Il 27 aprile del 1968, sul ring di Oakland, California, è in palio il titolo mondiale dei pesi massimi. Jimmy Ellis contro Jerry Quarry: un incontro destinato a entrare negli annali della boxe. Tra gli spettatori ce n’è uno molto particolare: Bob Dylan. “L’intera faccenda si era fatta rovente”, ricorda nella sua autobiografia. Quarry veniva presentato come “la nuova grande speranza bianca”, ma non voleva saperne dell’enfasi razziale costruita intorno al suo nome. Ellis considerava il pugilato come un lavoro qualsiasi, qualcosa per mantenere la famiglia più che una via per entrare nella leggenda. “Io mi sentivo un po’ Ellis e un po’ Quarry”, prosegue Dylan. “Come Quarry, non volevo ammettere di essere un emblema, un simbolo o tantomeno un portavoce, e come Ellis anch’io avevo una famiglia da mantenere”.
Tra i guantoni di quella sfida, c’è in pratica tutto il dilemma in cui Dylan si dibatte all’affacciarsi degli anni Settanta. Il desiderio di scrollarsi di dosso le etichette, il bisogno di recuperare la concretezza della vita quotidiana. “Io ero un cowboy, non un pifferaio magico”, per usare le sue stesse parole. E non un cowboy per modo di dire, visto che il Dylan che riemerge dall’esilio bucolico di Woodstock indossa i panni del placido interprete country. Persino la voce, il suo marchio più inconfondibile, si trasforma in una carezza morbida e avvolgente: “Dovevo far uscire segnali devianti, mettere i freni al treno impazzito, creare un’impressione differente”.
Il decimo volume delle “Bootleg Series” si situa proprio al cuore di questo controverso punto di svolta. Con il coraggio di ricollegarsi direttamente a uno dei punti più bassi della produzione dylaniana, quel famigerato “Self Portrait” che fece esclamare a Greil Marcus in una celebre recensione sulle pagine di “Rolling Stone”: “What it this shit?”. Allora, l’intento di Dylan era volutamente iconoclasta: “Non feci altro che tirare contro un muro tutto quello che avevo sottomano. Quello che ci restava attaccato lo pubblicai, poi andai a raccogliere anche il resto che non ci era rimasto attaccato e pubblicai anche quello”. Oggi, l’immersione negli archivi consente di andare a riscoprire la sostanza nascosta dietro quel gesto autodistruttivo. Consentendo a Dylan di ritoccare il proprio autoritratto, come nel nuovo dipinto utilizzato per la copertina.
Quella di “Another Self Portrait” è una riscrittura che procede anzitutto per sottrazione: eliminando dalle registrazioni originali gli interventi più invasivi aggiunti in sede di produzione, responsabili in larga misura del suono edulcorato e stucchevole dell’album. Così, ecco “Little Sadie” ritrovare la tensione asciutta della murder ballad, mentre “Copper Kettle” e “Days Of ‘49” si liberano delle ridondanti sovraincisioni di archi e percussioni.
L’opera di rivisitazione prosegue poi recuperando dal fondo dei cassetti una manciata di brani scartati dalle session di “Self Portrait”. Brani di tutt’altro spessore rispetto a buona parte di quelli effettivamente inclusi nell’album, a conferma di quanto all’epoca le scelte di Dylan fossero lucidamente indirizzate al peggio. Nel repertorio di cover inanellato per sopperire alla mancanza di nuovi brani autografi, l’armonica svelta di “Railroad Bill” e la declamazione fatalista di “House Carpenter” portano l’eco del Dylan dei primi giorni, mentre l’antica ballata inglese “Pretty Saro” assume l’aspetto di una sorta di Devendra Banhart ante litteram. Anche gli omaggi a canzoni contemporanee, da “Annie's Going To Sing Her Song” di Tom Paxton a “Thirsty Boots” di Eric Andersen, hanno fortunatamente ben poco a che vedere con le agghiaccianti riletture di classici come “The Boxer” e “Blue Moon” inserite in “Self Portrait”.
Il tono scarno e diretto delle esecuzioni, accompagnate quasi esclusivamente da David Bromberg e Al Kooper, coniuga le atmosfere spoglie di “John Wesley Harding” con la rilassatezza di “Nashville Skyline”. Ma “Another Self Portrait” si spinge ad allargare il quadro anche oltre i confini dell’album originale, tratteggiando un affresco a tutto tondo del Dylan di inizio anni Settanta.
Al di là di una fugace incursione nello scrigno dei “Basement Tapes” (“Minstrel Boy”, che in “Self Portrait” era stata inclusa in versione live), il viaggio a ritroso prende le mosse da “Nashville Skyline” (con un paio di versioni alternative tutto sommato prescindibili), per arrivare a soffermarsi su “New Morning”, l’album chiamato a riscattare le sorti dylaniane a pochi mesi di distanza dall’uscita di “Self Portrait”.
In questo caso, il materiale inedito rivela tutta l’incertezza di Dylan circa la direzione da prendere nel nuovo disco: una sezione di fiati prova a imprimere il marchio Stax sulla title track, orchestrazioni di archi avvolgono di enfasi “Sign On The Window”, un controcanto di violino si insinua in “If Not For You”. Ma, ancora una volta, sono gli arrangiamenti più disadorni a risaltare, dai ricami acustici con cui “Went To See The Gypsy” racconta l’incontro con Re Elvis sino ad una “If Dogs Run Free” ben lontana dalle divagazioni jazz della versione pubblicata su “New Morning”.
Certo, il materiale raccolto in “Another Self Portrait” è pur sempre l’istantanea di un Dylan in piena crisi di ispirazione, che spesso non va oltre la semplice improvvisazione: come riconosce lui stesso a proposito di “New Morning”, “forse tra quei solchi c’erano belle canzoni e forse non ce n’erano, chi lo sa, in ogni caso non erano di quelle che ti fanno rimbombare un tremendo suono in testa. Quelle le conoscevo, e sapevo bene che nessuna delle nuove apparteneva a quella categoria”. Le outtake del disco offerte in questa occasione, da “Bring Me A Little Water” a “Tattle O’Day”, non fanno che confermare la sensazione di anonimato, così come il boogie giocoso di “Working On A Guru”, registrato al fianco del vecchio amico George Harrison. Non è certo casuale, allora, la collocazione in chiusura di un demo di "When I Paint My Masterpiece", riflessione allo specchio di un artista in cerca della propria musa: "Someday, everything is gonna be smooth like a rhapsody/ When I paint my masterpiece".
La deluxe edition del disco aggiunge al set (oltre alla versione rimasterizzata del “Self Portrait” originario) uno straordinario documento storico: la registrazione integrale del concerto di Dylan al fianco della Band al festival dell’Isola di Wight del 1969, che la Columbia aveva vagheggiato all’epoca di pubblicare come album live. Un’esibizione anche in questo caso controversa, un ritorno alle scene a tratti traballante (“Like A Rolling Stone” su tutte), ma che in episodi come la contagiosa resa corale di “I'll Be Your Baby Tonight” riesce a mostrare le scintille del miglior Dylan del periodo.
Il significato di questo nuovo itinerario nel catalogo dylaniano è allora da ricercare soprattutto nella possibilità di una sorprendente riscoperta. Come aveva intuito subito Greil Marcus, “Self Portrait” non è altro che “un concept album raccolto dal pavimento della sala montaggio. È stato costruito con grande maestria, ma come occultamento, non come rivelazione”. Ecco, proprio la rivelazione è – all’opposto – la cifra di “Another Self Portrait”. L’occasione di ridipingere i tratti del volto di Dylan. E, alla maniera di Jay Gatsby, di riscrivere il passato.
27/08/2013
Disc one
1. Went To See The Gypsy (Demo)
2. Little Sadie (Without overdubs)
3. Pretty Saro
4. Alberta #3 (Alternate version)
5. Spanish Is The Loving Tongue
6. Annie's Going To Sing Her Song
7. Time Passes Slowly #1 (Alternate version)
8. Only A Hobo
9. Minstrel Boy
10. I Threw It All Away (Alternate version)
11. Railroad Bill
12. Thirsty Boots
13. This Evening So Soon
14. These Hands
15. In Search Of Little Sadie (Without overdubs)
16. House Carpenter
17. All The Tired Horses (Without overdubs)
Disc two
1. If Not For You (Alternate version)
2. Wallflower (Alternate version)
3. Wigwam (Without overdubs)
4. Days Of '49 (Without overdubs)
5. Working On A Guru
6. Country Pie (Alternate version)
7. I'll Be Your Baby Tonight (live with The Band)
8. Highway 61 Revisited (live with The Band)
9. Copper Kettle (Without overdubs)
10. Bring Me A Little Water
11. Sign On The Window (With orchestral overdubs)
12. Tattle O'Day
13. If Dogs Run Free (Alternate version)
14. New Morning (With horn section overdubs)
15. Went To See The Gypsy (Alternate version)
16. Belle Isle (Without overdubs)
17. Time Passes Slowly #2 (Alternate version)
18. When I Paint My Masterpiece (Demo)
Bonus disc (Deluxe edition)
Bob Dylan & The Band At Isle Of Wight – August 31st, 1969
1. She Belongs To Me
2. I Threw It All Away
3. Maggie's Farm
4. Wild Mountain Thyme
5. It Ain't Me, Babe
6. To Ramona / Mr. Tambourine Man
7. I Dreamed I Saw St. Augustine
8. Lay Lady Lay
9. Highway 61 Revisited
10. One Too Many Mornings
11. I Pity The Poor Immigrant
12. Like A Rolling Stone
13. I'll Be Your Baby Tonight
14. Quinn the Eskimo (The Mighty Quinn)
15. Minstrel Boy
16. Rainy Day Women #12 & 35