E invece, nonostante tali premesse, "The Pinkprint" è tutto tranne che un album trash. A un passo dalla consacrazione mondiale, finora smodatamente perseguita a colpi di ego degni d'un Kanye West, la Minaj compie un sorprendente passo laterale, tagliando del tutto i folli singoli dance che l'avevano resa famosa per tornare alle proprie radici hip-hop, al trap più oscuro o eventualmente espandendo verso certe atmosfere electro-r'n'b attualmente proposto da gente come Jhené Aiko e Tinashe.
I segnali per una svolta soft in verità non erano mancati, erano solo rimasti oscurati dal suo stesso culo! La vulnerabile "Pills N Potions", singolo ormai vecchio di mesi, aveva un andamento mesto come un pezzo di Mike Skinner in preda alle crisi d'amore, e faceva intravedere Nicki come un'inedita femmina ferita. Su tale scia seguono quindi pezzi delicati come "All Things Go", che racconta di tristi vicende biografiche, o l'intensissima "I Lied", la slow-jam "Get On Your Knees" con ospite Ariana Grande, il bel ritornello-anthem di "The Night Is Still Young", le raffinatezze di "The Crying Game", scritta e cantata addirittura con Jessie Ware, e un "Grand Piano" strappalacrime con violini neoclassici. Anche la Sig. Carter è tutto sommato contenuta su un pezzo da night-club quale "Feeling Myself", ma convince già meno "Bed Of Lies" con Skylar Grey.
Il più recente singolo "Only" è invece un trap terso, monotono e zeppo di superospiti, che renderà sicuramente felici i fan della prima ora, ma è decisamente insulare per il (numeroso) pubblico che era rimasto ipnotizzato dalla sua "Anaconda" – da notare, infatti, che in questo caso lo "scandalo" necessario al lancio è stato destato giusto dall'accostamento di un lyric video dai richiami nazisti (una mancanza di tatto che a Nicki è costata tantissimo a livello mediatico, e alla quale ha posto rimedio pubblicando un video ufficiale dai toni completamente differenti). Il rimanente dei pezzi di "The Pinkprint" segue dunque questo ritorno all'hip-hop autocelebrativo e fortemente emancipato, snocciolato su basi scarne ed essenziali dove Nicki è sempre in grado di riempire i vuoti con la sua naturale presenza, ma che di fatto sulla lunghezza di oltre un'ora di durata fa calare la palpebra a chi già non mastica il genere (la versione deluxe di brani ne presenta ben 19).
Non si può certo rimproverare una mancanza di coraggio a "The Pinkprint" che anzi suona come una celebrazione massima ai limiti del solipsismo, e dimostra che Nicki Minaj ha un'ardita visione artistica di se stessa che va ben oltre i 15 minuti di gloria prestabiliti. Quel che manca a questo giro però – "Anaconda" esclusa – è forse un po' sano divertimento, di quella Nicki fuori di testa che sapeva arraffare e strafare, divertire e portare tutti in pista in un gioioso circo trash. Con quel culo, del resto, se davvero lo volesse potrebbe smuovere dalla sedia persino la regina Elisabetta. You got buns, ma'am?
(30/12/2014)