La grande meraviglia bianca
“Un disco con una copertina bianca, senza marchi né etichette, viene venduto furtivamente in giro per il Paese”. Se il ritaglio di giornale non fosse del 1969, verrebbe da pensare che si tratti di qualche registrazione segreta delle intercettazioni del Presidente. Invece, il disco di cui parla l’articolo non è altro che una strana raccolta di canzoni incise da Bob Dylan al fianco della Band. In copertina campeggia solo un titolo: “Great White Wonder”. Un disco pirata. Il primo bootleg della storia.
La Columbia Records cerca subito di correre ai ripari con avvocati e carte bollate: “Abbiamo ricevuto numerose lamentele per la scarsa qualità delle registrazioni da parte di clienti che apparentemente credono che si tratti di un normale prodotto della Columbia”. Ma è troppo tardi. Quelle canzoni continuano a circolare clandestinamente, alimentando un mistero ancora più grande. Perché quella contenuta nel disco bianco non è che una minima parte delle registrazioni destinate a passare alla storia con il nome di “Basement Tapes”.
Quella dei “Basement Tapes”, del resto, è sempre stata la storia di una cospirazione. “Una piccola cospirazione tramata da noi che ci divertivamo ad ammazzare il tempo”, per usare le parole di Robbie Robertson. “Erano come i nastri del Watergate. Di molta di quella roba Bob disse: Dovremmo distruggerli”.
E, per le prove di una cospirazione, non potrebbe esserci via di diffusione più consona di quella sotterranea. Nemmeno la versione ufficiale dei “Basement Tapes”, selezionata e ripulita da Robertson nel 1975, riesce a svelare il segreto: troppo parziale per rendere giustizia al “più famoso album che non è mai stato pubblicato”. E i bootleg non smettono di proliferare.
Oggi, a più di quarant’anni di distanza da quelle sessioni perdute, l’undicesimo volume delle “Bootleg Series” pone finalmente rimedio alla più grande lacuna della discografia dylaniana. E lo fa nella maniera più esaustiva possibile, con una collezione di sei dischi e ben 139 brani (concentrata nella versione “Raw” in un’antologia di due Cd), capace di conquistare immediatamente lo status di vera e propria pietra miliare.
Stanze rosse e case rosa
Le Catskill Mountains cominciano a colorarsi di primavera quando Dylan, nei primi mesi del 1967, decide di farsi raggiungere nel suo rifugio di Woodstock dagli Hawks, il gruppo che l’ha accompagnato in tour l’anno precedente. La guerriglia elettrica del 1966 si è interrotta con lo schianto di una moto sull’asfalto. Ora Dylan ha bisogno più di amici che di combattenti: “Avevo poco in comune, e ne sapevo ancora meno, di una generazione della quale avrei dovuto essere la voce”.
La summer of love è alle porte, ma quella strana brigata sembra vivere in un altro tempo: al caleidoscopio floreale preferiscono barbe incolte e vestiti da campagna. Hanno l’aspetto di coloni appena sbarcati in una nuova terra. Da quel momento persino il loro nome non sarà più lo stesso: per tutti saranno semplicemente The Band.
A definire i “Basement Tapes” non è tanto un luogo. Le registrazioni che cominciano a prendere forma in quei giorni del 1967 hanno teatri differenti: lo scantinato della celeberrima “Big Pink”, la casa rosa affittata da Dylan e soci a Woodstock, ma prima ancora una stanza al piano superiore, la cosiddetta “Red Room”, per finire poi tra le mura della casa di Wittenberg Road dove si erano trasferiti Levon Helm e Rick Danko.
È l’unicità dell’approccio, piuttosto, il vero denominatore comune. Dylan e la Band non sono al lavoro su un nuovo disco, quando si mettono a suonare in quel bizzarro esilio. Stanno cercando qualcosa, qualcosa che corre il rischio di andare perduto. E quella che potrebbe sembrare soltanto una fuga dalla realtà si rivela al contrario l’atto fondante di una nuova edificazione: l’assemblea costituente dell’Americana. “Le canzoni dei “Basement Tapes” sono come una rappresentazione dell’antica maschera americana”, scrive Greil Marcus. “In quella cantina il Paese era ancora nuovo e puritani e pionieri erano tutt’altro che storia antica”. Sono i loro fantasmi che popolano quei nastri. Ed è a quei fantasmi che Dylan e i suoi compagni d’avventura si rivolgono per ritrovare l’essenza della loro America.
Quando il circo arriva in città
I “Basement Tapes”, in fondo, non sono altro che un grande medicine show. Ci sono venditori di Bibbie e fenomeni da baraccone, innamorati ubriachi e imbonitori da quattro soldi. Hanno nomi come maschere di una commedia antica: Tiny Montgomery e Silly Nelly, Skinny Moo e Mrs. Henry. Ora invocano la salvezza dell’anima, ora incitano ad abbandonarsi al vizio. L’ermetico va di pari passo con il triviale, il “Re Lear” di Shakespeare con “Blueberry Hill” di Fats Domino.
L’improvvisazione e l’incompiutezza entrano prepotentemente nell’estetica traballante dei nastri della cantina. Lo si sente già dal tamburello sghembo di “Edge Of The Ocean”, dal suo scheletro di chitarra e tastiere, da quella voce che abbandona l’invettiva per farsi inaspettatamente confidenziale. L’assenza della batteria nella maggior parte dei brani (Levon Helm raggiungerà il gruppo solo in un secondo momento) contribuisce a rendere i contorni più sfuggenti. Parte una vecchia canzone portata al successo da Hank Williams, “My Bucket’s Got A Hole In It”, ed ecco un urlo liberatorio, viscerale, catartico. Il registratore di Garth Hudson cattura parole, risate, ululati, canzoni vere e proprie e semplici brandelli di musica. Soprattutto, cattura un suono che da mercuriale diventa terrigno, polveroso, sgranato.
L’ordine cronologico scelto per l’edizione integrale dei “Basement Tapes” (ad eccezione del sesto Cd, che raccoglie in maniera trasversale le registrazioni più a bassa fedeltà) consente di seguire passo dopo passo l’evolversi del viaggio.
All’inizio, tutto ruota intorno a un pugno di cover, tra classici country (“You Win Again”) e drinking song (“Ol’ Roisin The Beau”). L’ombra dell’Uomo in Nero, però, è quella che si staglia in maniera più netta: dal canzoniere di Johnny Cash arriva anzitutto una fiammeggiante “Belshazzar”, con l’organo di Hudson ad avvilupparsi intorno agli scatti della chitarra di Robertson. Poi, Dylan snocciola i versi di “Big River” con implacabile determinazione, fino a lanciarsi in una “Folsom Prison Blues” che suona come se ci si trovasse ancora sui palchi del 1966.
L’atmosfera, quando si passa al secondo disco, si è fatta più calda. Anche il tasso alcolico sembra essere aumentato, a giudicare dal modo in cui Dylan guida il gruppo nei cori sgangherati di “Kickin' My Dog Around” o da come trasforma il rock ’n’ roll di “See You Later Alligator” in un improbabile “See You Later Allen Ginsberg”. Ma è l’immersione nelle acque del Mississippi a traghettare Dylan verso una più profonda consapevolezza: “Tupelo” di John Lee Hooker si veste di un riff alla Muddy Waters, e il risultato è un blues fumoso e notturno che anticipa di qualche decennio “Modern Times”.
Con il gracchiare di una vecchia radio a transistor, le canzoni dei “Basement Tapes” cominciano allora a sintonizzarsi su tutte le frequenze dell’Americana: ci sono il country e il blues, ovviamente, ma anche il folk a tinte scure da cui nasceranno le ruminazioni di “John Wesley Harding” (da “Bonnie Ship The Diamond” a “The Hills Of Mexico”) e il rockabilly ereditato dagli anni Cinquanta (come quello che anima “Silent Weekend” o il boogie incalzante di “Dress It Up, Better Have It All”).
Sul doo-wop sghembo di “I'm Your Teenage Prayer” Dylan e la Band mettono in scena una sorta di parodia sorniona e lasciva delle canzoni d’amore da jukebox, mentre in “Bourbon Street” indossano i panni di una sguaiata funeral band in giro per le strade di New Orleans. Anche quando le parole suonano improvvisate, è lo slancio delle interpretazioni a trascinare, dallo scintillante R&B di “Baby, Won’t You be My Baby” al crooning giocoso di “What’s It Gonna Be When It Comes Up”, passando per il pianoforte da saloon di “Try Me Little Girl”.
Di puritani e di pionieri
È a quel punto che la vena compositiva di Dylan comincia a prendere una nuova direzione. Il tono si fa più colloquiale, i versi più enigmatici. Nella sua voce sembra di sentire l’eco dei sermoni di Luke The Drifter, l’alter ego da predicatore hillbilly di Hank Williams (di cui non a caso Dylan sceglie di interpretare “Be Careful Of Stones That You Throw”). È l’inflessione più caratteristica dei “Basement Tapes”, quella che a partire da “Tiny Montgomery” va a modellare tutti i brani più celebri della raccolta. È l’accento di una saggezza campagnola, uno sguardo alle cose intriso di mistero che Dylan ha imparato dalla tradizione: “Tutte queste canzoni che parlano di rose che crescono dal cervello della gente o di amanti che in realtà sono oche e cigni che si trasformano in angeli non moriranno”, aveva dichiarato a “Playboy” nel 1966. “Nessuno riuscirà a uccidere la musica tradizionale”.
Rispetto alle canzoni già pubblicate nell’edizione dei “Basement Tapes” del 1975, il nuovo volume delle “Bootleg Series” offre un repertorio di versioni alternative capace di rivelare sfumature nascoste in ogni brano. Ecco allora riemergere una prima versione di “You Ain't Goin' Nowhere” dall’incedere fatalista e sarcastico e una “Million Dollar Bash” accesa di inediti colori, mentre la melodia di “Too Much Of Nothing” si trasfigura completamente nel secondo take, assumendo i tratti di una ballata molto più asciutta di quella che verrà portata al successo da Peter, Paul And Mary.
Si arriva così ai grandi esclusi dalla precedente raccolta dei “Basement Tapes”: non solo “I’m Not There”, già riaffiorata nel 2007 con l’omonimo film di Todd Haynes, ma anche la liturgia gospel-folk di “Sign On The Cross” (uno dei vertici assoluti dei nastri della cantina), monologo stralunato di un predicatore che sembra sbucare direttamente dalle pagine di qualche racconto di Flannery O’Connor: “I know in my head that we’re all so misled/ And it’s that ol’ sign on the cross/ That worries me”. E l’aura sibillina di “Wild Wolf” si svela con un senso di apocalisse imminente, dopo essere stata vagheggiata per decenni dai fedelissimi dylaniani (che nemmeno nei bootleg più minuziosi erano mai riusciti a scovarla).
È in questi tesori nascosti che pulsa il cuore dei “Basement Tapes”. E non c’è da stupirsi che i cavalli di battaglia di un tempo (“Blowin’ In The Wind” compresa) suonino quasi fuori luogo quando Dylan prova a riprenderli in mano. Anche la versione di “One Too Many Mornings” portata in scena appena l’anno precedente assume ora un aspetto diverso, spoglio di qualsiasi veemenza e introdotto dalla voce di Richard Manuel. Dylan è già da un’altra parte. In cerca del fantasma dell’America.
“We carried you in our arms/ On Independence Day/ And now you’d throw us all aside/ And put us on our way”. Le parole, nel primo abbozzo di “Tears Of Rage”, hanno un sapore desolato di abbandono. Dov’è la promessa del Giorno dell’Indipendenza? Dov’è la promessa che i figli hanno sentito ripetere dalla voce dei padri? È quella promessa il tesoro nascosto di cui i cospiratori di Woodstock sono alla caccia. Puritani e pionieri, come attori spettrali, si ritrovano in quella cantina per custodire la sua memoria. Per non lasciare che svanisca nelle acque dell’oblio, per restituirle l’eternità. L’eternità della repubblica invisibile.
18/11/2014
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