A zig-zag verso la luce. In fondo è tutto qui il percorso attraversato da Conor Oberst nei suoi ultimi dieci anni di carriera: frammentario, sfuggente, eppure sempre proteso verso qualche lampo nell’ombra, proprio come suggerisce il titolo di uno dei brani più emblematici del nuovo “Upside Down Mountain”.
Era il 2004 quando i Bright Eyes scalavano le classifiche di Billboard con la memorabile accoppiata di singoli tratti da “I’m Wide Awake, It’s Morning” e “Digital Ash In A Digital Urn”. A un decennio di distanza, Oberst sembra ritrovarsi con un grande avvenire dietro le spalle: lasciata da parte (definitivamente?) la sua più fortunata ragione sociale, non sono bastate a riportarlo ai fasti dell’era Saddle Creek un paio di altalenanti prove soliste, né la partecipazione al supergruppo Monsters Of Folk. Così, ormai convolato a nozze e dismessi i panni ingombranti dell’iperprolifico enfant prodige, Oberst decide di affrontare la sfida più difficile: quella di misurarsi con il passato.
“A volte la creatività funziona come un pendolo, ti riporta in un luogo in cui ti eri già trovato prima”, riflette il songwriter di Omaha. “Questo disco è un ritorno al modo di scrivere che avevo prima, più intimo o personale”. Non i Bright Eyes criptici e oscuri dell’ultimo “The People Key’s”, insomma, ma quelli più diretti di “I’m Wide Awake, It’s Morning”.
È la veste musicale a segnare la differenza, declinando l’impeto folk di un tempo secondo un canone westcoastiano che suona più affine alla moda neo-hippie. Una direzione su cui pesa in maniera decisiva la mano di Jonathan Wilson in veste di co-produttore, ma anche l’influenza delle allieve First Aid Kit, da sempre fan dichiarate di Oberst e presenti con le loro armonie vocali nella maggior parte dei brani di “Upside Down Mountain”.
Non c’è da sorprendersi, allora, della vena Seventies che percorre un po’ tutto il disco, tra effetti wah wah (“Double Life”), ritornelli appiccicosi (“Zigzagging Toward The Light”) e caroselli di organo e tastiere (“Governor’s Ball”). “Hundreds Of Ways” si fa avanti a passo spigliato, tra un carnevale di fiati e un intreccio di chitarre in puro stile Paul Simon. Eppure, più la cornice si arricchisce più l’enfasi sembra prevalere sulla misura: anche i classici crescendo di brani come “Time Forgot” e “Desert Island Questionnaire” mostrano un eccesso di orpelli che fa pensare agli Okkervil River di “I Am Very Far”.
Il lato migliore, “Upside Down Mountain” lo mostra allora nei momenti più asciutti, dal fremere di “Artifact #1” alla delicatezza di “Night At Lake Unknown”, fino all’epilogo amaro di “Common Knowledge”. Quando poi la nudità acustica torna a fare capolino in “You Are Your Mother’s Child”, Oberst sembra voler scrivere la “First Day Of My Life” della maturità, raccontando il compiersi dell’amore nel momento del distacco attraverso gli occhi di un genitore che guarda crescere il figlio, e sa di doverlo un giorno lasciare andare per la sua strada.
È il bisogno di fare i conti con il passato a fare da tema conduttore dei brani di “Upside Down Mountain”. Fin dai primi versi del disco, Oberst si mostra pronto a un nuovo inizio: “Polished my shoes, I bought a brand new hat/ Moved to a town that time forgot/ Where I don’t have to shave or be approachable/ No, I can do just what I want”. E nel video di “Zigzagging Toward The Light” gioca con lo scorrere del tempo, immaginando di guardare indietro al presente in un 2024 post-apocalittico.
Ma l’unica cosa da cui non si può sfuggire è il riflesso del proprio volto allo specchio: “Maybe no one really seems to be the person that they mean to be/ I hope I am forgotten when I die”, canta Oberst con un velo di disillusione in “Hundreds Of Ways”. “Sono come uno che vorrebbe essere un camaleonte ma non ci riesce”, riflette. “Sono sempre piuttosto riconoscibile, anche quando penso di avere indossato qualche costume. Ma mi piace lo stesso mettermi dei costumi”.
Anche in “Upside Down Mountain”, alla fine, è proprio la riconoscibilità la forza di Oberst. Se non riesce nell’intento di ritrovare l’ispirazione di un paio di lustri fa, di certo il nuovo disco riscatta quantomeno i deludenti esiti del precedente “Outher South”. Ma prima o poi Conor dovrebbe provare a lasciar perdere i costumi. Essere sé stessi, a volte, è la via più facile per ritrovarsi.
06/06/2014