Vidi Mike Skinner, aka The Streets, a un festival nel luglio del 2003. Presentato come uno dei fenomeni più significativi e rivoluzionari del rap, sicuramente come una delle realtà più interessanti del panorama musicale albionico, con un solo disco si era assicurato un posto di tutto rispetto in un cartellone che comprendeva grandi nomi come Radiohead, Massive Attack, Dave Gahan e Underworld. Già in quel periodo si diceva che le canzoni per il seguito dell'acclamatissimo "Original Pirate Material" fossero praticamente tutte pronte, e che nell'esibizione avrebbe soprattutto presentato le nuove composizioni. Particolare non secondario, chi scrive era fra i molti che si sono esaltati per l'inventiva opera prima del buon Skinner. Il concerto della one man band nota come The Streets fu a suo modo deludente. Negli occhi di Skinner si vedeva soprattutto il terrore di sbagliare. E, si sa, di solito questo terrore porta proprio a sbagliare. Mal regolati i suoni (o si sentiva la voce o si sentivano le basi), goffo sul palco lui. Poca esperienza, ma soprattutto quella paura di fronte a migliaia di persone...
Aggiungo solo che, ad un pubblico accaldatissimo, tirava la birra. Ora, se tiri l'acqua verso la folla, la gente si sente rinfrescata. Se tiri la birra, la gente si sente appiccicosa. E delle canzoni nuove solo un paio di striminziti scampoli.
Ok, il secondo album è sempre un ostacolo duro... Soprattutto quando si ha alle spalle un esordio di tale calibro. Forse voleva rifinire, lavorare ancora su quelle canzoni che dovevano confermare la sua statura di enfant prodige del garage-rap britannico. Quasi un anno dopo, "A Grand Don't Come For Free" lascia di nuovo intravedere quella paura. Di osare. Di quella sfacciataggine che tanto aveva dato a "Original Pirate Material". Rimane, questo sì, il suo modo di rappare così personale e dall'irresistibile quanto marcato accento popolano.
"It Was Supposed To Be So Easy" (si) apre con quel tono da epica metropolitana che già caratterizzava la prima traccia di "Original Pirate Material", e se ai ritmi lenti del secondo pezzo si può pensare che con questo album Skinner si sia voluto giocare la carta dell'intimismo, la scusa cade (miseramente?) con la successiva "Not Addicted", semplicemente fiacca. Sfortunatamente non basta rallentare i tempi per parlare al cuore. Anche "Blinded By The Light", pur senza essere sgraziata, manca di mordente, nonostante il provvidenziale impiego di cori femminili.
Le capacità ci sono ed ogni tanto, sebbene un po' troppo di rado, spuntano fuori. E' il caso del divertente duetto "Get Out Of My House", in cui pure le stonature sono perfette.
Solo che, purtroppo, "A Grand Don't Come For Free" manca di quelle schegge impazzite di semplici basi anfetaminiche che erano la forza dell'opera prima e la cui assenza, non adeguatamente rimpiazzata, crea un senso di vuoto impossibile da ignorare. E quando si tentano altre strade, non sembrano portare così lontano. E' il caso del primo singolo, "Fit But You Know It", che si sposta sul terreno dei N*E*R*D senza però essere accattivante come le canzoni di Pharrell Williams e soci. Non che sia brutta, intendiamoci. Anzi, è bellina alquanto. Ma quel riff fra Strokes e "The Jean Genie" di Bowie, sebbene trascinante, lascia un po' perplessi... Diciamolo: quando entra in scena il basso sembra che sia stato messo in loop un campionamento (non dichiarato) proprio di "The Jean Genie". Mi si dirà che il riff di "The Jean Genie" era talmente spudoratamente rock'n'roll da essere inciso nel codice genetico di ogni nato nel ventesimo secolo. E' vero, ma perché non azzardare qualcosa di un po' più sorprendente, allora?
L'accoppiata "Such A Twat" - "What Is He Thinking?", altri due tempi medi, porta con sé la verità: per sentire qualcosa che dia davvero la scossa bisogna ascoltare con il tasto del fast forward premuto. La seconda fa un po' meglio della prima, grazie a certe atmosfere da vecchio film noir. La chitarra acustica e gli archi simulati di "Dry Your Eyes" lasciano un po' perplessi: l'abbiamo già detto, con noi la storia dell'intimismo non attacca. Risolleva il morale la convincente traccia finale, una "Empty Cans" dall'andamento inarrestabile (e infatti dura più di otto minuti).
Forse con questo disco sono stato un po' troppo duro. Ma non è così che succede quando la delusione è più forte? Mike Skinner ha le carte in regola per diventare un grandissimo, e in fondo lo lascia intravedere anche in questo disco. Ma è proprio per questo che dà fastidio il fatto che bamboleggi qua e là senza arrivare al punto. "A Grand Don't Come For Free" rimane lo stesso un disco da avere se vi piace il genere. Però difficile non rimanere con l'amaro in bocca. Azzardando una metafora calcistica, un lungo possesso di palla senza nessuna azione pericolosa. Quando gioca così, l'Inter pareggia zero a zero. Staremo a vedere come andrà il ritorno.
12/12/2006