Bottoni. Rumore di bottoni contro le corde della chitarra. Perché l’ingegnere del suono non dice niente? Potrebbe fermare le registrazioni, far sistemare la giacca al cantante. Ma il nastro continua a scorrere e nessuno interviene. È il 16 settembre del 1974 e negli Studi A&R di New York c’è Bob Dylan davanti al microfono, solo con la propria chitarra. E quei bottoni che continuano a farsi sentire a ogni accordo. “Può sembrare strano, ma eravamo in una sorta di stato ambivalente, tra la meraviglia, il terrore e il rischio di dare di matto”, ricorda Glenn Berger, all’epoca assistente del mostro sacro Phil Ramone in sala di registrazione. “Era un momento davvero intenso”. Un momento che nessuno avrebbe osato spezzare.
Gli annali le ricordano semplicemente come le “New York Sessions”: la leggendaria prima stesura di “Blood On The Tracks”, poi cestinata in buona parte da Dylan a favore della successiva revisione in quel di Minneapolis. Oggi, le “Bootleg Series” riportano finalmente alla luce uno dei tesori sommersi più preziosi degli archivi dylaniani. Sei cd pensati soprattutto per i fan (anche se, come al solito, non manca il bigino su un unico disco, in questo caso inevitabilmente molto meno significativo), che ripropongono nella loro interezza i quattro giorni di registrazioni newyorkesi, più quello che resta delle sessioni finali in Minnesota. Qualche estratto era già apparso qua e là nel corso degli anni, tra “Biograph” e i volumi iniziali delle “Bootleg Series”. Ma il motivo per cui immergersi completamente in “More Blood, More Tracks” sta proprio nella sua vocazione completista: la possibilità di entrare in quegli studi, trattenendo anche noi il respiro, mentre un Dylan al vertice dell’ispirazione si sta mettendo a nudo come mai prima di allora.
We always did feel the same
We just saw it from a different point of view
Il fulcro va cercato subito lì, nel disco iniziale: Dylan che affronta in perfetta solitudine le sue nuove canzoni. Tutto il resto ruota intorno a quel centro di gravità. Basta sentire la prima take di “If You See Her, Say Hello”, un attimo prima che la canzone acquisti il suo passo familiare: una lettera d’addio intrisa di desolazione e amarezza, una conversazione a tarda notte in cui l’eco di ogni parola sembra restare sospeso a mezz’aria. Dylan ha un bel dire che l’ispirazione dell’album non verrebbe dalla sua separazione, ma addirittura dai racconti di Cechov: guarda caso, i primi brani che prova (“If You See Her, Say Hello” e “You’re A Big Girl Now”) sono anche quelli più personali, quelli in cui le ferite appaiono più scoperte.
Per queste canzoni, come ha scritto Greil Marcus, vale lo stesso monito dato da Melville ai lettori di “Moby Dick”: “Avvertite tutte le persone delicate e sofisticate di astenersi anche solo dal dare una sbirciatina”. Perché non fanno sconti, non cercano eufemismi: vanno dritte al punto come una confessione. Persino il romanzo western di “Lily, Rosemary And The Jack Of Hearts”, in questa versione scarnificata, suona più come la pagina di un’autobiografia. E l’urgenza della prima incisione di “Up To Me” (la grande esclusa di “Blood On The Tracks”) le conferisce più che mai l’aspetto di gemella apocrifa di “Tangled Up In Blue”.
È a quel punto che entra in scena la band, e le cose cambiano completamente. Eric Weissberg, virtuoso di banjo e chitarra reduce dal successo della sua rilettura di “Dueling Banjos”, porta al seguito i Deliverance, il gruppo che lo aveva accompagnato nella colonna sonora di “Un tranquillo weekend di paura”. Ma si sente subito che qualcosa non va: la morbida veste di “Simple Twist Of Fate” non riesce a catturare lo spirito del brano, la batteria non tiene il tempo, Dylan sembra infastidito.
“Dylan usava un’accordatura che non avevo mai visto prima”, ricorda Weissberg. “Se si fosse trattato di chiunque altro, giuro che avrei piantato tutto, perché sembrava fare di tutto per crearci dei problemi”. Funzionano solo i due blues speculari di “Meet Me In The Morning” e “Call Letter Blues”. Il naufragio definitivo è documentato dalle otto versioni di “You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go” inanellate in chiusura del secondo disco: parte come un country pimpante, quasi alla “Nashville Skyline”, si sfilaccia alla ricerca del passo giusto, si trasforma in una ballata sentimentale, prova di nuovo ad accelerare… Alla fine della giornata, Weissberg e i Deliverance vengono messi alla porta senza troppi complimenti.
A change in the weather is known to be extreme
But what's the sense of changing horses in midstream?
Il basso di Tony Brown diventa da lì in poi l’architrave su cui Dylan sviluppa le sue sessioni newyorkesi, sfornando le interpretazioni di “Shelter From The Storm”, “Simple Twist Of Fate”, “Buckets Of Rain” e “You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go” destinate a finire nella versione definitiva dell’album. C’è un primo tentativo di affiancare anche l’organo, all’inizio del terzo disco, quasi in cerca di un’impossibile combinazione con la formula alchemica di “Blonde On Blonde”: ma ancora una volta qualcosa suona fuori posto, e anche il pianoforte viene lasciato da parte, dopo un approccio inaspettatamente vivace a “Shelter From The Storm”.
Gli ultimi giorni agli studi A&R, che occupano fino al quinto disco della raccolta, diventano allora un succedersi di pennellate sulle stesse tele, secondo un processo creativo fatto di continue rivisitazioni. È l’insegnamento fondamentale di Norman Raeben, il pittore di origine bielorussa di cui Dylan aveva frequentato assiduamente le lezioni nei mesi precedenti alle registrazioni: “L’artista non vuole arrivare alla fine. Anche quando tutti dicono che la sua opera è compiuta, lui non lo pensa mai. L’opera deve essere sempre incompiuta”.
E infatti, quando l’album è già pronto per la pubblicazione, Dylan, tornato dalla famiglia in Minnesota per le vacanze di Natale, decide di rifarlo da capo. Delle sessioni di registrazione improvvisate negli studi Sound 80 di Minneapolis, con un gruppo di musicisti locali, sono rimaste solo le cinque canzoni poi entrate nella scaletta definitiva di “Blood On The Tracks” (“Idiot Wind”, “You’re A Big Girl Now”, “Tangled Up In Blue”, “Lily, Rosemary And The Jack Of Hearts” e “If You See Her, Say Hello”). L’ultimo cd di “More Blood, More Tracks” risulta quindi anche il meno interessante del lotto, potendo offrire solo dei mix alternativi delle versioni arcinote dei brani.
Non sono semplicemente nuove declinazioni, quelle di Minneapolis, ma vere e proprie riscritture, spesso anche nei testi. Basta il confronto con la prima take newyorkese di “Tangled Up In Blue”, quasi timida nel suo affacciarsi, o con l’incedere mesto su cui si dipana “Idiot Wind” nel penultimo disco del cofanetto: dove prima dominava l’afflizione, ora entra in campo una diversa enfasi, una veemenza fatta di rabbia, di rancore, di sarcasmo. Il bisogno di guadagnare distanza rispetto a una fragilità troppo aperta, forse, o semplicemente la preoccupazione che qualcosa di così spoglio possa restare incompreso. Fatto sta che l’album destinato ad arrivare sugli scaffali dei negozi finisce per dare adito all’ennesimo enigma dylaniano. E ad alimentare il mistero ci si mettono ora anche le composizioni inedite di cui viene offerto solo il testo, scritto a caratteri minuti nel taccuino rosso riprodotto all’interno della deluxe edition di “More Blood, More Tracks”, con titoli come “There Ain’t Gonna Be Any Next Time”, “Belltower Blues” o “Where Do You Turn”.
Love is so simple, to quote a phrase
“C’est tellement simple, l’amour”, sospirava Arletty in “Les enfants du paradis”. Ci crede davvero, Dylan, quando fa eco a quelle parole in “You’re A Big Girl Now”? Può sembrare un atto naturale, qualcosa di innato come respirare o nutrirsi. Ma a volte non è scontato neppure riuscire a portarsi il cibo alla bocca: “We're idiots, babe/ It's a wonder we can even feed ourselves”. No, non c’è niente di semplice nell’amore. Perché amare significa superare l’estraneità che ci separa dagli altri, il vento idiota che soffia ogni volta che apriamo la bocca. Quel vento che ulula come un ammonimento biblico tra i nostri teschi, quel vento che spazza la nostra età di rabbia e di risentimento.
Andare controvento è la strada dell’amore, e non c’è strada più difficile: “We heard the sermon on the mount and I knew it was too complex”, confessa Dylan in “Up To Me”. “It didn't amount to anything more than what the broken glass reflects”. Ha ragione lui: quello che sta cercando di afferrare è molto più di un semplice break-up album. Eppure, non sarebbe potuto giungere sino a lì, tra le schegge infrante della verità, senza avere lasciato dietro di sé le orme insanguinate di un amore che si spezza. Nessuno avrebbe potuto cantare quelle canzoni, se non dopo avere attraversato la via dolorosa: “No one else could play that tune, you know it was up to me”.
15/01/2019
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