Dipingere un vaso
“Fammi vedere quello che sai fare”. Con tono burbero e scontroso, il vecchio pittore mostra all’aspirante allievo un vaso, poi lo nasconde subito alla sua vista. “Ora disegnalo”.
Non è un personaggio qualsiasi, quello che si trova di fronte al vecchio. L’aspetto trasandato sembra quello di un vagabondo, ma in realtà molti continuano a considerarlo la voce di una generazione: Bob Dylan. Il pittore, invece, si chiama Norman Raeben ed è arrivato in America dalla Bielorussia, dove è nato all’inizio del Novecento.
“Cominciai a disegnare”, racconta Dylan, “ma non mi ricordavo nulla di quel vaso: l’avevo guardato, ma non l’avevo visto”. La storia di “Blood On The Tracks”, il capolavoro più intimo e sofferto della discografia dylaniana, comincia proprio da quel vaso. Perché Raeben, per Dylan, diventa molto più di un insegnante di pittura: “Non ti insegnava tanto a dipingere o a disegnare, ti insegnava a far sì che la tua testa, la tua mente e i tuoi occhi comunicassero fra di loro, a farti realizzare visivamente ciò che è reale. Guardava nel tuo animo e ti diceva chi eri”.
Ma perché Dylan, nel bel mezzo degli anni Settanta, ha bisogno delle lezioni di un pittore-filosofo?
Guardare il sole
Chi fissa in faccia il sole ne rimane sempre accecato.
In una mattina d’estate del 1966, Dylan punta gli occhi verso la palla di fuoco che domina il cielo e perde il controllo della propria moto. “Ricordo che qualcuno, da piccolo, mi aveva detto di non farlo mai”. Ma, proprio come per il vaso di Raeben, non basta sentire. Occorre imparare ad ascoltare.
Già da tempo, lo sguardo di Dylan era abbagliato da una luce troppo intensa per poter essere sostenuta: la sua corsa in preda alle visioni del fantasma dell’elettricità, culminata negli eccessi del tour del 1966, doveva interrompersi in un modo o nell’altro.
Il destino ha voluto che ad arrestarla fosse un incidente motociclistico. Ma Dylan preferisce farne una specie di racconto chassidico: l’ammonimento inascoltato, la luce del sole, la vista oscurata. Perché quello è stato quello il giorno in cui ha deciso di voltare pagina.
Perdersi e ritrovarsi
Rintanato nella propria casa di Woodstock con la moglie Sara e i figli, Dylan sembra voler sfuggire al mito che lui stesso ha contribuito a creare. Scende nella cantina dei “Basement Tapes” insieme alla Band, in cerca le tracce di sé e dell’America. Cambia voce, dipinge il più infedele degli autoritratti. Ma quando alla fine sente il bisogno di riprendere quella strada da cui si era voluto allontanare, si trova improvvisamente a scoprire che qualcosa dentro di lui è andato perduto. Deve imparare a fare in modo cosciente, per usare le sue stesse parole, quello che prima riusciva a fare inconsapevolmente.
Ed è così che entra in scena Raeben: tornato da solo nella primavera del 1974 in una New York infiammata dalle prime avvisaglie della rivoluzione punk, Dylan riprende a bazzicare i locali della Grande Mela e frequenta quasi ogni giorno le lezioni del pittore. I suoi insegnamenti sulla percezione dello spazio e del tempo, ispirati alla struttura delle pagine del Talmud, diventano la chiave di volta di un nuovo approccio alla scrittura per il songwriter di Duluth, una visione in cui “ieri, oggi e domani stanno tutti nello stesso spazio”. Il conflitto tra passato e presente può sciogliersi soltanto in un eterno qui ed ora: “Una canzone deve essere abbastanza eroica da dare l’impressione di avere fermato il tempo”.
New York, settembre 1974
Quando Dylan entra negli studi A&R di New York, il 16 settembre 1974, ha con sé un pugno di nuovi brani scritti durante l’estate precedente, nel corso di una vacanza nel Minnesota in compagnia dei figli. Il ritorno on the road per il tour con la Band ha contribuito a incrinare ulteriormente il rapporto con la moglie, che già da qualche tempo sembrava essere entrato in crisi. “Non riusciva mai a capire di cosa stessi parlando o a cosa stessi pensando, né io ero in grado di spiegarglielo”: Dylan sente Sara sempre più lontana, e il tormento di questa distanza percorre nel profondo i brani scritti facendo tesoro dei dettami di Raeben.
Abbandonata l’idea di avvalersi di un vero e proprio gruppo di supporto, Dylan opta per un accompagnamento ridotto all’osso e in quattro giorni di registrazioni (destinati a passare agli annali semplicemente come le “New York Sessions” e testimoniati fedelmente da “More Blood, More Tracks”, il volume delle “Bootleg Series” pubblicato nel 2018) tratteggia una silloge scarna ed essenziale di canzoni fatte di pennellate acustiche e morbide volute di basso, su cui si fanno lentamente strada il lamento dell’armonica, la carezza della pedal steel e una soffusa cornice di tastiere. Canzoni per le quali, come ha scritto Greil Marcus, vale lo stesso monito dato da Melville ai lettori di “Moby Dick”: “Avvertite tutte le persone delicate e sofisticate di astenersi anche solo dal dare una sbirciatina”. Perché non fanno sconti, non cercano eufemismi: vanno dritte al punto come una confessione.
Amare, come idioti
“Love is so simple, to quote a phrase”: ci crede davvero, Dylan, quando in “You’re A Big Girl Now” fa eco alle parole sospirate da Arletty in “Les enfants du paradis”? Può sembrare un atto naturale, qualcosa di innato come respirare o nutrirsi. Ma a volte non è scontato neppure riuscire a portarsi il cibo alla bocca: “We’re idiots, babe/ It’s a wonder we can even feed ourselves”, canta amaramente in “Idiot Wind”.
No, non c’è niente di semplice nell’amore. Perché amare significa superare l’estraneità che ci separa dagli altri, il vento idiota che soffia ogni volta che apriamo la bocca. Quel vento che ulula come un ammonimento biblico tra i nostri teschi, quel vento che spazza la nostra rabbia e il nostro risentimento. Eppure, la melodia nostalgica di “Simple Twist Of Fate” suggerisce che non può essere tutto un semplice scherzo del destino: “I still believe she was my twin, but I lost the ring/ She was born in spring, but I was born too late/ Blame it on a simple twist of fate”.
Andare controvento è la strada dell’amore, e non c’è strada più difficile. Tra il romanzo western di “Lily, Rosemary And The Jack Of Hearts” e il blues di “Meet In The Morning”, quello che Dylan sta cercando di afferrare è molto più di un semplice break-up album: l’amore si trasfigura nella mistica, secondo l’archetipo stilnovista di quel misterioso “Italian poet from the thirteenth century” che compare in “Tangled Up In Blue”. Ed ecco che l’apparizione evocata da “Shelter From The Storm” – braccialetti d’argento ai polsi e fiori intrecciati tra i capelli – viene rapita da una prospettiva che precede la creazione stessa del mondo: “Beauty walks a razor’s edge, someday I’ll make it mine/ If I could only turn back the clock to when God and her were born”. La bellezza che salverà il mondo è anche quella che nessuno potrà mai possedere.
Non si tratta più solo di un sentimento, ma della ricerca di un punto di fuga in cui si riflette ogni cosa: “You’re gonna have to leave me, now I know/ But I’ll see you in the sky above/ In the tall grass in the ones I love”, confessa Dylan sulla spensieratezza solo apparente di “You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go”. Il tormento più terribile è quello di scoprire che, nel tentativo di raggiungere quel punto, si è finito col distruggere con le proprie mani la promessa che si era intravista.
Minneapolis, dicembre 1974
“L’artista non vuole arrivare alla fine”, recita uno degli insegnamenti fondamentali di Raeben. “Anche quando tutti dicono che la sua opera è compiuta, lui non lo pensa mai. L’opera deve essere sempre incompiuta”. E non a caso, quando l’album è praticamente già pronto per la pubblicazione, Dylan decide di rifarlo da capo.
Tornato dalla famiglia in Minnesota per le vacanze di Natale, alla fine di dicembre del 1974 Dylan improvvisa delle nuove sessioni di registrazione negli studi Sound 80 di Minneapolis, in compagnia di un gruppo di musicisti locali. Nasce così la versione definitiva di “Blood On The Tracks”, pubblicata il 20 gennaio del 1975, in cui la metà dei brani della scaletta viene rimpiazzata rispetto alle versioni precedenti.
Non sono semplicemente nuove declinazioni, quelle di Minneapolis, ma vere e proprie riscritture, spesso anche nei testi. Basta il confronto con l’incedere mesto di “Idiot Wind”: dove prima dominava l’afflizione, ora entra in campo una diversa enfasi, una veemenza fatta di rabbia, di rancore, di sarcasmo. Il bisogno di guadagnare distanza rispetto a una fragilità troppo aperta, forse, o semplicemente la preoccupazione che qualcosa di così spoglio possa restare incompreso. La voce di Dylan sembra volersi elevare in un ululato di dolore, la presenza della batteria conferisce più energia al modo in cui aggredisce i versi, il suono dell’organo diventa incalzante e avvolgente.
Il cuore pulsante, però, resta sempre lo stesso. E ha direttamente a che vedere con la grande equazione tra la vita e il viaggio: “But me, I’m still on the road/ Headin’ for another joint”, proclama Dylan alla fine della traiettoria circolare di “Tangled Up In Blue”, mentre la linea stessa del tempo sembra dissolversi in un riverbero di punti di vista diversi. Forse il segreto sta nella semplicità quasi sapienziale di “Buckets Of Rain”, la morbida filastrocca folk con cui Dylan decide di chiudere il disco: “Life is sad/ Life is a bust/ All you can do is do what you must/ You do what you must do and you do it well/ I’ll do it for you, honey baby, can’t you tell?”.
C’è un compito da svolgere, non resta che tornare sulla strada.
Il Tuono Rotolante è ormai alle porte.
29/10/2006