Una vibrante ed eterea ninna nanna ci augura buongiorno, e per Norah Jones sembra essere davvero l'inizio di un'ottima giornata. Quella di un'artista che si sente realizzata dopo aver cercato di seguire un percorso, di ampliare le proprie vedute nonostante il pesante fardello di un album di debutto da venticinque milioni di copie alle spalle.
Sarebbero bastate pedisseque repliche di quell'inconfondibile piglio country jazzato per garantirle vendite e fama costanti e invece la giovane cantautrice di Brooklyn, coi successivi lavori, ha preferito allontanarsi gradualmente da quel sound, tendendo a sonorità prima meno impegnate e poi un po' più alternative e vendendo, inevitabilmente, sempre meno. Mai come stavolta, però, si avverte la sensazione di trovarsi di fronte a una Norah Jones davvero inaspettata.
In "...Little Broken Hearts" il suo passato più recente è, sì, rievocato dal morbido e cadenzato adult-oriented pop di "Out On The Road" e del divertito singolo "Happy Pills", ma già l'ascolto di "Say Goodbye", sensuale canzoncina appoggiata su un gommoso battito funky e mossa da brezza orientale, inizia subito a mettere le cose in chiaro: Norah Jones era davvero stanca.
Stanca di indossare, almeno nelle uscite ufficiali, quei panni ormai troppo stretti da matura e stucchevole professionista, giunta dal conservatorio direttamente per allietare le conversazioni da salotto, e di reprimere il suo interesse verso sonorità più indie, che sinora sfogava solo durante concerti tenuti sotto pseudonimo.
Pur senza rinnegare drasticamente il suo stile, stavolta Norah decide di voler rappresentare un'America diversa, più cruda e meno borghese. Come quando incupisce i toni con la spettrale murder-ballad "Miriam" o la desolata "Take It Back", ben calata nella cupa dimensione da sobborgo di provincia statunitense. Il pezzo trova nelle tinte blues della polverosa "4 Broken Hearts" la sua controparte, orgogliosamente solenne.
Non è un caso che la bella copertina dell'album sia palesemente ispirata alla locandina di un film tutt'altro che politically-correct come "Mudhoney" di Russ Meyer e che, per calarsi ancora meglio in queste inedite atmosfere, la Jones si sia avvalsa della collaborazione di un produttore à-la page come Danger Mouse (fresco del successo con i Black Keys).
L'ex-metà dei Gnarls Barkley, infatti, le cuce addosso un sound spoglio e ruvido - ben rappresentato dal minimalismo circolare della title track, ora increspato da un'elettronica vintage e cigolante ora ingentilito da archi nostagici, che mai però prende il sopravvento sul carezzevole risultato d'insieme. Le sinuose "After The Fall" e "She's 22" - due torch-song rivedute e (s)corrette - e la delicatissima "Travelin' On", sostenuta da violoncello e ticchettii assortiti, confermano. A tratti torna in mente il lavoro che il produttore aveva svolto per un altro cantautore innamorato del modernariato e di una "America che fu", il Beck del sottovalutato "Modern Guilt", stile che si sposa piuttosto bene con la proverbiale presenza "in punta di piedi" della Jones, che non riesce a non ammaliare e cullare anche quando fa calare il sipario a suon dell'elettrica marcetta "All A Dream".
Per qualcosa di più energico forse bisognerà aspettare il suo prossimo lavoro, nel frattempo questa sua nuova veste, da più moderna e intellettuale folksinger, è decisamente benvenuta.
03/06/2012