Texas, 1963. Girano strane voci, nei bassifondi di San Antonio. Tutti sanno che, quando le cose si mettono male, è al vecchio Doc che bisogna rivolgersi: per pagarsi la sua dose quotidiana sarebbe pronto a ricucire qualunque ferita. Ma, da qualche tempo, sembra che riesca a guarire anche i casi più disperati. Anzi, chi bussa alla porta della sua squallida pensione sulla Strip di South Presa ne esce completamente cambiato. Dicono che sia merito della ragazza messicana che adesso vive con lui. Dicono che abbia una ferita su un polso che continua a sanguinare senza rimarginarsi. Ma di certo non sanno che Doc ha un confidente molto particolare. Qualcuno che solo lui può vedere: il fantasma di Hank Williams.
Per parlare di Hank Williams si potrebbe partire dalla sua terra d’origine, l’Alabama. Oppure si potrebbero prendere le mosse dal sedile posteriore di quella Cadillac dove, nella notte di San Silvestro tra il 1952 e il 1953, la sua vita si è tragicamente interrotta dopo appena ventinove anni. Steve Earle, da degno erede dei fuorilegge del country a cui si è sempre ispirato, ha scelto di partire dal suo spettro. E, nel suo primo romanzo dopo una lunga carriera di songwriter, ha deciso di raccontare la storia di un medico legato in maniera indissolubile alla leggenda Hank Williams. Perché Earle immagina che, a bordo di quella Cadillac, ci fosse anche Doc. E da quel giorno, per lui, nulla sarebbe stato più lo stesso.
Il libro si intitola “I’ll Never Get Out Of This World Alive”, proprio come l’ultimo singolo della carriera di Williams. Anche se si svolge dieci anni dopo la sua morte, la presenza del re del country aleggia su ogni pagina in maniera palpabile. Hank è lo specchio in cui Doc vede riflesso il disfacimento della propria vita. Ma è anche il misterioso controcanto della sua estrema possibilità di riscatto.
Dalla scomparsa di Hank Williams, ormai, di anni ne sono passati sessanta. A guardare le immagini in bianco e nero della sua figura esile e spigolosa, con l’immancabile cappello da cowboy sul viso, sembra appartenere a un’epoca dimenticata, con cui il presente non ha più nulla a che vedere. Eppure, la sua musica non ha perso la forza evocativa che sin dal primo istante ha saputo renderla unica. Occorre solo essere capaci di riconoscere le sue tracce, proprio come i personaggi del romanzo di Steve Earle.
Seguendo le suggestioni di “I’ll Never Get Out Of This World Alive”, vogliamo metterci anche noi alla ricerca del fantasma di Hank Williams. Cogliendo l’occasione dell’anniversario della sua morte per proporvi una compilation immaginaria dedicata alla riscoperta della sua eredità.
- SIDE A -
1. I’m So Lonesome I Could Cry
Ci sono un sacco di storie di fantasmi, in Alabama. Una delle più famose racconta dello spirito di un pastore metodista di nome Bill Sketoe, giustiziato durante la Guerra di Secessione. Per la sua impiccagione era stata scavata una buca. Una buca che, dal giorno della sua morte, nessuno è più riuscito a riempire, per quanta terra cercasse di gettarvi dentro.
Hank Williams è sempre stato un figlio orgoglioso dell’Alabama. E, proprio come per la leggendaria buca di Bill Sketoe, nulla è mai stato capace di riempire il suo cuore: sempre assetato di tutto, sempre in cerca di qualcosa di più.
Non c’è canzone in cui non ne abbia lasciato traccia. Ma la più famosa di tutte, probabilmente, è “I’m So Lonesome I Could Cry”. Non è mai stata una hit, al contrario di tanti altri brani del suo repertorio: alla sua uscita, nel 1949, era stata pubblicata semplicemente come b-side. Eppure, poche altre canzoni di Williams hanno avuto così tante riletture e reinterpretazioni, fino a diventare un vero e proprio simbolo del padre del country americano.
“Did you ever see a robin weep/ When leaves began to die?”. Lacrime di pettirosso, lacrime che sembrano sgorgare dal cielo stesso. “That meant he’s lost the will to live/ I’m so lonesome I could cry”. C’è tutta la cognizione del dolore di un uomo che vorrebbe disperatamente vivere l’intensità di ogni istante, in quei versi dall’apparenza così semplice. Versi in cui è facile rispecchiarsi anche per la gente più umile, come accade sempre nelle canzoni di Williams.
Non basta una voce qualsiasi, per rendere vere quelle parole. Ma quando, nel 2002, Johnny Cash e Nick Cave si sono incontrati per la prima volta per registrare insieme un brano, la scelta è stata quasi immediata. “Ero segretamente terrorizzato di non essere in grado di cantare questa canzone con lui”, ricorda Cave. Il vecchio Uomo in Nero sarebbe morto l’anno successivo e il male lo stava già divorando da tempo. “Mentre sedevo lì con lui e gli parlavo mi chiedevo come sarebbe stato in grado di cantare una cosa qualsiasi. Ma quando ha cominciato a cantare, ecco che tutta la sua malattia sembrava scomparsa”.
Johnny Cash & Nick Cave – I’m So Lonesome I Could Cry
(American IV: The Man Comes Around, 2002)
2. Ramblin’ Man
Per le strade della cittadina di Georgiana, nel cuore dell’Alabama della Grande Depressione, non era cosa da tutti i giorni incontrare un vecchio bluesman nero con la sua chitarra, intento a suonare all’angolo di qualche via. Tutti lo chiamavano Tee-Tot, anche se all’anagrafe il suo nome era Rufus Payne. Agli occhi di un ragazzino bianco del Sud, era qualcosa capace di calamitare completamente l’attenzione. Hank Williams aveva undici anni, la prima volta che si era imbattuto nella voce magnetica di Tee-Tot. E, da allora, aveva cominciato a seguirlo dappertutto, imparando avidamente i trucchi del mestiere di quel vecchio vagabondo.
La madre Lillie non aveva tempo per preoccuparsi del modo in cui il ragazzo passava le giornate: era lei a dover mandare avanti la famiglia, da quando il marito era stato ricoverato in un ospedale per veterani a causa delle ferite riportate nella prima guerra mondiale. In pratica, Hank non l’avrebbe mai conosciuto davvero. A dirla tutta, Hank non era nemmeno il suo vero nome. I genitori l’avevano chiamato Hiram, come il re di Tiro di cui narrava la Bibbia. Ma lui aveva preferito scegliersi un nome più adatto all’eroe di qualche film western.
La vita non aveva in serbo per lui il destino senza casa di Tee-Tot. Eppure, a modo suo, sarebbe stato anche lui un vagabondo: sempre sulla strada, a bordo di una macchina diretta verso il suo prossimo concerto. “When the Lord made me, he made a ramblin’ man”. Chissà se, quando cantava quei versi, Hank riandava con la memoria ai giorni di Tee-Tot. Di certo, la polvere della strada da cui sono nati è giunta intatta attraverso il tempo. Sino a venire raccolta da Isobel Campbell e Mark Lanegan, capaci di darne una rilettura desertica e seducente grazie al loro inconfondibile connubio di ombre e sussurri.
Isobel Campbell & Mark Lanegan – Ramblin’ Man
(Ballad Of The Broken Seas, 2006)
3. Lovesick Blues
A Nashville, sul palco dell’Opry House, c’è un cerchio di legno di quercia solcato dal tempo. È stato conservato dalle assi del vecchio Ryman Auditorium, per anni teatro del Grand Ole Opry, il programma radiofonico di musica country più celebre d’America. È il legno calcato dagli stivali di Hank Williams al suo debutto nel tempio musicale di Nashville. E tanto basta a chiunque salga ancora su quel palco per sentirsi immediatamente al cospetto della storia.
Per anni Williams aveva sognato di essere ammesso alla corte del Grand Ole Opry, accanto a stelle come Roy Acuff o Ernest Tubb. Ci sarebbe riuscito solo nel 1949, grazie al suo primo, grande successo: “Lovesick Blues”. Secondo la leggenda, al momento della registrazione del brano la reazione del suo storico mentore, l’editore Fred Rose, sarebbe stata a dir poco gelida: “È la cosa peggiore che tu abbia mai fatto”. In pochi mesi, invece, la canzone sarebbe arrivata al primo posto della classifica di Billboard, marchiando con il suo yodel da cuori infranti l’immagine stessa di Williams. Tanto da riservargli sin dalle prime note l’accoglienza trionfale del Ryman Auditorium (e di milioni di telespettatori americani).
Norah Jones, quel giorno, non era ancora nata. Ma la musica di Hank Williams ha sempre avuto un ruolo fondamentale nelle sue radici, tanto da portarla ad includere la classica “Cold Cold Heart” nel suo fortunatissimo esordio “Come Away With Me”. È al fianco dei Little Willies, però, che la cantante americana ha scelto di rivelare la sua indole più agreste. Addolcendo con il miele della sua voce anche le lacrime solitarie di “Lovesick Blues”.
The Little Willies – Lovesick Blues
(For The Good Times, 2012)
4. Still In Love
Non si esce sobri da un locale honky-tonk: alcool e musica sono da sempre inscindibili, nei bar del Sud. A introdurre il giovane Hiram all’alcool era stato il cugino: le loro scorribande nei boschi dell’Alabama finivano regolarmente in qualche bettola dove un fiddle e una buona scorta di bottiglie bastavano per ballare tutta la notte. Poi, quando Hank aveva cominciato a suonare in giro con i suoi Drifting Cowboys, aveva dovuto imparare ad assuefarsi agli honky-tonk bar: il palcoscenico naturale per la musica country, con il loro corollario di risse e bevute. Spesso lui e la band dovevano brandire chitarre e bottiglie per difendersi da qualche testa calda. Spesso il viaggio di ritorno doveva passarlo con la borsa del ghiaccio su qualche livido. E ancora più spesso, la serata finiva con un’abbondante dose di whisky in corpo.
L’alcool è l’anestesia con cui affrontare l’operazione della vita, diceva George Bernard Shaw. Per Hank Williams è sempre stato così: la via più facile per cercare di esorcizzare i propri demoni. Concerti bruscamente interrotti, show radiofonici cancellati, progetti cinematografici naufragati sul nascere hanno costellato sempre più spesso la sua carriera, in parallelo con l’acuirsi della sua dipendenza dalla bottiglia. Ma, al momento di entrare in studio, Williams non è mai venuto meno alla sua lucidità. Affrontando ogni sessione di registrazione con la segreta consapevolezza di un lascito destinato a rimanere.
Anche Chan Marshall ha dovuto imparare a proprie spese quanto l’alcool possa pesare sulla vita di un’artista. Per un lungo periodo, la frammentarietà delle sue esibizioni dal vivo è diventata quasi proverbiale. “Era qualcosa che aveva a che vedere con il fatto di trovarmi a disagio nella mia stessa pelle”, racconta. “Per questo l’alcool era sempre al mio fianco”. Immedesimarsi nella musica di Williams, per lei, è stato sin dagli esordi come guardarsi allo specchio. Non a caso, la sua cover di “Still In Love” risale ai tempi del secondo album a nome Cat Power, “Myra Lee”, nato dalle stesse session del disco di debutto. Una scelta che suona come una dichiarazione di appartenenza alle radici del Sud.
(Myra Lee, 1996)
5. You Know That I Know
“Quando sento cantare Hank, ogni movimento cessa di esistere. Il più lieve sussurro sembra un sacrilegio”. Per Bob Dylan, la mistica delle canzoni di Hank Williams è qualcosa che ha a che vedere con l’essenza stessa della musica americana. “Nei brani registrati da Hank c’erano le regole archetipiche della canzone poetica. Avevano forme come colonne di marmo, essenziali all’intera architettura. Anche le sue parole: tutte le sillabe che usa sono suddivise così da raggiungere un perfetto senso matematico. Dai suoi dischi s’impara molto sull’arte di scrivere canzoni”.
Nel primo volume della sua autobiografia, “Chronicles”, Dylan ricorda il primo istante in cui ha sentito cantare Williams: “Il suono della sua voce mi trapassò come una verga carica di elettricità”, racconta. Una voce capace di ridefinire i confini stessi di un genere apparentemente immutabile come il country: “Dicevano che era un cantante hillbilly, ma io non sapevo che cosa volesse dire”, prosegue Dylan. “Hank non era una testa vuota. Non aveva niente del pagliaccio. Anche da ragazzo mi immedesimavo completamente in lui. Non avevo bisogno di passare attraverso le sue stesse esperienze per capire di che cosa cantava”.
Nel 2011, è stato proprio Dylan a radunare gli artisti chiamati a mettere per la prima volta in musica i versi perduti di Williams. “The Lost Notebooks of Hank Williams” nasce dai vecchi taccuini ingombri di canzoni incompiute che sono stati ritrovati dopo la sua morte. Rendendo omaggio al lascito di Williams con un’operazione probabilmente meno personale di quanto fatto da Billy Bragg e dagli Wilco con i testi di Woody Guthrie, ma animata dal medesimo desiderio di dare contemporaneità al solco della tradizione. Accanto al vecchio Bob c’è anche uno dei suoi più tenaci ammiratori degli ultimi anni, Jack White. Pronto a spogliarsi del blues targato White Stripes per calarsi nei panni del cowboy sentimentale di “You Know That I Know”.
Jack White – You Know That I Know
(The Lost Notebooks Of Hank Williams, 2011)
6. Your Cheatin’ Heart
La prima volta che si sono visti è stato tra i carrozzoni di un medicine show. Lui suonava la sua chitarra in mezzo a elisir miracolosi e fenomeni da baraccone. Lei era scesa dalla sua Oldsmobile come una visione invocata da qualche predicatore di strada. Alla fine della serata, Hank Williams era già pronto a chiedere la mano di Audrey Mae Sheppard. Si sarebbero sposati l’anno successivo, il 1944, in una stazione di servizio Texaco. Ma il loro amore sarebbe stato sempre tormentato e burrascoso, tra furibondi litigi e repentine riconciliazioni.
Il divorzio, carico di livore come da copione, sarebbe stato solo l’ultima pagina di un amore votato fatalmente all’autodistruzione. Williams sarebbe morto appena pochi mesi più tardi, giusto in tempo per imbastire le seconde nozze con la diciannovenne Billie Jean Jones. Ma “Your Cheatin’ Heart” avrebbe racchiuso nei suoi versi l’amarezza di un’estrema recriminazione: “Your cheatin’ heart/ Will make you weep/ You’ll cry and cry/And try to sleep/ But sleep won’t come/ The whole night through/ Your cheatin’ heart/ Will tell on you”.
La versione di “Your Cheatin’ Heart” realizzata da Beck in compagnia di Jon Brion, soffusa e opalina come certi momenti di “Sea Change”, fa parte di uno dei più fortunati omaggi a Williams degli ultimi anni: il tributo discografico “Timeless”, incoronato come “Best country album” ai Grammy del 2002. A dimostrazione di come l’eco delle canzoni di Williams continui a vibrare al cuore della sensibilità musicale americana.
(Timeless: Hank Williams Tribute, 2001)
7. Alone And Forsaken
Il fascino degli eroi della musica americana si nasconde dietro il velo di un’apparente contraddizione: “l’idea del cristiano e del peccatore che lottano all’interno dello stesso corpo”. Parola di Amanda Petrusich, la scrittrice e giornalista newyorchese che, tra le pagine del suo libro “It Still Moves”, ha raccontato le tappe di un personalissimo viaggio al cuore dell’Americana. “È il classico paradosso americano”, prosegue. “Peccatori ossessionati dalla salvezza, puritani assorti nella lettura di Playboy, golosi con la fissa dell’alimentazione sana”. La tensione tra giusto e sbagliato, tra carnale e spirituale è insomma ciò che per Amanda Petrusich ha reso i padri della tradizione musicale d’Oltreoceano “figure così ipnotiche (e riconoscibilmente americane)”.
Hank Williams ne è un esempio emblematico: assetato di fama, di alcool, di donne. Eppure sempre animato da un’ostinata domanda di redenzione. Santo e peccatore, come ogni vero uomo. Tanto da decidere di crearsi un alter ego da predicatore country-gospel, Luke The Drifter, sotto la cui egida pubblicare i brani considerati troppo “devoti” per il suo repertorio ufficiale. Canzoni incentrate su sermoni dal tono biblico, accompagnati da un bordone d’organo e da un recitativo caracollante.
Nessuno meglio di Dave Eugene Edwards, leader di 16 Horsepower e Woven Hand, potrebbe riuscire a dare ancora voce al senso religioso profondamente sudista di Williams. Cresciuto dal nonno predicatore, tra visioni di dannazione eterna e vecchi dischi di Johnny Cash, Edwards ha sempre messo al centro delle sue canzoni una vocazione letteraria direttamente ispirata alle pagine di Flannery O’Connor. Nel tributo alle radici che ha reso al fianco dei 16 Horsepower, “Folklore”, non poteva mancare un brano di Hank Williams. E la sua scelta è caduta sulla sofferenza carica di domanda di “Alone And Forsaken”: “Alone and forsaken by fate and by man/ Oh Lord, if you hear me please hold to my hand”.
16 Horsepower – Alone And Forsaken
(Folklore, 2002)
8. Keep It On Your Mind
La forza delle canzoni di Hank Williams sta nella loro essenzialità. Il canto nostalgico della steel guitar, la ritmica polverosa, le pennellate del fiddle: non occorre altro per permettere alla sua voce spezzacuore di farsi strada attraverso la purezza della melodia. La ricetta vale anche per uno dei più grandi successi della sua carriera, “Cold Cold Heart”. Solo che, a conquistare il primo posto della classifica di Billboard, non è stata la scarna versione di Williams, ma quella carica di zuccherose orchestrazioni firmata da Tony Bennett nel 1951. Un connubio tra la tradizione pop di Tin Pan Alley e quella della musica hillbilly che avrebbe dischiuso le porte a una nuova e più vasta platea per l’epopea del country.
“Tony, perché hai rovinato la mia canzone?”. Tony Bennett si sarebbe sentito apostrofare così da Williams dopo il trionfo di “Cold Cold Heart”. In realtà, però, si dice che Williams non perdesse occasione per mettere sul jukebox proprio la versione del cantante italoamericano. Ma una cosa è certa: è nella veste più spoglia e disadorna che il songwriting di Williams rivela la sua natura di archetipo del country (e della canzone americana tout court).
La bassa fedeltà, insomma, si addice più che mai alle canzoni di Williams: fa capire perché gli americani (con il loro inconfondibile senso dell’enfasi) si siano inventati per lui la definizione di “Hillbilly Shakespeare”. Dai nastri delle prime cassette dei Mountain Goats, ecco emergere allora una rilettura scabra e vibrante di “Keep It On Your Mind”. L’anno è il 1992, lo stesso della prima cassetta realizzata da John Darnielle con il suo fido registratore Panasonic (che non a caso conteneva a sua volta una cover di “I’m So Lonesome I Could Cry”). Anche Hank, probabilmente, sarebbe stato d’accordo: in certi casi, un microfono lo-fi può dire più di un’intera orchestra.
The Mountain Goats – Keep It On Your Mind
(The Hound Chronicles / Hot Garden Stomp, 2012 [Reissue])
9. I’ll Never Get Out Of This World Alive
Ogni metro di strada, per Hank Williams, era come una tortura. Nei suoi infiniti viaggi in macchina da un concerto all’altro, sulle strade perdute cantate in “Lost Highway”, il dolore alla schiena non gli dava mai tregua. Colpa della spina bifida che l’aveva segnato sin dalla nascita: aveva provato a farsi operare, ma non era servito a nulla. Anche la notte del 31 dicembre 1952 era diretto a un concerto. Qualche mese prima, il Grand Ole Opry l’aveva scaricato dopo l’ennesima ubriacatura. Per liberarsi dall’alcool, Hank era arrivato persino a rivolgersi alle cure di un sedicente dottore, che gli aveva prescritto un cocktail di sedativi e morfina.
Quella sera, la neve gli aveva impedito di prendere l’aereo e si era messo in viaggio alla volta dell’Ohio sulla sua Cadillac celeste. Alla guida c’era un ragazzo del college di nome Charles Carr. Alla prima tappa, in Tennessee, Hank aveva subito avuto bisogno di un dottore. Un’iniezione di morfina e vitamine e poi di nuovo in viaggio. Dal sedile posteriore dell’auto, però, non era venuto più nemmeno un lamento. Solo alla sosta successiva, in una stazione di servizio in West Virginia, Charles si sarebbe accorto che Hank non stava semplicemente dormendo.
L’ultimo singolo che aveva pubblicato, prima di quella fatale alba del 1953, suonava come una sinistra premonizione: “No matter how I struggle and strive/ I'll never get out of this world alive”. La voce rauca e cavernosa di C.W. Stoneking sembra venire da un tempo irreale, quando ripete ancora una volta quei versi. Succede sempre così, con la musica dell’eccentrico bluesman australiano: verrebbe da scommettere che appartenga a un vecchio grammofono, ritrovato nell’angolo di qualche soffitta. La sua versione di “I’ll Never Get Out Of This World Alive” fa parte di un album tributo dedicato a Hank Williams e Leadbelly, ovvero le radici bianche e nere della musica americana. Si intitola “Hiram And Huddie”, dai nomi di battesimo dei due artisti, ed è uno degli omaggi meno prevedibili al retaggio country-blues usciti negli anni Duemila.
C.W. Stoneking – I’ll Never Get Out Of This World Alive
(Hiram And Huddie, 2009)
10. I’m So Lonesome I Could Cry (Reprise)
Le note si dilatano, galleggiano sospese nelle navate della chiesa. Sono passati vent’anni da quando le architetture neogotiche della Church of the Holy Trinity di Toronto hanno ospitato per la prima volta i Cowboy Junkies. “The Trinity Session”, il disco nato tra quelle mura, ha conquistato ormai la reputazione del classico. Così, alla fine del 2006, la band canadese decide di tornare nella stessa chiesa anglicana che aveva ospitato le loro registrazioni più celebri. Ancora una volta, la voce avvolgente di Margo Timmins accarezza lentamente i contorni di “I’m So Lonesome I Could Cry”. Stavolta, però, accanto a lei ci sono anche Vic Chesnutt e Ryan Adams, a dare un respiro corale allo struggimento della solitudine evocata dai versi di Hank Williams.
L’unicità della figura del songwriter dell'Alabama è qualcosa di profondamente radicato nella coscienza americana. Nel suo libro “Lovesick Blues”, dedicato alla vita di Williams, lo scrittore Paul Hemphill ricorda come l’iniziazione alla musica di Williams, per lui, sia passata attraverso le radio ascoltate da bambino sul camion del padre, sempre in viaggio per l’America. Anni dopo, racconta di essere andato a trovare il vecchio padre per mostrargli la sua nuova Chevrolet. “Probabilmente ha una pessima trasmissione”, lo apostrofò scettico il padre. “Ma ha un’ottima radio”, rispose lui orgoglioso. Il padre continuò a incalzarlo: “E prende la musica country?”. “Certo che la prende”. “Allora dev’essere proprio una radio eccezionale. Di musica country non ce n’è più da quando Hank è morto”.
In realtà, però, Hank non è mai scomparso. La sua ombra, proprio come nelle pagine del romanzo di Steve Earle da cui abbiamo preso le mosse, non ha mai smesso di riflettersi sul presente. E l’eco della sua voce non ha mai smesso di trovare cuori disposti a raccoglierla. “Un gemito straziante, disperato, che ti penetrava nelle ossa come una giornata fredda e umida. Il lamento funebre di uno spirito folk che annunciava la rovina imminente”. Più di tutto, la voce di un desiderio incolmabile, che nulla potrebbe mai mettere a tacere.
Cowboy Junkies feat. Vic Chesnutt & Ryan Adams – I’m So Lonesome I Could Cry
(Trinity Revisited, 2007)
“Essere soli è una condizione temporanea, una nube che offusca il sole per qualche tempo e poi, dopo essersi spostata, fa sembrare i raggi ancora più luminosi. Come quando sei lontano da casa e senti la mancanza delle persone che ami e hai la sensazione che non le rivedrai mai più. E invece le rivedrai, e quando accade non ti senti più solo.
Essere solitari è un’altra cosa. È incurabile. Terminale. Un buco nel cuore talmente grande che potrebbe passarci dentro un camion a rimorchio. Così grande che nessun quantitativo di denaro, whisky, donne o droga potrebbe colmarlo, perché l’hai scavato tu stesso e lo stai ancora scavando a forza di inanellare menzogne, delusioni e promesse non mantenute.”
Nota
Tutte le citazioni di Steve Earle sono tratte da “I'll Never Get Out Of This World Alive” (“Non uscirò vivo da questo mondo”), Mondadori, 2012, trad. di Martino Gozzi.
LE VERSIONI ORIGINALI | |
I’m So Lonesome I Could Cry | |
Ramblin’ Man | |
Your Cheatin’ Heart | |
Alone And Forsaken | |
Keep It On Your Mind | |
I’ll Never Get Out Of This World Alive |
Sito ufficiale |