Il tempo passa, ragazzine con meno della metà dei suoi anni si contendono i cuori degli adolescenti di mezzo mondo, eppure Kylie Minogue rimane ancora lì, incurante degli anni che scorrono, fiero baluardo contro la legge non scritta della giovinezza ad ogni costo. Certo, non sarà la popstar definitiva delle ultime stagioni, e il suo momento di massima popolarità è passato da un pezzo, assieme a uno dei più grandi momenti del dance-pop tout-court (ve la ricordate tutti ancora, volenti o nolenti, “Can't Get You Out Of My Head”), ma continuare a tenere testa nonostante tutto alle continue ondate di aspiranti popstar non è cosa da molti, specie poi quando dalla propria non si ha una straordinaria attitudine al camaleontismo e al rinnovamento.
Archiviata con grande successo (artistico, s'intende; il tracollo commerciale fu davvero dei più eclatanti della storia del mainstream) la breve ma fruttuosa stagione ammiccante all'indie di “Impossibile Princess”, fortunatissimo crogiolo di trip-hop, trance, drum'n'bass e sontuoso English-pop, da lì in poi, tra alti (i due dischi successivi, con cui consolidò il suo status di icona pop) e numerosissimi bassi (praticamente tutto quel che ne è seguito), il mondo sonoro dell'australiana si è mostrato ben poco propenso a discostarsi dalle prurigini e dalle bollicine di un dance-pop sexy e frizzante, da un lato estremamente riconoscibile nelle forme e nelle scelte, dall'altro fortemente limitante per chi invece aveva dato sfoggio di ben altre qualità, autoriali e non soltanto. La speranza che qualcosa di diverso bollisse in pentola a questo giro era davvero forte.
E invece, con questo “Kiss Me Once” (che segna il passaggio al management della Roc Nation di Jay Z), siamo punto e a capo. Alla qual cosa si potrebbe pure chiudere un occhio, se ci fosse di converso un lavoro sulle canzoni che sapesse compensare o addirittura sollevare l'appiattimento sonoro degli ultimi tempi. Che dire? Sembrava davvero la volta buona: non c'era il piglio più aggressivo e sbarazzino di una “Timebomb” (il suo singolo più efficace da “Two Hearts” a questa parte), eppure quell'arrangiamento piano-driven, un beat secco e tagliente, e quel ritornello semplicissimo ma maledettamente efficace fanno comunque di “Into The Blue” un brano fresco e accattivante, radiofonico al punto giusto e capace di rilanciarla al suo pubblico di elezione. Pure la successiva “Million Miles”, ritmo che incalza e struttura classicamente dance, ha comunque dalla sua un tiro che supera di slancio quanto proposto nel più debosciato “Aphrodite”, rivelandosi all'altezza del suo marchio di scafata diva scuoti-platee.
E poi? Beh, poi sono dolori. Totalmente incapace oramai di lavorare insieme al suo fiotto di collaboratori (innumerevoli i produttori, dagli Stargate a will.i.am, passando per Ariel Reichstad e altri ancora) su un disco che sappia essere solido dall'inizio alla fine, anche nel suo ultimo album a barlumi di sporadico fascino si alternano momenti totalmente privi di spessore o di logica, di quelli che avresti trovato a pacchi negli album firmati vent'anni addietro dalla premiata ditta Stock Aitken & Waterman, senza tutto l'immaginario lolitesco che si portavano dietro. Con un background tematico che ben poco lascia all'interpretazione, figurano quindi in scaletta improbabili strizzate d'occhio al dubstep-pop, scena che più morta di così non si può (una “Sexercize” sorprendentemente scritta da una hit-maker quale Sia, con tanto di video super-sessualizzato a lanciarla come prossimo singolo), refrain stupidini che fanno sembrare quella “Give Me All Your Luvin'” della sua eterna rivale un pezzo d'alta sartoria (“Les Sex”), innocui riempitivi senza arte né parte tutti giocati su placidi climax strofa-ritornello, totalmente scontati nello sviluppo (il tiepido electro-pop di “Feels So Good”, le svenevoli romanticherie della title track).
Cosa resta quindi di questo “Kiss Me Once”? Come in un bizzarro sovvertimento di parti e ruoli, quello che da principio avresti scartato, a cui mai avresti pensato di dare una chance. Si candidava a essere la collaborazione a più alto tasso di melassa di tutti i tempi, diventando la “Nobody Wants To Be Lonely” degli anni Dieci, eppure “Beautiful”, in compagnia di Enrique Iglesias, non solo non impenna i valori glicemici, ma addirittura sa dosarsi negli sprechi emotivi, rivelandosi brano di buona fattura. Con voci filtrate alla maniera di una Imogen Heap, e una progressione studiata nei dettagli, la canzone si scopre ballata accorata e intensa, un passo a due che sventa ogni leziosità e strappa alla Minogue una discreta interpretazione. Il rientro in pista della conclusiva “Fine” (bel numero in scia quasi house) o il dolce motivetto incluso come bonus-track “Sleeping With The Enemy” strappano infine qualche buona sensazione. Il resto, grosso modo scivola via senza destare particolari clamori.
Quel che insomma manca da tanto, troppo tempo, a Kylie e al suo entourage è ideare un full-length che sappia davvero reggersi in piedi come tale, e non che sia un semplice pretesto per sfornare quei 3-4 singoli destinati al pubblico più generalista (che stavolta faticherà ad arrivare più che mai). Ma la sensazione è che stavolta nemmeno sul formato singolo riusciremo a vederne delle belle....
22/03/2014