Rinascita sì, ma non spersonalizzazione: per quanto figuri in cabina di regia l'autore di “Gentle Spirit”, attualmente tra i più richiesti produttori nel settore roots/folk (ultimamente al lavoro con i Dawes e i Deep Dark Woods), ogni idea, ogni accordo, ogni singola parola sono piena proprietà dello stesso Harper, il cui slancio creativo lo riporta dritto alla fervida ispirazione degli anni Settanta. Le sette canzoni dell'album risultano pertanto classiche nel senso più nobile del termine, totalmente avulse da ogni precisa collocazione temporale eppure mai ricoperte di muffa: merito del lavoro di Wilson, il quale, più che nei contributi di Jeff Tweedy alla bella ripartenza dell'altro grande disaparecido Bill Fay, dona alle creazioni del britannico spessore e pulizia davvero inusitati.
Nella carrellata di personaggi che si susseguono incessantemente nei cinquantuno minuti dell'album (personaggi che interagiscono con l'universale e l'autobiografico con estrema disinvoltura), lo sguardo di Harper, acuto e penetrante, viaggia tra le relazioni umane, sconfina nel politico (attacca senza pietà banchieri, gossippari e tante altre categorie di personaggi a lui invise), racconta semplici storie di vita vissuta con l'esperienza e la saggezza proprie dei suoi trascorsi. Un manifesto lirico a cui corrisponde una magia compositiva degna della stagione dei suoi capolavori: se commosse ballate come “Time Is Temporary” (giocata anche su un intelligente utilizzo degli archi) o la splendida “January Man” (per chi scrive, la vetta del disco) rimanda ai fasti emotivi di “Flat Baroque And Berserk”, con un pizzico di romanticismo in più che non guasta mai, l'elettricità che serpeggia tra gli arpeggi e le narrazioni di “The Enemy” e “Cloud Cuckoo Land” richiama alla memoria le incursioni più rock e muscolari di “Lifemask”, alle quali si sovrappongono gentili linee jazz e blues, adesso riscoperte da autori che potrebbero essere i nipoti di Harper.
Non vi è però alcuna calligrafia, alcun rimpianto nostalgico nella penna del mancuniano: la grammatica dell'autore gode di una freschezza e di una flessibilità invidiabili, pure nel confronto aperto con la forma espressiva che lo ha “consegnato” alla storia. Lunga, flessuosa, elaboratissima negli interventi strumentali (che paiono quasi dare nuova vita alla gloriosa epoca del folk birtannico), la suite “Heaven Is Here”, spirito progressivo e fascino antico, affronta con ammirevole fluidità l'imponente simulacro di “Stormcock”, offrendone le poderose suggestioni e l'afflato epico in pasto alle nuove generazioni: uno tra i migliori quarti d'ora che possiate ascoltare quest'anno.
E si potrebbe andare avanti con le altre canzoni, ma non se ne sente poi l'urgenza: non sono necessarie più parole delle tante qui spese per accogliere come merita uno dei più importanti ritorni degli ultimi anni. A scapito di tante altre cariatidi da museo, Roy Harper è più vivo che mai; ascoltare per credere.
(19/10/2013)