Capelli cortissimi, ricciolo posticcio incollato alla fronte, e look lesbo-chic; così veniva catturata Lisa Stansfield nell'89, nell'indimenticabile video di "All Around The World". E poi c'era la voce, grondante classe come ogni autentica soul-singer che si rispetti, ma allo stesso tempo dinamica per reggersi in piedi sulle più impietose basi dance del momento. Erano gli anni dell'acid-house e del madchester in Inghilterra, e dell'r'n'b iniettato di new jack swing in Usa, eppure Lisa da Rochdale (una località nella disadattata ex-zona industriale intorno a Manchester) riuscì a conquistare il mondo, vendendo oltre 5 milioni di copie col suo stiloso album di debutto "Affection".
Più orientata verso la scena club che non al mainstream, la sua carriera si è successivamente adagiata su numeri ben più esigui. Ci ha guadagnato in longevità, un seguito di fedelissimi, e il rispetto di critica e colleghi, al punto da essere la benvoluta anche nell'esclusivo mondo del jazz, come testimoniò la sua settimana di permanenza al Ronnie Scott's di Londra nel 2003.
Oggi Lisa Stansfield è una bella 47enne in ottima forma e spirito. Si veste con un gusto retrò da signora anni 30, ma non rinnega le radici nella working class; la sua parlantina non ha perso un briciolo della spassosa cadenza del nord-est. L'amore del pubblico è pressoché immutato, e quasi lo stesso si può dire del suo stile.
Il nucleo alla base di "Seven", infatti, è lo stesso che l'accompagna sin dall'esordio, con Ian Devaney in veste di co-autore e produttore (nonché marito della stessa Lisa). Gli arrangiamenti sono a cura di Jerry Hay, mentre la sezione ritmica è saldamente in mano al celebre John Robinson (entrambi già presenti alle sessioni di "Off The Wall" e "Thriller" di Michael Jackson). Ecco quindi morire subito la speranza di un colpo di scena nella carriera di Lisa, e giustamente scatta pure l'allarme, considerata la ripetitività che i suoi album avevano assunto da oltre un decennio a questa parte.
Il nucleo alla base di "Seven", infatti, è lo stesso che l'accompagna sin dall'esordio, con Ian Devaney in veste di co-autore e produttore (nonché marito della stessa Lisa). Gli arrangiamenti sono a cura di Jerry Hay, mentre la sezione ritmica è saldamente in mano al celebre John Robinson (entrambi già presenti alle sessioni di "Off The Wall" e "Thriller" di Michael Jackson). Ecco quindi morire subito la speranza di un colpo di scena nella carriera di Lisa, e giustamente scatta pure l'allarme, considerata la ripetitività che i suoi album avevano assunto da oltre un decennio a questa parte.
Tuttavia, a questo giro, la carta vincente di "Seven" sta proprio nella sua disarmante semplicità. Il disco è stato scritto, interpretato, arrangiato e prodotto con una professionalità che guarda senza vergogna a un passato revivalista. Ma stavolta, la decisione di non concedere il mimino spazio alle sonorità elettroniche del momento, toglie di mezzo quella patina che aveva reso soporiferi dischi come "So Natural" o "The Moment".
Una volta partito l'ascolto, non ci si può lamentare della scelta. I "nuovi" arrangiamenti sono sublimi, e cesellano le melodie con classe d'altri tempi. Stuoli di ottoni, chitarre in salsa funky, super-impalcature d'archi e una sezione ritmica in gran forma, fanno sì che la Diva non si "appoggi" mai troppo su quella sensualità che, in passato, l'aveva resa a tratti stucchevole. In questo clima di totale classicismo analogico, Lisa mostra al meglio la sua arma vincente: una voce limpida, calda, sensuale, e ancora capace di far invidia a ogni collega (e pensare che, da quando aveva 15 anni fino a poco tempo fa, la stronza si fumava pure 40 sigarette al giorno!).
Sentitela, invece, sul passo jazzato di "Why" che ricorda i Simply Red di "Sad Old Red", oppure quando va in ascesa in "Conversation" sorretta da una sezione d'archi che sembra un film di James Bond. A donare dinamismo, ecco due singoli quali "Can't Dance" e "Carry On" a scaraventarci sul parquet tirato a lucido a ballare disco e northen soul. Ma è su un pezzo come "Stupid Heart" che si consuma tutta la sua arte: cercate pure una nuova leva del blue-eyed soul capace di cantare un pezzo a questo modo. Non la troverete.
Sentitela, invece, sul passo jazzato di "Why" che ricorda i Simply Red di "Sad Old Red", oppure quando va in ascesa in "Conversation" sorretta da una sezione d'archi che sembra un film di James Bond. A donare dinamismo, ecco due singoli quali "Can't Dance" e "Carry On" a scaraventarci sul parquet tirato a lucido a ballare disco e northen soul. Ma è su un pezzo come "Stupid Heart" che si consuma tutta la sua arte: cercate pure una nuova leva del blue-eyed soul capace di cantare un pezzo a questo modo. Non la troverete.
"Seven" non rinnova niente, ma è talmente godibile che francamente non importa nemmeno. Fate conto che, per trovare un altro suo disco così ben fatto, bisogna risalire fino a "Real Love" nel 1991. Inoltre, con sole dieci tracce in lista, il nuovo album ha pure il grosso vantaggio di non tirarla troppo per le lunghe.
La regola rimane invariata: a chi non è mai piaciuto lo stile, non troverà certo pane per i suoi denti in "Seven". Ma anche chi sperava in una sua possibile svolta stilistica dovrà guardare altrove. Lo scopo, comunque, non era quello. Da che mondo è mondo, non si ascolta la Stansfield per spirito di scoperta, o ricerca di modernità. Provate però a tornare a casa una piovosa sera d'inverno, dopo una giornataccia di quelle da dimenticare. La casa è vuota, la doccia attende fumante, la cena è a scaldare in forno; sul piatto scivola "Seven" e parte Lei, a calmarvi i nervi con i suoi aaahhh e i suoi uuuhhh. Ma cosa volete di più?
(10/02/2014)