La luccicante storia del mainstream pop non è di certo nuova a "massacri", disastri annunciati e cali vertiginosi di gradimento in grado di spedire nel baratro carriere fino ad allora considerate inattaccabili: da Janet Jackson a Mariah Carey, per non parlare più di recente del tracollo di consensi registrato da Lady Gaga, il pubblico fa presto a cambiare aria e concentrarsi su volti più freschi (spesso anche più innocui), se certe prese di posizione o certi sound stonano col consenso generale. Le tonnellate di odio che sta ricevendo in questi giorni Katy Perry, e il suo quarto album a titolo "Witness", hanno tuttavia dell'inaudito. Non è tanto la violenza qui a stupire (in tempi social se ne sono viste e lette di tutti i colori) quanto il fatto che, in tutta sincerità, le giustificazioni addotte per questa insurrezione popolare sono tra le più pretestuose e prive di fondamento mai viste. Intendiamoci, la stessa Perry e soprattutto il suo management non è che si siano mossi nella maniera più oculata. Si poteva evitare di parlare di pop consapevole e dal taglio politico se poi si finisce col proporre un testo all'acqua di rose come quello per "Chained To The Rhythm", fin troppo debole nella sua retorica anticonformista, e forse anche la collaborazione con gli "omofobi" Migos poteva essere gestita con maggiore oculatezza (di questi tempi ci vuole poco a finire nelle grinfie dei social justice warrior da tastiera). Tuttavia all'uscita molti avevano già deciso che questo album era uno schifo, la copertina tra le peggiori mai viste, la produzione indegna di essere presa anche solo in considerazione. La realtà, a conti fatti, ribalta sotto molti punti di vista una prospettiva fin poco meritoria.
Detto questo, tutti si sono trovati concordi nell'affermare che per la prima volta, da quella che è sempre stata una cantante nota più per i singoli macina-record che per la consistenza dei suoi album, si è arrivati finalmente a trovarsi di fronte un'artista dotata di progettualità, con la voglia di imbastire una raccolta pensata in quanto tale, foss'anche una collezione di pezzi dal taglio confessionale. In effetti, "Witness" è il tentativo (non sempre riuscito, va detto) di andare oltre il personaggio macchiettistico costruito nel corso dei precedenti album e di presentare invece i lati più maturi, volendo anche più "veri", di Katheryn Hudson, più libera di essere se stessa. Non sarà di certo un concept di suo particolarmente fresco, di album che parlano di crescita e riscoperta se ne contano a centinaia, eppure sono ben pochi quei dischi che si fanno testimoni di un'analoga maturazione anche sotto il profilo puramente musicale/artistico, donando maggiore compattezza anche al lato testuale. Con una produzione sfaccettata, capace di andare quasi sempre oltre le piatte tendenze tropical/trap delle ultime stagioni, una scrittura solitamente priva delle noiose moine da cartoon del passato e un rafforzamento nelle interpretazioni, il quarto album è il primo vero passo nella direzione giusta da parte di una popstar fin troppo condiscendente a considerare i suoi prodotti sulla lunga durata come parate di filler senz'anima. Speriamo che il backlash ricevuto da parte dei fan (ancora rimasti alla bambolona con la panna che esce dal reggiseno) e della critica non la convinca a tornare sui propri passi.
"Witness" vede infatti finalmente Perry affrancarsi dallo strapotere produttivo di Dr. Luke e giocare con una palette sonora in cui il linguaggio dance-pop delle vecchie prove si tramuta in un fluire più eccitante e curioso tra umori e sensazioni, mantenendo sempre intatto un canovaccio electro di base. In questo senso, anche la penna si smarca spesso dalla ricerca del refrain istantaneo e della costruzione sempre in maggiore, piena di enfasi e sintomatica gioiosità. I singoli, pur trascinanti e costruiti alla perfezione per il loro scopo, si fanno comunque testimoni dell'avvenuta trasformazione, della voglia di evasione da un personaggio arrivato alla canna del gas. La già menzionata "Chained To The Rhythm" azzecca la migliore melodia di Sia Furler da anni a questa parte, per un bel midtempo che unisce con disinvoltura stacchi dancehall e armonie disco, tirando fuori un'avvincente linea di basso e una cupezza inedita nel modo in cui vengono trattati i cori di sottofondo. E così, la tanto vituperata "Bon Appétit" opta con successo per il minimalismo e la ripetizione melodica, sopra una base balearica in cui gli innuendo sessuali di Perry (ancora riescono a provocare scandalo?) trovano un refrain tra i più irresistibili della stagione e una progressione semplicemente assassina (discorso che si può compiere analogamente per "Swish Swish", in compagnia dell'onnipresente Nicki Minaj, il famigerato dissing contro Taylor Swift che punta al dancefloor con le sue grintose cadenze future-house).
È soprattutto andando oltre i singoli che la situazione mostra però il suo pieno potenziale. Fatti salvi i brani prodotti dai Purity Ring, davvero troppo scontati nelle soluzioni melodiche (purtroppo l'ambito delle ballad diventa sempre più rischioso, e due canzoni come "Mind Maze", sorta di romanza post-dubstep carica di autotune, e "Miss You More" cadono in tutti i cliché di scrittura che ci si può aspettare), l'album non presenta praticamente cali di sorta, si pone a paradigma di come possa suonare il pop nel 2017 senza grosse concessioni all'universo black. "Tsunami", l'autentico capolavoro della collezione, si muove con passo felpato e tocco atmosferico, proponendo un aggiornamento electro della downtempo di qualche decennio fa, dando spazio all'interpretazione più soffusa e "accogliente" di Perry. "Power" riprende il genio ricombinante del Kanye West di inizio decennio e lo adatta a un complesso motivo pop in cui elementi jazzy, paradisi sintetici e momenti di maestria percussiva contribuiscono al più potente e fiero episodio della collezione. Non che "Hey Hey Hey", con la progressione sonora incrementale e i crescendo strofa-ritornello inarrestabili, sia da meno quanto a empowerment e voglia di spiccare senza rinuncia alcuna; di rimando "Pendulum", il motivo blue-eyed-soul che in Inghilterra non si riesce a centrare dai tempi di Amy Winehouse, perfeziona i refrain a pieni polmoni dei tempi di "Teenage Dream" privandoli di gran parte della melassa, lasciando che l'euforia si manifesti senza troppi ghirigori e buonismi associati.
Tra un rimando all'estetica vintage-synth della Gaga degli esordi ("Roulette", che si avvale comunque di un taglio melodico capace di tenere a distanza la fiacchezza espressiva di un "The Fame") e vibranti bozzetti house dall'anima notturna ("Déjà Vu"), non vi è spazio insomma per troppi momenti di stanca: i brani aggiuntivi dell'edizione deluxe alzano ulteriormente il tiro, con "Dance With The Devil" a tentare la carta dell'astrazione compositiva propria di Arca. "Witness" gioca insomma con successo e sufficiente personalità le carte a sua disposizione.
È insomma un peccato che l'album finirà con il risultare il meno ricordato della carriera di Perry, ripescato forse soltanto per le note di colore che ne hanno accompagnato l'uscita piuttosto che per i suoi contenuti musicali. Per quanto si sia ancora lontani da una tracklist immacolata come quella di "E·MO·TION", il percorso imboccato dalla cantante è quello giusto, checché ne pensino i fan nostalgici o i detrattori testo-centrici. Il tempo stabilirà se ci sarà la possibilità di una redenzione, l'unica speranza è che, anche con numeri comprensibilmente ridimensionati, la voglia e il coraggio della statunitense ne portino i prossimi passi sempre più lontano da un passato con cui ormai la distanza pare incolmabile. Attendiamo fiduciosi.
20/06/2017