpabile. In molti saltano sul vagone elettronico, la disco si fa tosta e dilaga ovunque, diventado il genere più popolare del momento. Ma Donna Summer non ha certo finito le cartucce. Anzi, con Once Upon A Time (1977) inizia il suo vero periodo imperiale. Ancora una volta Donna riesce a sviare (un poco) le richieste della Casablanca che la vorrebbero sempre più nuda e provocante, e sulla copertina del nuovo album appare il volto di una bellissima signora vestita in quello che sembra un abito da sposa (il retro ce la mostra in tutto il suo splendore). L'ambizione è sconfinata; il nuovo album è un doppio concept di 16 tracce, che narra in ordine cronologico la storia di una Cenerentola nei tempi moderni. Ovviamente le analogie con la vita di Donna Summer si sprecano, e probabilmente è anche per questo che il disco travalica l'idea del puro divertimento da pista da ballo. Su Once Upon A Time Donna Summer mette tutta sé stessa. Come ben si sa, la storia di Ceneretola ha un lieto fine - arriva il principe e vivono per sempre felici e contenti - ma durante il percorso non sono certo tutte rose e fiori. Bastano le drammatiche note d'introduzione di "Once Upon A Time" per capire che dietro alla disco music di Donna Summer si muove un lato molto più oscuro:
Once upon a time there was a girl
Who loved in a land of dreams unreal
Hiding from reality
Treated like a stranger
Living with her fantasies
Trapped within their world
Cenerentola, quindi, vive un raccapricciante incubo metropolitano (nell'incalzare di "Faster And Faster To Nowhere"), sogna ad occhi aperti ("Fairy Tale High") e tira fuori gli unghielli dell'amante finta innocente ("Say Something Nice"), oppure invoca l'aiuto del padre in un momento particolarmente vulnerabile ("Sweet Romance"). Sull'onda del successo di "I Feel Love", un lato dell'album viene concepito come mini-suite elettronica: si va dai cori enfatici della sconsolata "Now I Need You", alla disperazione intrisa di determinazione di "Working The Midnight Shift" e l'illusione di una vita migliore in "Queen For A Day".
Ovviamente Cenerentola ha anche i suoi momenti tinti di rosa, quali il gospel-soul di "A Man Like You" o il momento del ballo a corte "Dance Into My Life", fino al climax finale di "Rumor Has It", ovvero il principe che ricerca la bella sconosciuta, la splendida "I Love You" (uno dei suoi singoli migliori di sempre) e il lieto fine "Happily Ever After".
Impossibile rimanere indifferenti. Ricco di splendide melodie, liricamente ispirato e volutamente drammatico come fosse un
musical pur senza mai risultare pedante né sdolcinato,
Once Upon A Time è un vero e proprio gioiello, fatto apposta per l'ascoltatore più attento. A quasi 40 anni dalla sua uscita ancora non ha smesso di affascinare, ed è probabilmente tra i
concept a tema fiabesco meglio riusciti di sempre.
A coronare Donna Summer come
performer dal vivo ci pensa
Live And More (1978), un doppio album registrato per 3/4 dal vivo durante un concerto all'Universal Amphitheatre di Los Angeles. Donna ripropone tutti i maggiori successi ottenuti fino a quel momento, dimostrandosi un'ottima interprete e perfetta diva da palcoscenico. La
performance vocale è suprema, così come la band che l'accompagna e le coriste che "gonfiano" l'impasto rendendo la qualità del concerto valida tanto quanto la produzione di studio.
A onor del vero, un problema su
Live And More ci sarebbe pure, e risiede nel modo in cui alcune tracce sono state troncate di netto per farle rientrare nel formato vinile, e questo indubbiamente toglie all'ascoltatore il senso dello show come era stato eseguito - avessero lasciato le cose per intero come il "Judy At Carnegie Hall" di Judy Garland sarebbe stata tutt'altra cosa - ma l'essenza delle canzoni è comunque mantenuta intatta il più possibile.
L'interesse maggiore di
Live And More risiede nella scelta dei brani inediti, o non inclusi nei precedenti album, tipo "Last Dance", un singolo di gran successo - nonché vincitore di un Grammy - tratto dalla colonna sonora del film "Thank God It's Friday". Ma non solo; Donna si trasforma in gattona jazz nella spassosissima "Only One Man", e poi nel "My Man Medley", dove reinterpreta con fascinosa seduzione "The Man I Love" di George/Ira Gershwin (resa famosa da
Billie Holiday), "I Got It Bad And That Ain't Good" di Duke Ellington e la canzone popolare "Some Of These Days". Infine, si tocca il sublime con una versione di "The Way We Were" (la "firma" di Barbra Streisand) e soprattutto nell'inedita "Mimi's Song", una toccante canzone che Donna scrive appositamente per la figlia e che, conoscendo i risvolti biografici dietro alla loro storia, fa letteralmente scendere la lacrimuccia.
Poteva anche finire qui insomma, ma Donna ha ancora una riserva da sparare. Il lato D del disco viene interamente occupato dalla versione studio della "Mac Arthur Park Suite", 17 strepitosi minuti strutturati in 4 movimenti, di cui la traccia principale "Mac Arthur Park" (orginariamente di Jimmy Webb) è il momento
clou: il pezzo parte lento, con l'orchestra che cresce poco a poco e Donna che mugola e si lamenta, prima che l'esplosione ritmica dia il via alle danze. E' un tripudio, e
Live And More raggiunge il n.1 della classifica americana, così come la versione singolo di "Mac Arthur Park", che si farà ben 3 settimane in vetta. Da notare semmai che nella ristampa su cd l'intera "Mac Arthr Park Suite" è stata sostituita da "Down Deep Inside", brano che Donna registrò nel 1978 per il film "The Deep".
Ormai la
disco music è un fenomeno senza precedenti, tutti sembrano presi dalla smania del
dancefloor. Una semplice (quanto approssimativa) panoramica del periodo già offre una varietà di nomi impressionante. Mossette, pantaloni stretti e camicie a fiori: il mito - anche un po' tamarro se vogliamo - di Toni Manero nasce nel novembre 1977, e "Saturday Night Fever: The Original Movie Soundtrack" diventa uno dei fenomeni di cultura popolare più celebri del decennio. Ma i classici fioccano ovunque senza tregua;
Bee Gees e KC & The Sunshine Band ovviamente, ma anche Nile Rodgers alla guida dei suoi Chic, quel carnevale ambulante dei Village People, i Jackson 5, Shalamar,
Gloria Gaynor e l'altra
Queen Of Disco per eccellenza, Sylvester, che nel 1978 pubblica "Step II", l'album che contiene la sempiterna "You Make Me Feel (Mighty Real)". Capitolo tutto suo - ovviamente -
Michael Jackson e l'esplosione di "Off The Wall".
Anche l'Europa risponde a colpi di Average White Band e Boney M, oltre ovviamente agli "architetti" per eccellenza Cerrone e lo stesso Giorgio Moroder con lo storico "
From Here To Eternity". E' pure tempo per trafile di
one hit wonder al fulmicotone quali Patrick Hernandez, o l'ex-pornostar rinata cantante/astrologa Andrea True Connection con "More More More".
Ma il fascino della
disco è così forte che in tantissimi tentano il
crossover; riecco Barry Manilow ("Copacabana" nasce qui), l'
Electric Light Orchestra,
Diana Ross, gli
ABBA, la jazzista Dee Dee Bridgewater,
Tina Turner in fuga da Ike e decine di altri. Ma incuriosiscono e fanno specie pure i nomi più "insospettabili"; dalla New York punk spuntano i luccicanti
Blondie con "Heart Of Glass", ma ci sono anche i
Kinks di "(I Wish I Could Fly Like) Superman", i
Beach Boys che reincidono in versione
disco "Here Comes The Night", o i
Rolling Stones con una vera
hit come "Miss You". Persino una reticente
Cher si mette sotto contratto con la Casablanca, e la risultante "Take Me Home" le risolleva le quotazioni in un baleno, rimanendo a tutt'oggi una delle più note
hit della sua infinita carriera.
La competizione, insomma, è più forte che mai, ma la risposta di Donna Summer è sempre un passo avanti.
Bad Girls vede luce nell'aprile 1979, ed è da subito la consacrazione stilistica (e commerciale) di una carriera ancora breve, quanto incredibilmente densa di pubblicazioni e zeppa di successi. In realtà, la storia dietro a
Bad Girls è tutt'altro che rosea. Dalla Casablanca, Neil Bogart insiste affinché Donna si presenti al pubblico sempre più scosciata e provocante, mentre lei si sente più frustrata che mai dall'essere trattata come un pacchetto postale. Sta di fatto che, poco prima di entrare in studio, Donna - che già era diventata dipendente da antidepressivi - ha una crisi nervosa. Sarà sua sorella a prendere in mano la situazione e portarla in chiesa; in un pomeriggio di quell'anno, nella quiete di fronte all'altare di una chiesetta di campagna, Donna ritrova quella fede che aveva perduto anni addietro, e con essa la forza interiore per andare avanti. I rapporti con Bogart rimangono difficili, e l'epilogo tra lei e la Casablanca è ormai dietro l'angolo, ma per il momento Donna riesce a mettere a segno un altro colpo.
Bad Girls è ben lungi dall'essere un disco religioso - basti guardare al il titolo e il risvolto della copertina nella quale Donna interpreta una prostituta che viene arrestata mentre "batte" a un lampione - ma il risultato della nuova forza interiore di Donna (per non dire rabbia), unito all'orecchio di Moroder e Bellotte che hanno già captato nell'aria l'avvento di sonorità più rock, rende la musica semplicemente elettrizzante.
Bad Girls è l'album completo, ossimoro all'ennesima potenza della sua interprete intrappolata tra amore e odio per il successo ottenuto con le sue stesse mani. La
disco music si tinge di rock e spinge sul ritmo di basso e batteria, ma allo stesso tempo enfatizza all'ossessione le ballate e lascia serpeggiare il filo rosso dell'elettronica con grazia sibillina.
"Hot Stuff" probabilmente non ha bisogno di presentazioni. Nel corso degli anni è diventata una delle canzoni simbolo di Donna, eterna favorita ai karaoke e grazie a "Full Monty" pure la colonna sonora per ogni goliardata etilica che si rispetti - passatela nel più sfigato bar di periferia un lunedì sera e ci sarà sempre l'ubriaco di turno pronto a lanciarsi in pista e tentare lo spogliarello. Discorso analogo per "Bad Girls", celebre storiella di prostituzione dal famosissimo motivetto funky (e coretti
beep! beep!).
Ma non è solo una questione di singoli. Si va dal curioso sax di "Love Will Always Find You", alle melodie accalappia-orecchie di "Walk Away", "Journey To The Centre Of The Heart" e "My Baby Understands", passando per ballate come "Dim All The Lights", che sembra un numero di
Rod Stewart in versione
disco rauca e romantica, le atmosfere notturne di "There Will Always Be A You" e l'assoluta drammaticità di "All Through The Night" (con tanto di
intro recitato da consumata attrice). Ma soprattutto a spiccare è "On My Honor", un vero saggio dell'arte canora di Donna, arricchito da un bel giro di piano e da una chitarra
country che serpeggia solitaria aumentandone esponenzialmente il
pathos. Non manca nemmeno il lato elettronico, che a questo giro viene dispiegato sulle ultime tre tracce: "Our Love", "Lucky" e le rarefazioni synth di "Sunset People" sono già classici alla nascita.
Bad Girls è il secondo album doppio di Donna Summer a conquistare la vetta della classifica, dove otterrà certificazione di triplo platino, e rimane a tutt'oggi il suo
bestseller.
Il colpo di coda lo dà l'essenziale doppia raccolta
On The Radio: Greatest Hits Volume I And II (1979) che conquista anch'essa la vetta della classifica in un battibaleno. Non solo, la raccolta passa alla storia per essere la prima a missare le tracce tra loro creando un perpetuo continuo che si adatta alla perfezione col genere in questione. Per quanto incompleta per causa di spazio (è pur sempre stata concepita per il formato vinile), contiene tutte le
hit più importanti di Donna e offre una panoramica sulla sua discografia certamente valida e da consigliare all'ascolto.
Poteva fermarsi qui? Ovvio che no. Come da tradizione, la raccolta viene farcita da un paio di inediti per spingere all'acquisto anche chi magari ha già collezionato gli album precedenti. Ma se, nella maggioranza dei casi, l'inedito di turno è solitamente un riempitivo, nel caso di
On The Radio: Greatest Hits Volume I And II gli extra sono a dir poco essenziali: "On The Radio" (tratta dal film "Foxes") fila nuovamente in top 5, ed è a tutt'oggi una delle sue più celebri canzoni di sempre. Al resto ci pensa il duetto con Barbra Streisand "No More Tears (Enough Is Enough)", che è semplicemente irresistibile nella versione
extended di 11 minuti, e l'esuberanza di feromone che contiene lo consacra tra i classici più amati dal pubblico gay (e, ciliegina sulla torta, si farà le sue due porche settimane al n.1 vendendo oltre due milioni di copie).
Caporetto, il Terrore e la ghigliottina. Disco Sucks!Sembrava che il momento della
disco music non dovesse finire mai. Invece, dopo un dominio incontrastato nelle classifiche di mezzo mondo e milioni di dischi venduti in blocco, il 1979 è allo stesso tempo l'anno dell'apoteosi e della più rapida caduta mai registrata nella storia dell'intrattenimento prima di allora. Riassumere quanto accade in quei mesi non è facile, ma c'è un fatto in particolare che fa un po' da catalizzatore per l'intero accaduto.
Il 12 luglio 1979 un nutrito gruppo di amanti del rock, armati maglie che recitano "disco sucks", prende parte alla Disco Demolition Night, che secondo gli organizzatori dovrebbe svolgersi tra il primo e il secondo tempo di un partita di baseball al Comiskey Park di Chicago. Il pubblico sugli spalti osserva sbalordito mentre una folla di
rocker stanchi di ballare su mattonelle fluo inizia a bruciare album di
disco music in un immenso falò. L'evento ovviamente finisce in rissa, con la sospensione della partita e l'intervento della polizia, ma il messaggio è chiaro:
disco sucks!
Ovviamente tale protesta è solo la più colorita punta dell'iceberg, visto che il rigetto per la
disco dilaga un po' ovunque, ma l'esito è efficace; se a luglio 1979 la top 10 statunitense conta 6 canzoni
disco su 10, già a ottobre non c'è un solo brano classificabile come tale tra le prime 10 posizioni, e per l'arrivo del 1980 il solo nominare la parola è pura bestemmia. In poche parole, la
disco subisce un (forse anche meritato) benservito dopo anni di sovraesposizione mediatica. La furia iconoclasta del punk, per dire, che aveva viaggiato sottocorrente proprio in quegli anni, da sola non era certo riuscita a ribaltare le sorti della musica, ma aveva comunque perpetrato l'idea di un
sound più duro e tematiche sociali ben più impegnate rispetto alla gioiosa evasività di cui veniva tacciata la
disco music. Presto,
hard-rock,
metal e
new wave diventeranno alcuni dei nuovi punti di riferimento.
Sta di fatto che, con la rovinosa disfatta della
disco, puntualmente arriva la "messa al bando" di tutti gli artisti un tempo aderenti al movimento. Sembra di assistere alla trasposizione musicale della rivoluzione francese, con il popolo del rock a instaurare il Terrore e tagliare la testa a ogni possibile ex-ballerino. E chi è, di questi tempi, la regina grassa di
brioches da mandare alla ghigliottina? Esatto, proprio Donna Summer. Sembrerà un'esagerazione ma, salvo qualche rara eccezione, da qui in poi la sua carriera si attesterà su livelli di pubblico ben più esigui, a momenti quasi inesistenti. Decine di nuove
popstar spunteranno da ogni dove a contendersi di volta in volta il sempre scivoloso trono della musica dance, e col tempo Donna finirà come imbalsamata tra le (grandi) glorie del passato.
Tuttavia in questi mesi il cambio di guardia generazionale è l'ultimo dei suoi pensieri. Dopo anni di forte insoddisfazione, liti e divergenze artistiche con la Casablanca di Neil Bogart e sua moglie Joyce (che erano entrambi diventati amici intimi della cantante), Donna prende la difficile decisione di abbandonare il tutto all'apice del successo, e cita persino l'etichetta in tribunale per i danni morali che le ha arrecato. La causa giudiziaria è costosissima e lascerà a tutti i personaggi coinvolti l'amaro in bocca per anni a venire. Quando nel 1981 Bogart muore improvvisamente a causa di un tumore per Donna è un durissimo colpo; si tratta pur sempre della scomparsa di una persona molto importante nella sua vita, e questo sembra aumentare esponenzialmente il senso di colpa che la assilla in quegli anni.
Quasi come una profezia qualcosa si rompe per sempre e l'entusiasmo svanisce in un colpo solo. Senza
disco music, Donna Summer semplicemente non è più la stessa. Da qui in avanti, con le mode a susseguirsi in rapida successione, tutti i vari tentativi di rinnovo da parte di Donna viaggeranno al massimo tra l'accettabile e lo stanco andante, saranno eseguiti sempre con professionalità ma spesso e volentieri privi qualsiasi entusiasmo. La sua personalità su disco si farà via via più sfuggente, quasi stesse recitando una parte per evitare di esporre sé stessa. E' una caduta senza precedenti, e il pubblico presto si dimenticherà della sua esistenza.
Il regno che non c'èIl nuovo contratto che Donna firma con la Geffen dovrebbe darle un po' di respiro, anche alla luce dell'arrivo della sua seconda figlia Brooklyn, avuta dal marito/musicista/co-autore Bruce Sudano. Purtroppo tutto è solo un'illusione. La pressione per ottenere un nuovo album non cambia certo sotto il
management di David Geffen. A Moroder e Bellotte viene imposto di affrettarsi a finire il nuovo lavoro al più presto possibile, e
The Wanderer vede la luce a tempo di record nell'ottobre del 1980.
Lo scarto col passato è subito notevole; dove un tempo la
disco era venata con sapienza da altri generi, il nuovo album introduce senza pudore atmosfere soft-rock, accenni new wave e gospel sull'onda della ritrovata fede, ma anche uno spesso strato di tastieroni che a momenti affossano il resto del lavoro. Ma soprattutto la raffinata e passionale Donna Summer non è più a suo agio con questo tipo di rock melodico da classifica, infarcito per di più da qualche tremendo assolo posticcio.
Ci sono ancora pezzi piacevoli, "Running For Cover" o "Cold Love" su tutti, ma in generale è come se venisse improvvisamente a mancare quel fascinoso
storytelling che aveva reso imprescindibili i dischi del passato. "Looking Up", "Who Do You Think You're Foolin'", l'infantile "Stop Me" o le schitarrate di "Night Life" hanno un'atmosfera che semplicemente non combacia più con l'interprete in questione. Ma basti solo ascoltare la bizzarra "Grand Illusion", che sembra ricalcare l'onda sciamanica di
Kate Bush, per notare come a questo giro il trio non sapesse davvero che pesci prendere. E il gospel "I Love Jesus", per quanto interpretato con sentimento, non fa certo meglio.
Il successo di
The Wanderer è immediato, ma non duraturo. Il piacevole singolo "The Wanderer" arriva al n.3 in classifica, ma gli altri estratti non si avvicinano minimamente alla top 10; oggi l'album è fuori stampa. Insomma, mentre un'altra rediviva dell'era
disco come
Grace Jones vola ai Compass Point Studios per registrare lo storico "Warm Leatherette" e iniziare ufficialmente il suo periodo d'oro, Donna che voleva far "la vagabonda" rimane ferma in un bel pantano.
Ancora più incredibile è il destino di
I'm A Rainbow, registrato nell'81 ma bloccato all'ultimo minuto dalla Geffen perché ritenuto non all'altezza (sarà pubblicato solo nel 1996 con scarsissimo successo). Come ai tempi d'oro,
I'm A Rainbow prova a tornare alla forma dell'album doppio, ma stavolta il team Summer/Moroder/Bellotte viene affiancato da uno svariato numero di collaboratori e le 18 tracce vengono spalmate in lungo e largo in un vero e proprio
pastiche. Ancora una volta, chitarre tamarre ("Leave Me Alone" tra le peggiori di sempre), pezzi di ordinaria amministrazione come "Back Where You Belong", "Brooklyn" dedicata alla figlia o la ballatona enfatica e un po' melensa "I'm A Rainbow" affossano di brutto l'ascolto, impallidendo di fronte a quanto prodotto solo due anni addietro.
Quando va meglio, ci si ispira con curiosità al contemporaneo synth-pop di marca
Human League e
Depeche Mode che sta iniziando a scuotere teste oltreoceano, vedasi "People Talk" e "Melanie", che infatti non sono affatto male, pur non rientrando appieno nelle corde di Donna (fattore che si deduce con più evidenza dall'altro esperimento sintetico "Runner With The Pack"). "Walk On (Keep On Movin')" ha un curioso ritmo che potrebbe essere dei
Police, mentre folate
art-synth celtiche vengono applicate sulla ballata "To Turn The Stone" e il risultato è tanto suggestivo quanto straniante. Assolutamente indecifrabile, invece, il rifacimento di "Don't Cry For Me Argentina", che Donna intona con piglio drammatico da assoluta diva, ma l'arrangiamento tronfio e sregolato toglie tutto il
pathos (il tema rifatto con la chitarra poi è da mal di pancia).
Insomma,
I'm A Rainbow è un vero pastrocchio. C'è indubbiamente qualcosa di buono nel mezzo, ma per andarlo a cercare bisogna passare attraverso l'androne del museo delle cere, un'esperienza che può non essere piacevole. Certo, le sue sorti sono incredibili; due anni fa appena Donna Summer era la cantante più fortunata d'America, mentre adesso le viene addirittura negata la pubblicazione di un album. Da tutto questo brodo almeno "Romeo" il suo momento di gloria lo ottiene, visto che nel 1983 viene inserito nella colonna sonora del famosissimo "Flashdance".
Per tentare di risollevare le sorti in calo di Donna Summer, la Geffen decide di cambiare le carte in tavola, e nel far ciò termina una volta per tutte il sodalizio con Moroder e Bellotte. Si giunge alla fine di un'era insomma, ma forse è anche meglio così, i tempi sono ormai irrimediabilmente cambiati e bisogna tentare nuove strade. E poi il nuovo arrivato non è certo un signor nessuno;
Donna Summer (1982) viene registrato sotto la supervisione di Quincy Jones, jazzista di portata storica e abilissimo produttore che propio in quei mesi sta lavorando sul "
Thriller" di Michael Jackson.
La prima cosa che si nota - oltre alla coloratissima foto di copertina dove Donna è letteralmente coperta dai capelli - è che il nuovo album viene ridotto a sole 9 tracce, che di questi tempi non è certo una cattiva idea. Iniziano a scorrere le canzoni, e in effetti rispetto al caos dei due album precedenti il
sound è assolutamente sintomatico del periodo: arrotondato e patinato, guarda sia alla dance che all'r'n'b, e si crogiola in una gamma impressionante di strumenti acustici e campionati. Anche le melodie da canticchiare non mancano, come l'aggressivo singolo di lancio tutto coretti e saltelli "Love Is In Control (Finger On The Trigger)" o le atmosfere terzomondiste di "State Of Independence", un pezzo originariamente di
Vangelis che infatti mantiene il tono solenne nelle folate di sintetizzatori che spazzano il finale. C'è posto anche per l'efficace "Protection", che doveva essere un duetto con
Bruce Springsteen, e un pezzo come "Livin' In America", che invece è
springsteeniano proprio nel midollo (quello più tronfio, però). Non mancano nemmeno il classico
mid-tempo r'n'b con fiati campionati "(If It) Hurts Just A Little" ed un numero alla Chaka Khan come "Love Is Just A Breath Away".
Cosa manca, dunque? In una parola, l'interprete. Con l'eccezione della conclusiva "Lush Life" - sornione rifacimento in chiave
electro-bucolica di un vecchio
standard del jazz -
Donna Summer è un disco terribilmente di maniera, che può funzionare bene come
pop album da ascolto distratto, ma è completamente svuotato da qualsiasi emozione. A momenti sembra che Quincy Jones stia tentando di infilare Donna nei panni di Jackson, ma ovviamente la cosa non può funzionare. Certo, anche Donna, dal canto suo, mette sempre meno di sé stessa in quel che fa; ovviamente le interpretazioni sono "perfette", ma manca la scintilla. Pur timbrando il cartellino della moda del momento, ed essere col senno di poi il miglior disco anni 80 di Donna,
Donna Summer ottiene risultati commerciali alquanto insoddisfacenti rispetto alle aspettative.
La caduta è innescata insomma, il mondo del pop non lascia certo tregua. Per una che si siede un attimo sugli allori con un disco meno incisivo della media, ne spuntano subito altre 10 che sgomitano per farsi spazio. Tra le varie pretendenti al trono una in particolare spinge più delle altre; si copre di trine e crocefissi, è goffa e stonata come una campana, ma dannatamente irresistibile e talmente smaniosa di successo che Napoleone Bonaparte le fa una pippa: nell'ottobre 1982 il mondo assiste all'avvento di
Louise Veronica Ciccone, e presto l'immagine della nuova
popstar al femminile sarà (ri)forgiata una volta per tutte.
L'ultima ThuleUn cavillo legale pretende ancora un album da Donna Summer da pubblicare sotto la vecchia Casablanca (che nel frattempo dopo il crollo della
disco è stata inglobata dal gruppo PolyGram). Dalla Geffen decidono di mandare 9 canzoni che Donna ha registrato col nuovo produttore Michael Omartian, anche perché nessuno ha troppe aspettative a riguardo. Manco a farlo apposta,
She Works Hard For The Money (1983) sarà il suo ultimo grande successo. La famosissima
title track è irresistibilmente orecchiabile e Mtv ne trasmette a manetta il video, che mostra la cantante nei panni di una donna delle pulizie che fatica per portare a casa due dollari. Pur non essendo certo finanziariamente disagiata, Donna sembra ritrovarsi appieno nel ruolo, visto che negli ultimi 10 anni ha sgobbato come una matta arricchendo sé stessa, ma anche un sacco di altra gente. "She Works Hard For The Money" diventa un vero e proprio inno
girl power che dilaga ovunque ed è a tutt'oggi uno dei suoi pezzi più celebri in assoluto.
Anche l'album ottiene un buon successo, ma ancora una volta sarà presto dimenticato, e a ragione. Le rimanenti tracce si muovono nel plastico di "Stop, Look And Listen" e dell'altro inno "Woman", saltano goffamente sul carrozzone reggae (il populismo di "Unconditional Love") o lasciano passare una ballatona allo zucchero filato quale "Love Has A Mind Of Its Own".
Sembrerà uno scherzo, ma "Tokyo" imita addirittura certe atmosfere dei
Japan. E infatti è proprio dall'Inghilterra che adesso arriva nuova linfa, visto che la
Second British Invasion è in pieno atto. Rispetto al plasticoso pop formato famiglia di Donna Summer, l'androgina
Annie Lennox, per dire, è terribilmente più accattivante, e il
sound degli
Eurythmics non è certo da meno. La moda del momento vuole melodie a presa rapida, ma anche una certa ubiquità di contenuti e colori sgargianti, che siano quei belloni dei
Duran Duran o pappagalli da
hit al fulmicotone come
Boy George alla guida dei
Culture Club, o anche una newyorkese come
Cyndi Lauper che sta letteralmente spopolando con "
She's So Unusual".
In tutta questa caciara, ovviamente, un album laccato di giallo opaco come
She Works Hard For The Money scompare nel giro di pochissimi mesi.
La disfatta è totaleDopo lo "smacco" di un'occasione persa come il disco appena regalato ad altri, la Geffen spedisce Donna nuovamente in studio con Omartian per tentare di capitalizzare almeno la sua ritrovata immagine. Ma è troppo tardi,
Cats Without Claws (1984) è nuovamente un disco che non ottiene il successo sperato (n.40 in classifica). Più che la mancanza di vendite di per sé, quel che è apparente è la stanchezza dell'intero lavoro, con Donna Summer che ormai è poco più dell'ombra di sé stessa, irriconoscibile sotto la coltre plastificata delle nuove sonorità in voga in quegli anni. Dal nuovo album si salvano "Suzanna", e la vaga new wave edulcorata di "Oh Billy Please", ma il resto è un mix poco graffiante di r'n'b, funky sintetico e qualche grintosa ballata soul-rock che a fine ascolto lascia poco e nulla.
Del resto, chiunque nell'84 voglia ascoltarsi musica su simili generi ha almeno tre opzioni ben più fresche e valide a disposizione: "Purple Rain" di
Prince, "I Feel For You" di Chaka Khan e "Private Dancer" della rinata Tina Turner, tre interpreti di prim'ordine con tre dischi capaci di catalizzare attenzioni a livello mondiale. L'ironia per Donna è ancora una volta beffarda; forse il titolo voleva essere uno scongiuro, ma
Cats Without Claws è davvero incapace di graffiare e scivola nel dimenticatoio senza manco passare dal via.
Finalmente, dopo ben 12 album pubblicati senza sosta in meno di 10 anni di una carriera che ha visto la più rapida delle salite e la più rovinosa delle cadute (solo Janet Jackson col
nipplegate al Superbowl nel 2004 saprà fare di meglio), Donna rallenta il ritmo. La Casablanca/Mercury immette sul mercato due
compilation, l'assolutamente inutile
The Summer Collection: Greatest Hits (1985), ma anche la ben più interessante
The Dance Collection: A Compilation Of Twelve Inch Singles (1986), che come da titolo raccoglie alcune pubblicazioni del periodo
disco di Donna nelle versioni
extended come venivano passate ai tempi in discoteca. Messi assieme su un solo album, pezzi grossi come "I Feel Love", l'intera "Mac Arthur Park Suite", "Dim All The Lights" e "No More Tears (Enough Is Enough") creano un viaggio danzereccio a ritroso che, oggi come oggi, è sempre un piacere andarsi a riascoltare.
Tuttavia la nostalgia ha vita breve. Il ritorno sulle scene nel 1987 con
All Systems Go, prodotto da Harold Faltermeyer, è un altro clamoroso buco nell'acqua. Ancora una volta, più che le canzoni non propriamente memorabili in sé, a ferire veramente è la totale mancanza di voglia da parte dell'interprete, che si lascia riciclare dal produttore di turno senza convinzione alcuna. A conti fatti, si salvano (forse) solo la
title track e "Voices Cryin' Out", forti per lo meno di un ritornello da stadio, ma il resto delle tracce compongono un album praticamente incommentabile, un misto tra il Michael Bolton più mieloso, il
poodle rock di gente come i Bon Jovi e i Whitesnake, e una spruzzatina di Bros e Olivia Newton-John tirata nel mezzo. Anche quando Donna alza la voce ("Bad Reputation", "Love Shock") il risultato è assolutamente privo di
pathos.
Così, mentre il mondo viene messo a ferro e fuoco dall'ugola d'oro della nuova
big thing Whitney Houston e Terence Trent D'Arby fa il suo storico debutto,
All Systems Go viene largamente ignorato in America e rimane a tutt'oggi uno di quegli album di metà carriera di una grande diva che in realtà conoscono in pochissimi (e ancora meno sono quelli che lo apprezzano). Tuttavia, il singolo "Dinner With Gershwin" sale fino al n.13 in Inghilterra, fornendo l'indizio-chiave sul motivo della mossa futura di Donna Summer.
Di palo in frasca (e la rivolta dei gay)Finalmente libera dal contratto con la Geffen - che a questo punto per lei ha pubblicato esclusivamente il peggio del peggio - Donna Summer segue d'istinto il successo ottenuto in Gran Bretagna con l'ultimo singolo dall'album precedente e (ri)parte alla volta Europa, stavolta non per lavorare con Moroder e Bellotte, ma per entrare a far parte della fortunata ditta di prefabbricati Stock/Aitken/Waterman - gente come
Kylie Minogue, Rick Astley e le
Bananarama stanno andando fortissimo. L'atto è presto compiuto: una Donna Summer col volto dipinto da geisha viene prelevata da un paio di pinze meccaniche e calata nella formaldeide.
Another Place And Time vede la luce nel 1989, e come ogni altro prodotto S/A/W i suoi esiti si possono praticamente indovinare alla cieca: un singoletto di lancio di gran successo in Inghilterra ("This Time I Know It's For Real" raggiunge il n.3), mentre gli altri estratti seguono in progressivo calare d'interesse e qualità, e per la fin dell'anno l'album è presto dimenticato come il resto della serie. E dire che, nello stesso anno, e sempre sotto la Geffen, l'eterna
Cher torna improvvisamente alla ribalta mondiale col tronfio disco
hair-rock "Heart Of Stone"... proprio ora che Donna ha abbandonato il genere!
Poco male; se non altro a questo giro Donna dimostra almeno di avere ancora a cuore la propria carriera, al punto da tentare una strada differente dal solito. E, volendo, rispetto agli ultimi deludenti album di studio, per l'orecchio europeo
Another Place And Time può sempre risultare fruibile da cima a fondo nonché appiccicoso e sempre fischiettabile. Ma ancora una volta la mancanza d'ispirazione, o anche solo la voglia di provare a dire qualcosa di originale, fanno apparire Donna sempre più come un guscio vuoto, ormai ridotta a sbiadita
cover girl di sé stessa.
Il senso di avventura, comunque, continua in maniera ancor più esplicita sul seguente
Mistaken Identity (1991) in collaborazione con Keith Diamond, un album che, nella sua incredibile confusione, finisce con l'essere forse il più curioso da anni a questa parte. A questo punto non è chiaro se il titolo era ironico o meno, ma sta di fatto che Donna Summer si lancia alla ricerca d'identità altrui, poiché rimasta totalmente a secco con la propria (la parrucca bionda che sfoggia in copertina è alquanto indicativa). Uno dei
sound più gettonati del momento in America si chiama
new jack swing, ed è un sottogenere
black coniato già nell'86 da Jimmy Jam, Terry Lewis e la pupilla Janet Jackson sullo storico "Control". Ecco quindi Donna Summer come la più improbabile delle
fly girl che "rappa" come una ragazzaccia di strada (?) su "Get Ethnic" o "Body Talk", manco fosse Will Smith in viaggio per Bel Air.
Ogni tanto si ripresenta qualche retaggio Stock/Aitken/Waterman (l'imbarazzante "Work That Magic"), ma anche una ballata come "Heaven's Just A Whisper Away" che ricorda tantissimo "I Just Can't Stop Loving You" di Jackson dell'era "Bad". Si fa l'occhiolino alla
club culture con l'acid-house di "What Is It You Want" o con le classiche atmosfere
nineties di "Cry Of A Waking Heart". Il piano-bar di "Fred Astaire" semmai potrebbe anche funzionare, ma è totalmente perso nel contesto dell'album (senza contare che al momento questo tipo di soul snocciolato su basi dance è prerogativa unica della mancuniana
Lisa Stansfield).
Insomma, una confusione totale per la quale l'insuccesso è ormai preventivato. Ma il limite d'impatto di
Mistaken Identity non è più solamente una questione di moda azzimata e immagine fuori fuoco. Da diversi anni ormai girano voci circa alcune dichiarazioni che sarebbero state fatte da Donna dopo aver ritrovato la fede cristiana nel 1979 e che pare si dimostrino in netto sfavore nei confronti dei diritti omosessuali (qualcosa a che fare con Adam & Eve contro Adam & Steve, dicono le cronache). La cosa serpeggia sottocorrente, ma torna a ripresentarsi puntualmente come una spina nel fianco ogni volta che Donna pubblica un nuovo disco, al punto che in molti alla casa discografica iniziano a imputare alla questione l'insuccesso quasi costante che sta affliggendo la sua carriera da un decennio a questa parte.
Non è ben chiaro come siano andate le cose, ma di certo per il mondo gay questi sono anni difficili e gli animi si surriscaldano; la piaga dell'Hiv è sulle testate giornalistiche del mondo intero, in molti si sentono ghettizzati e abbandonati senza sostegno né conforto, e il numero di vittime aumenta di giorno in giorno, tanto che anche una figura popolare come
Freddie Mercury scomparirà di lì a breve. Pertanto, dopo averla idolatrata e aver contribuito non poco al suo successo, la comunità gay non riesce ad accettare l'idea di questo possibile "tradimento" ad opera della
Queen Of Disco. Alla fine Donna Summer convoca una conferenza stampa per chiarire la questione e nega di aver mai fatto tali affermazioni. La pace si ripristina un minimo, ma ormai è troppo tardi. Con ben otto album di inediti passati quasi tutti sotto al radar (e una qualità non certo eccelsa, che impedisce una rivalutazione a posteriori), il suo ricordo nella cultura popolare regredisce sempre più al 1975 e a "Love To Love You Baby", l'immaginario
summeriano che persiste tutt'oggi.
Facendo gossip semmai si può far notare come, col senno di poi, lungi dall'essere una scemenza, la diatriba "Donna vs gay" sia per lo meno servita da guida a tantissime altre
popstar femminili, che da qui in poi staranno molto più attente del solito a quel che vien detto riguardo al (solitamente folto) pubblico gay. Nel caso di
Lady Gaga la lotta a favore dei diritti Lgbt in certi momenti sarà quasi l'unico scopo per tirare avanti.
Dagli anni 90 ad oggi - il silenzio, il ritorno e la scomparsaIl relativo silenzio che Donna Summer impone alle sue uscite lascia alle varie etichette che hanno ospitato la sua musica nel corso degli anni il tempo per immettere sul mercato una serie infinita di raccolte - in tutto se ne contano oltre 20! Onestamente però, più che tentare di ricreare un'antologia valida per intero la questione si è progressivamente tramutata in una vera giungla di lotte intestine, sciacallaggi di
b-side ripescate dal paleolitico e continui rimaneggiamenti sullo stesso disco, tra tracce tolte e altre aggiunte a seconda della nazione in cui il disco veniva pubblicato; la questione, per quel che mi riguarda, è completamente priva di interesse, ma segnalo comunque alcune delle uscite più famose rintracciabili nel mondo anglofono.
Con ben 34 tracce presenti,
The Donna Summer Anthology (1993) è sicuramente completa sotto ogni punto di vista per ricreare la panoramica più estensiva possibile, ma ovviamente il secondo cd contiene quasi esclusivamente materiale post-1980, che, come già scritto, tende a lasciare un po' il tempo che trova.
Christmas Spirit (1994) raccoglie tutte le classiche canzoni della stagione ("White Christmas", "O Come All Ye Faithful", "O Holy Night" e via discorrendo); gli arrangiamenti orchestrali sono grossi ed enfatici, le tastiere patinatissime e assolutamente datate, ma Donna ritrova le vecchie radici gospel e intona il tutto con una voce quasi operatica, sicuramente ancora impressionante ma a tratti anche un tantino fuori luogo.
Come praticamente ogni altro disco stagionale,
Christmas Spirit può stare in una categoria a parte. Dal punto di vista del mercato, però, la visibilità che ottiene è nuovamente minima perché l'incredibile successo di "Merry Christmas" di
Mariah Carey dell'anno prima continua a eclissare ogni altra uscita sul genere (e persiste tuttora).
Molto quotata dal pubblico invece
Endless Summer: Donna Summer's Greatest Hits (1994), altra raccolta complessiva di ben 19 tracce, che però tende a inserire le canzoni nelle versioni brevi editate per la radio, al punto che diversi brani del periodo disco perdono un po' del carisma originale.
Non male, semmai,
Live & More Encore (1999), che riporta un concerto televisivo di Donna Summer di quel periodo; lei è sempre in gran forma, anche se forse manca quella
verve mista ad agitazione che aveva reso epico l'altro celebre album dal vivo del 1978. Quasi a voler dare un'idea di
budget, lo storico duetto con Barbra Streisand viene adesso eseguito con Tina Arena.
Spalmata su ben tre cd,
The Ultimate Collection (2003) ripercorre ancora una volta la carriera dagli esordi in Olanda fino ai tempi moderni, oltre a offrire qualche rarità, come i 15 minuti di "Je T'Aime Moi Non Plus", il celebre pezzo di
Serge Gainsbourg riarrangiato in chiave
disco.
L'ennesima
The Journey: The Very Best Of Donna Summer (2003) contiene, oltre alla solita panoramica, anche qualche pezzo nuovo in collaborazione con Giorgio Moroder (davvero niente di speciale).
Infine,
Gold (2005) è l'ennesimo rimaneggio totale di tutto quanto sopra, completissima quanto zeppa di materiale non proprio imprescindibile.
Ma purtroppo il peggio non è ancora passato. Saltato a piè pari il primo
disco revival anni Zero, attuato in Europa dalla ninfetta
Sophie Ellis-Bextor, Donna affonda una vera coltellata al cuore con
Crayons (2008), ovvero il primo disco di inediti in 17 anni. Inutile girarci attorno, la qualità di questo disco è indubbiamente la più bassa dell'intera carriera. Donna viene intubata nel
vocoder come l'ultima Cher, asfaltata da una produzione sulla falsariga più rozza dell'attuale
sound di
Timbaland, sballottata su ritmi da balera e atmosfere
western, circondata da chitarre posticce, elementi di
college-rock americano e costretta a intonare melodie tenute in piedi con i fili come tante marionette:
Crayons è il peggio del pop contemporaneo, tanto che forse l'irriconoscibilità della sua interprete è un vantaggio, quasi non si volesse sciupare l'immagine di ciò che è stato.
La cosa più raccapricciante in assoluto è rappresentata da "Queen Is Back", una sorta di becero r'n'b sul quale Donna tenta di fare la diva che rientra in pista pretendendo di riavere il suo trono; il tutto doveva essere ironico ovviamente, ma per qualche motivo l'ascolto del pezzo crea solo un fortissimo imbarazzo. Ad aggiungere la beffa al danno, la canzone contiene pure un
sample da "Lose Control" di Kevin Federline, passato alle cronache come il più fasullo dei rapper mai esistiti, nonché il primo sciagurato marito di
Britney Spears (quello che voleva tenere gli squali nella piscina del giardino ignorando il fatto che i due figli lattanti ci avrebbero giocato attorno - il divorzio fu rapido ma doloroso).
Se questa monografia non ha voti, parte del motivo è anche perché
Crayons avrebbe probabilmente toccato il fondo, e francamente piangeva troppo il cuore a concludere così la lunga carriera di una grande interprete. Donna Summer scompare all'improvviso il 17 maggio 2012 all'età di 63 anni, a causa di un tumore. Dimenticata tra i caroselli del pop da ormai oltre 20 anni, la
Queen Of Disco era già per molti un'icona ferma nel tempo e nessuno si aspettava più grandi cose da lei, ma la notizia della sua morte è comunque un'amara sorpresa che scuote il mondo dello spettacolo e non. La sua discografia è sempre disponibile per essere consultata, e mi auguro con questa monografia di aver fatto almeno un po' di ordine.
Il 2015 tra l'altro prevede la pubblicazione di uno splendido cofanetto,
Complete Casablanca Album Collection, che contiene in versione rimasterizzata tutti e 8 gli album pubblicati nel suo periodo d'oro - un oggetto costoso ma altamente consigliato ai collezionisti e non. E a proposito di consigli sulla discografia, mi assumo ogni responsabilità circa il revisionismo della carriera di Donna da me applicato in questa monografia, in quanto mi rendo conto di essere stato parziale unicamente col periodo incluso tra il 75 e il 79. Senza offesa né malizia, è opinione diffusa che dall'80 in poi la carriera di Donna Summer sia stata un discreto lazzeretto di pubblicazioni, croce e delizia per una delle più belle dive dell'intrattenimento del secolo scorso. Nel caso vogliate discuterne (in termini civili), potete farlo sul
forum di Ondarock.
Un ultimo barlume, però, Donna sembra averlo lanciato lo stesso. Forse in seguito alla scomparsa della sua madrina, la
disco music ha vissuto un breve momento di revival, riscalando le classifiche di mezzo mondo grazie a progetti di gran successo come "
Random Access Memories" dei
Daft Punk (che conta infatti la presenza di Giorgio Moroder e Nile Rodgers tra gli altri), come gli
Arcade Fire del curioso "
Reflektor", Bruno Mars di "Unorthodox Jukebox" (disco più venduto al mondo nel 2013), la "
20/20 Experience" di
Justin Timberlake e
Pharrell Williams con "
G I R L" e la celebre "Blurred Lines" con Robin Thicke e T.I.