"The New Dark Ages". Così Bob Dylan aveva definito i tempi moderni all’epoca di "World Gone Wrong": tempi in cui l’uomo sembra condannato a rimanere incomprensibile a sé stesso.
Oggi, lo sguardo con cui Dylan scruta gli ingranaggi senz’anima del nuovo millennio è velato dallo stesso sorriso amaro che increspava le labbra dell’operaio Charlot. Il parallelismo con Charlie Chaplin, del resto, è una costante dell’iconografia dylaniana: già all’epoca dell’esordio, John Hammond aveva descritto l’imberbe folksinger del Minnesota come "un vagabondo Chaplin musicale". Con "Modern Times", allora, il cerchio sembra davvero essere compiuto.
Dylan non appartiene ai tempi moderni: è da una dimensione fuori dal tempo che giunge la sua voce, intessuta di immagini bibliche che attingono al pozzo ancestrale del folk dei padri. Quella di Dylan è un’incessante ricerca del tempo perduto, un impossibile tentativo di trattenere anche solo un frammento di quegli istanti che fuggono nella notte, come nella celebre fotografia di Ted Croner posta in copertina dell’album.
"Modern Times" può essere allora considerato come un nuovo tassello nell’ennesimo ciclo della discografia dylaniana , accanto al suo diretto predecessore "Love And Theft". Una continuità sin troppo marcata, a dire il vero, per uno abituato come Dylan a sovvertire sempre le attese. Ma il nuovo disco di Mr. Zimmerman sembra riuscire a conferire una più palpabile tensione alle suggestioni rétro di "Love And Theft", pur senza raggiungere la vertiginosa profondità di "Time Out Of Mind".
Registrato nell’arco di un paio di settimane a New York, dopo avere trascorso due mesi di prove all’inizio del 2006 al Teatro dell’Opera di Poughkeepsie, "Modern Times" si avvale dell’affiatata backing band che accompagna Dylan nell’ultima incarnazione del suo "Never Ending Tour". Tuttavia, se sul palco pare sin troppo facile imputare alla band capeggiata dall’ormai storico bassista Tony Garnier un preoccupante eccesso di manierismo, in studio il gruppo sembra avere trovato un raffinato equilibrio, capace di adattarsi alla perfezione all’atmosfera delle nuove composizioni di Dylan.
Un’atmosfera che evoca le immagini sgranate di un passato intessuto di ricordi, come quelle in cui si muove Scarlett Johansson nel video girato per "When The Deal Goes Down". In un processo quasi metafisico di immedesimazione con le proprie radici, Dylan ricrea così un intero mondo, come se stesse inseguendo l’eco di una gracchiante radio americana degli anni Trenta o Quaranta.
Come già era avvenuto per "Love And Theft", Dylan dirige personalmente ogni dettaglio del suo trentaduesimo album, occupandosi in totale autonomia della produzione del disco sotto lo pseudonimo di Jack Frost. La sua voce, arrochita dal solco delle opere e dei giorni, abbraccia tonalità di crooning scure e profonde come non mai. "A volte sono come abitato dall’eco della voce di Louis Armstrong", afferma. "Non so se il mio modo di cantare si ispiri più al suo timbro di voce sabbioso o a quello della sua tromba quando sembra sussurrare un segreto all’orecchio".
Il sipario dei tempi moderni dylaniani si apre sul proto-boogie di "Thunder On The Mountain", che insegue con la sua incalzante linea melodica l’eco dei volteggi rock ‘n’ roll di "Johnny B. Goode", lasciando volentieri il passo agli eleganti assolo chitarristici di Stu Kimball e Denny Freeman.
Dylan si presenta nelle vesti di un attempato Casanova, impegnato a studiare l’"Ars Amatoria" di Ovidio e a lanciare sguardi maliziosi in direzione di Alicia Keys. Una citazione, quella dell’avvenente cantante r&b americana, che sembra fatta apposta per divertirsi a spiazzare gli esegeti dell’accademia dylaniana : "L’ho incontrata ai Grammy Awards del 2001", racconta sornione His Bobness, "e quando l’ho vista mi sono detto che non c’era niente di quella ragazza che non mi piacesse…".
"Modern Times" alterna con consumata esperienza movimentati blues e soffici ballate d’antan. Così, Dylan torna a danzare sul lieve tappeto jazzistico di "Love And Theft" con lo spirito di un’orchestra da music hall: "Mentre cantavo", rivela, "immaginavo quelle coppie eleganti abbracciate e gli abiti da sera delle donne che si avviluppavano ai passi leggeri dei loro cavalieri…". Ed ecco allora un azzimato Dylan destreggiarsi tra zuccherose carezze in stile Tin Pan Alley come "Spirit On The Water" e "Beyond The Horizon", fino a giungere al soffuso valzer di "When The Deal Goes Down" con l’aria romantica di un vecchio film in bianco e nero.
Sul versante blues, l’intreccio di amore e furto prosegue con il consueto labirinto di citazioni e rimandi: se "Rollin’ And Tumblin’" si propone apertamente come una riscrittura dell’omonimo classico di Muddy Waters, il fantasma del bluesman di Chicago ricompare anche in "Someday Baby", che ruba il riff alla sua "Trouble No More". E quanto a "The Levee’s Gonna Break", non è difficile tracciare la linea che la congiunge a "When The Levee Breaks" di Memphis Minnie, inserita anche dai Led Zeppelin nel loro leggendario quarto album, che con le sue immagini di diluvio sembra acquistare una nuova attualità nell’America ferita dall’uragano Katrina.
Ma "Modern Times", per fortuna, non è solo una collezione apocrifa di standard blues e swing. Ad annunciarlo è il pianoforte nostalgico che sfiora i contorni di "Workingman’s Blues #2", ispirata a un brano di Merle Haggard. Utilizzando ancora una volta una tecnica di scrittura che procede per associazioni di aforismi, Dylan tratteggia in pochi versi la propria personale analisi economica della società occidentale: "Il potere d’acquisto del proletariato ha toccato il fondo / il denaro sta diventando debole e privo di valore", canta livido, "dicono che i salari bassi sono una realtà / se vogliamo competere con l’estero".
Poi, l’incedere denso di ineluttabilità di "Nettie Moore", accentuato dal violino di Donnie Herron, si ammanta di rimpianto e struggimento. Ancora una volta, le radici affondano lontano, in una ballata folk del XIX secolo di Marshall S. Pike dedicata alla memoria dolorosa di una donna tratta in schiavitù e separata per sempre dal suo amore.
Ma prima che scorrano i titoli di coda, Dylan ha ancora in serbo il momento più avvincente della sua sceneggiatura: introdotta da una cupa lamentazione di violino, la conclusione di "Modern Times" è infatti affidata allo spettrale passo di tango di "Ain’t Talkin’", che per oltre otto minuti conduce in una meditazione apocalittica degna delle visioni con cui "Highlands" suggellava il flusso di coscienza di "Time Out Of Mind".
È un pellegrinaggio in cui i passi sono molto più importanti delle parole, quello di "Ain’t Talkin’": "non sto parlando, sto soltanto camminando", mormora Dylan, "attraverso il mondo misterioso e sfuggente / il cuore sta bruciando, si sta ancora struggendo / mentre cammino tra le città della pestilenza".
Il "giardino mistico" in cui si dipana il suo viaggio rammenta più le spine del Getsemani che non i frutti dell’Eden. Non ci sono altari, lungo la strada solitaria, eppure il percorso è guidato da "una fede che è stata da lungo tempo abbandonata" e da un’implorazione piena di mendicanza: "Dicono che la preghiera abbia il potere di guarire / perciò prega per me, madre".
Alle soglie della fine del mondo, nel giardino deserto non sembra esserci traccia del giardiniere. È Dio che ha abbandonato l’uomo, si chiederebbe T.S. Eliot, o è l’uomo che ha abbandonato Dio? Dylan risponde riprendendo silenzioso il cammino nel misterioso sabato del tempo in cui si compie l’esistenza umana. È questo che da sempre fanno i pellegrini.
05/09/2006