Future Sound Of London

Future Sound Of London

Viaggio al cuore dell'elettronica

Nell'affollato panorama elettronico dei Novanta, Cobain e Dougans hanno tentato una sintesi originale tra house, ambient, musica cosmica e psichedelia tanto da farne uno dei marchi più autorevoli del periodo. Nella loro visione, il superamento di ogni campanilismo di genere per indagare l'essenza più intima ed estatica dell'elettronica, globalmente intesa...

di Roberto Rizzo

Millenovecentottantanove è uno di quegli anni in cui ogni cosa, letteralmente, si capovolge. Mentre a est cadono muri e si sfidano rivoluzioni culturali pluri-decennali, a ovest giunge a compimento la prima fase del progetto neo-liberista, simbolicamente segnata da un thatcherismo agli ultimi respiri, ma con il suo celebre slogan risonante, ora più che mai, all'unisono: there is no alternative. Nell'euforia generale di cui tutto il pianeta questa volta sembra pulsare, che sia per il movimento Solidarność in Polonia, piazza Tienanmen, le prime connessioni in world wide web in Australia e Giappone o semplicemente per l'estensione dell'etos imprenditorial-multinazionale a longitudini fino a pochi attimi prima impensabili, anche i beat e i groove su cui tutto rimbalza, non possono non riflettere il moto accelerato e filo-globale dei tempi. Se è vero il principio per cui la musica è sempre variabile foriera dei tempi a venire, è possibile rintracciarne una genealogia riportando il calendario indietro di qualche anno. Quello che troveremmo riflesso in gestazione è un beat a 120 battiti per minuto. Il contributo essenziale di quest'epoca in fibrillazione, una secchiata d'acido che espande le possibilità psichiche alla stregua dei marcati finanziari. L'acid-house è il parto naturale di tutto ciò, la sua capitale non può che essere la condizione post-industriale di Manchester, l'Haçienda la sua kaaba. È in questa congiuntura che origina la storia Future Sound Of London, un'esperienza che traghetta l'house acida nei deliri rave, e da questi a inusitati continenti digital-apocalittici a tinte tropicali, solo per far ri-emergere, sotto la coltre floreale, i tetri grigiori post-industriali in cui tutto si gioca. In altre parole, il suo traghettamento nel futuro.

What seems unnatural
is also natural

La nostra storia comincia in maniera piuttosto oscura nel 1988, quando i nomi Brian Dougans e Garry Cobain, i nostri due protagonisti, si incrociano per la prima volta ufficialmente. Brian Dougans è il one-man-band Humanoid ed è già un nome d'alta aristocrazia nel nascente astro rave. Suo, uno dei grandi classici dell'Haçienda, “Stakker”, un brano pensato originariamente come “semplice” accompagnamento a visual d'avanguardia per lo storico club, ma che è in realtà una traccia acida assassina, con tanto di Roland e campionamenti, che anticipa lo scheletro su cui edificheranno le elite del genere a venire – Leftfield, A Guy Called Gerald, “Voodoo Ray”.
Nel giro di pochi mesi arriva anche l'unico album a nome Humanoid mai partorito (è pur sempre un filone in cui il full-length è più l'eccezione che la regola), “Global”, in cui invita a partecipare anche l'amico Garry, collega di studi di elettronica. L'unico cameo a materializzarsi veramente sarà la traccia “Sunshine & Brick”, ma l'affiatamento tra i due si rivela da subito esplosivo, tant'è che un paio di mesi più tardi Humanoid è già preistoria e la coppia si ripresenta con un progetto più visionario e un nome non meno pertinente rispetto allo spirito del tempo: The Future Sound Of London.

Il breve gap tra l'inizio formale dell'avventura FSOL e le prime pubblicazioni su disco è sufficiente a contenere un bel po' di rimescolamenti di carte, tra cui passa la sistematica demonizzazione mediatica della cultura rave in seguito a un pompato servizio del Sun e l'inizio di una grave recessione culminante nel “mercoledì nero”. Il progressivo ri-orientamento del suono di Dougans e Cobain nel neonato progetto FSOL risente sicuramente anche di questi cambiamenti d'aria. A partire da quell'autentico meteorite che i due scagliano nell'estate del 1991, prima uscita FSOL dopo alcuni esperimenti estemporanei sotto lo pseudonimo di Mental Cube, e punto di non ritorno dell'elettronica inglese. Pur con le evidenti radici affondate nell'acido, “Papua New Guinea” si sviluppa agitata in direzioni imprevedibili, incorporando campionamenti, in tutti i sensi, trascendentali, in cui l'immensa “Dawn Of The Iconoclast” si sublima in vapori inusitati appena orientaleggianti, prima di duettare con brandelli di vocals più tipicamente house e quindi procedere a velocità piena verso mangrovie inesplorate ai confini del mondo, con debito e psichedelissimo scalo a Goa.



Lo stacco con il curriculum vitae dei due è già impressionante. Col suo rigoglioso fiorire di melodie astratte e imprendibili, “Papua New Guinea” serve da sbarco metaforico delle e(c)stasi rave a uno stadio superiore, quasi spirituale, uno spazio dai limiti imprecisi attraversato da stimoli esotici in eco e violenti giochi di elettricità neurologica. Una piattaforma dove rimbalzano in armonia nevrosi jungle e vibrazioni world, due delle matrici che, in territori talvolta paralleli, talvolta incrociati, marcheranno il lustro a venire. Ma soprattutto, è il singolo che dà più di un indizio degli sviluppi peculiari del marchio FSOL, donandogli da subito una connotazione sperimentale, aperta e trascendentale come poche altre cose in circolo al tempo.
Per molti versi, il brano che, insieme alla contemporanea “Safe From Harm” dei Massive Attack, più di ogni altro può essere isolato in rilievo a testimone di una stagione tutta nuova nell'elettronica d'Albione e non solo, nonché una delle tracce più remixate del tempo, in una generazione in sé prolifica in remix. Il singolo riceve un inaspettato seguito nei club inglesi e si palesa nella single chart d'Albione in ventesima posizione.

Nonostante le coraggiose premesse di “Papua New Guinea”, tuttavia, la materia di Accelerator, il primo album FSOL che segue a ruota l'acclamato singolo, è più sintesi e compromesso che un radicale sconvolgimento delle carte in tavola. Le dieci tracce del lavoro oscillano impercettibilmente tra strutture tech-house più familiari (ma in cui l'elemento-house si fa sempre più marginale), come “Stolen Documents”, beat elastico e giocoso ma con il richiamo della foresta dietro l'angolo, “Calcium” e – soprattutto – i toni soulful di “While Others Cry”, e forme più aliene e indecifrabili, come i numeri ibridi di “Expander”, “Moscow” e “It's Not My Problem”, sospesi tra aggressività proto-jungle e tappeti techno scurissimi (i tempi di “Good Life” e “Ride On Time” sembrano già lontanissimi), per arrivare, infine, alle magie di “Papua New Guinea” e “Central Industrial”, in cui i panorami delineati palesano già colori, battiti e forme di vita “altri”.

Necessario e riuscito ponte tra due momenti effettivamente distinti nelle biografie di Dougans e Cobain, Accelerator rimane ai posteri come il tipico “disco di transizione”, un passaggio da cui però non si raccoglie un cesto-accozzaglia di numeri incolore ed esercitazioni di stile, ma, al contrario, un fermo-immagine che vive di una storia a sé, con momenti di prima classe e preziosi ibridi, forieri del monumentale capolavoro già in embrione nei cervelli elettronici dei due. Un album che in prospettiva si allinea peraltro, consapevolmente o meno, con un nuovo modo di concepire la techno emergente nell'incertezza dei retroscena post-rave: un nuovo sentire che dirotta l'acido in maniera progressiva dai sudatissimi dancefloor inglesi a un'esperienza cerebrale che scoperchia possibilità e immaginazioni inaudite. Se, alla sua estremità ambient, i monumentali “Ambient Works” di Aphex Twin saranno l'idolo al contempo più venerato e incompromissorio, le avvisaglie di tutto ciò erano già da cogliere nelle derive proto-trance “after party” di Liquid, The Age Of Love e, appunto, Accelerator.

FSOLAppena un anno dopo, in piena fibrillazione hardcore, la coppia si ripresenta con un nome di copertina nuovamente alterato e ancora più criptico, Amorphous Androgynous e un titolo decisamente poco house come Tales Of Ephidrina (1993). L'evoluzione dei suono dei due si spiega già a partire da qui: la carnalità pare dissolversi in immagini surrealiste e positivisticamente tecnologiche, le viscere si tramutano in canali luminosi per teatrini di stame, elettroni e intelligenze aliene indifferenziate. A dominare, un senso di liquefazione psichica più letterale di quanto suggerito dai lavori precorsi, al tempo stesso però questo non si traduce in una facile deriva chill-out: al contrario, la tensione e l'ambiguità dietro a ogni beat sono un assedio ancora più ansiogeno per quanto (ancora) lucido, un po' come il cambio di narcotico sembra suggerire (l'efidrina è parente dell'amfetamina).
Lo stacco con le produzioni precedenti dei due è comunque ovvio in ogni aspetto. Pubblicato negli Stati Uniti dalla Astralwerk e accompagnato da un elegante booklet di illustrazioni digitali e panorami in negativo, Tales Of Ephidrina è un flusso di quarantasette minuti spartiti su otto tracce, marcato in maniera irreversibile da una dimensione più esplicitamente ambient e psichica.
I battiti techno, anche quando aggressivi e sostenuti, raramente si fanno protagonisti e si limitano prevalentemente al ruolo di struttura su cui far danzare altro materiale. “Liquid Insects” è premonitrice proprio nel suo mettere in scena, su questo straniato baldacchino techno, alcuni degli elementi che faranno dei FSOL uno dei marchi più riconoscibili della decade: registrazioni naturali, versi di animali, percussioni, sample “world”, parentesi strumentali, voci in riverbero. I momenti di eccellenza sono numerosi: se “Swab” e “Auto Pimp” sono prevalentemente esercizi di elaborazione, “Mountain Goat” e “In Mind” mettono piede in territori ambient finora inesplorati, in cui arpeggi cristallini e inquietanti field-recordings paventano non-sense onirici seducenti non lontanissimi, morfologicamente, dalle vignette di Brian Eno, Roedelius, Suso Saiz, conservando tuttavia sotto la superficie di velluto, quell'elemento di nevrosi acida sempre pronto a traboccare da un momento all'altro. Anche quando la malcelata galvanizzazione si tramuta in allucinazione palese, si tratta pur sempre di psicosi benevole a rilascio serotoninico, come quella marcia a 4/4 rodata a grasso dub di “Ephidrina” o la ricca ritmica attraversata da bassi e voci in estasi di “Fat Cat” (con un sample riciclato, a ben sentire, da un frammento dal classico "Passion" di Peter Gabriel), o ancora la conclusiva “Pod Room” pulsante su un dub-techno minimale con finale “dreamy”.

Lavoro pensato evidentemente come album organico più che una raccolta di tracce indipendenti – ulteriore manovra tutt'altro che incidentale – Tales Of Ephidrina sancisce la transizione nel suono più riconoscibilmente FSOL, pur celandosi paradossalmente dietro un nome che avrà fortune ben diverse nel decennio successivo. Audace, agile, accattivante, eppure con una buona dose di idee appena solo abbozzate, e forse per questo solitamente trascurato nella discografia dei due, il primo parto di Amorphous Androgynous è un imprescindibile punto di intersezione tra l'era dell'upbeat e i nuovi, amorfi, scenari squisitamente sospesi tra immaginifico e futuribilità digitale.

Il biennio 93-94 mostra un inaspettato interessamento verso queste nuove sonorità post-acid ancora in via di definizione. Aphex Twin, Underworld, Orbital, LFO sono nomi non più relegati alla nicchia elettronica ma diventano sinonimo di qualità e stato dell'arte nella produzione del suono anche in ambienti più “popular”, ispirando finanche i lavori coevi di celebrità quali Björk e Madonna. Dougans e Cobain beneficiano di riflesso di questa congiuntura favorevole e in chiusura d'anno accettano un contratto proposto dalla Virgin Records, bramosa di acquisire nomi “in” per cavalcare le potenzialità dell'onda techno-ambient, sfumata l'occasione di mettere sotto contratto i più chiacchierati Leftfield. Una scelta che, come Cobain ricorderà a posteriori, fu “un'imperdonabile ingenuità”.
Subito dopo una frugale ristampa di Tales Of Ephidrina, quindi a seguire a ruota sarà un secondo album come Future Sound Of London, una Londra che, sempre più satura di producer e dj di vocazione tanto commerciale quanto post-coloniale, nel frattempo è divenuta anche quartier generale della vita artistica e privata dei due.

Dovessimo procedere con il gioco di metafore stupefacenti, se Tales Of Ephidrina abbandonava l'acido dei club per l'amfetamina, accorgendosi ad occhi spalancati degli onirismi dietro il cortile di casa, Lifeforms allarga il campo di visione verso il basso, verso il muschio e la flora più minuta, e si nutre ghiotto di sostanze micogene sconosciute. Tuttavia sarebbe inesatto parlare di Lifeforms come di un facile trip escapista a tinte fluor. Ora più che mai, al contrario, i due sono ai massimi livelli di lucidità e chiarissima visione d'insieme, nonché politicamente e spiritualmente coscienti – Cobain è appena tornato dal proverbiale viaggio in India.

La prima sfida dei nuovi Future Sound Of London avviene sul formale: abbandonata ogni concezione di album come compilation di singoli, i nostri di fatto oscurano i confini tra singolo e album pubblicando due Ep, Cascade e Lifeforms Ep che altro non sono che la forma “suite” di due tracce che compariranno sull'album: come già gli Orb prima di loro, il singolo elettronico smette di essere una forma “radio friendly” di più complesse idee in cantiere, ma si inverte di significato e diviene piattaforma su cui espandere a dismisura le possibilità di frammenti angusti dall'opera principale – con cui è collegata anche tramite le splendide illustrazioni di copertina (la “ragazza-strega”, lavoro di Peter Atkinson). Così Lifeforms Ep si schiude in sette percorsi in cui il tema principale compare pienamente solo in terza traccia, mentre tutt'intorno si elabora su increspature e sample, talvolta tirando fuori pezzi nettamente distinti. Le divine “Path 2” e “Path 4” sono impreziosite da un'ospite d'eccezione, nientemeno che Liz Fraser dei Cocteau Twins, mentre in “Path 7” gli stessi vocals della Fraser vengono rimacinati in un numero electro-hindustani. L'affiatamento tra la Fraser e i due non poteva essere più felice, e una versione sintetizzata dei “Path” viene rilasciata come singolo più ortodosso che scalerà le classifiche inglesi alle soglie della Top 10.



Come già si intuisce, non è solo il formato a essere rimesso in discussione, ma anche il contenuto. 4/4 e groove vengono ridimensionati sullo sfondo, quando non del tutto abbandonati, gli hook sono ormai un lontano ricordo, mentre campionamenti e sintetizzatori, da ornamento, assurgono a protagonisti.
Più che un numero da dancefloor, infatti, Lifeforms è un voluttuoso viaggio di calde folate ambient, pulsazioni viscerali, toccate strumentali (flauti, chitarre, tabla) e straniamenti ad onda quadra.
L'album si sviluppa su due parti di quaranta e cinquanta minuti rispettivamente, due flussi in cui le individualità isolabili sono ridotte al minimo ed emergono più come allucinazioni estemporanee nell'arco dello stesso trip che come episodi indipendenti. Sorta di Alice delle Andamane, il paese delle meraviglie verso cui la “witch girl” ci guida è una terra lussurreggiante in cui il verde è umidamente intenso, i fenomeni naturali maestosi e le forme di vita losche. La preannunciata “Cascade” è l'ingresso più consono all'avventura: battiti cardiaci al rallentatore, richiami della jungla, droni e screziature glitch, prima di sbocciare in un'evocativa variazione multimelodica a mo' di amorphophallus, innestata su una jungle sempre meno metaforica e brezze cosmiche dalle sorprendenti reminiscenze Popol Vuh.
La riesumazione dell'estetica cosmica, in verità principio tutt'altro che assente nella filosofia rave, è un approdo a cui Dougans e Cobain arrivano in maniera casuale, se è da dar credito al loro presunto dilettantismo in materia di elettronica d'annata, ed è da attribuirsi in gran parte alla scoperta dei pullulanti negozi dell'usato londinesi. Da qui arriva buona parte dei campionamenti che spuntano a diverso grado di riconoscibilità su Lifeforms, dagli Ozric Tentacles, Isao Tomita, i Tangerine Dream, Klaus Schulze, i Pink Floyd a Pod/Kenny Larkin (a cui rimanda anche il titolo dell'album) e finanche Pachelbel.
La carrellata di sample – tutt'altro che completa – è sufficiente a dare un'idea della dimensione musicalmente spaziale e storicamente “situata” dell'opera, più di quanto i due Ep estesi avessero lasciato intuire. Il risultato finale, tuttavia, non si riduce a un mash-up di influenze, ma viene bilanciato di continuo dal pedigree post-club, per quanto in lontananza e “ambientalizzato” (è bene ricordare come Lifeforms arrivi pur sempre quattro anni dopo “Chill Out” dei Klf e due da “Ov Biospheres And Sacred Grooves”) nonché dalle fascinazioni “world” dei due, centellinate qui con rara intelligenza e lontane dalla resa più didascalica delle produzioni-prezzemolo Real World del periodo. Di questo felicissimo ibrido risplende l'intera prima metà dell'opera, che siano i tropici radioattivi di “Flak”, il gonfio e perlato passo pseudo-trip-hop di “Dead Skin Cells” con finale à-la Hector Zazou, la psichedelia sguinzagliata di “Eggshell” o la disturbante dissonanza di “Among Myselves”.
Il secondo volume apre con quello che è il numero ambient più cristallino del lotto, “Domain” e prosegue in maniera più lineare verso pezzi ritmicamente più marcati come “Vertical Pig” e “Vit”, che strizzano l'occhio a quelle coordinate psytrance e “illbient” di cui i FSOL saranno gli inconsapevoli pionieri, o gli intricati duetti electro-tabla di “Life From Ends” e “Little Brother” (pezzi su cui contribuisce l'onnipresente Talvin Singh).
In mezzo, è un'ambient più scura e malaticcia a dominare, più Enno Velthuys, meno Brian Eno. Spiccano però nel buio l'idillica “Cerebral”, splendida vignetta meditativa in cui si scorge un prestito dallo storico “Aqua” di Edgar Froese, e la microscopica ambient-house sottocutanea di “Omnipresence”. “Little Brother” tira le somme in chiusura, imbastendo field-recordings e riverberi su un liquido passo di tabla, per poi spegnersi nella stessa giungla equatoriale palesata da “Cascade”, lasciandoci con una melanconica frase di bamboo in distanza, riecheggiando questa volta la spossatezza di un Paradiso Perduto piuttosto che un intrigo ai tropici.

FSOLAl di là del complesso lavoro di composizione e di rimandi, tuttavia, c'è un altro, più profondo livello operativo che scorre intrecciato al flusso dell'album, e ha a che fare con una dimensione spirituale che si acuisce nei due parallelamente al moltiplicarsi degli ascendenti musicali. Uno strato fondamentale per una lettura globale del materiale sonoro e della genesi ultima dell'album, utile per mettere in prospettiva i vari riferimenti “acidi”, auspicato a ben vedere in vario modo in ogni produzione FSOL ma che solo in Lifeforms trova un irripetuto ed elegante punto di equilibrio.
Influenzata sempre più dai sistemi spiritual-epistemologici vedici, l'esperienza “altra” di Lifeforms confonde concettualmente le acque tra scienza e religione alla maniera del tardo Aldous Huxley: come per il maestro della distopia, nelle intenzioni dei nostri l'esperienza allucinogena non si limita a una collezione di visioni alternativamente beate o terrificanti racchiuse in se stesse, ma è veicolo per un più profondo discernimento della realtà, un'arma per perforare quell'ignoranza cosmica di cui la normalità è imbevuta.
In questo stato di consapevolezza il senso di sé abbandona ogni cognizione di individualità (“Among My Selves”), dissolvendosi nel nulla/tutto divino al fondo di ogni essenza (“Omnipresence”), mentre il viaggio esistenziale di una pianta o di un guscio d'uovo rivela, in rewind, mangifici passati litici o appiccicosi liquidi gastrici di umanissima origine (“Life From Ends”, “Dead Skin Cells”, “Eggshell”). Nel fascino di questo divenire totale, la libertà creativa sprigionata palesa forme e aggregati esotici ma curiosamente familiari (“Spineless Jelly”, “Vertical Pig”), senza terrore alcuno, ma con senso di armonia equanime e perfetta. Anche in luce di tutto ciò, è forse più pertinente parlare di Lifeforms come di un iper-realismo “quantico-spirituale”, piuttosto che di un'allucinata evasione alla volta di mondi multicolor.
Cobain e Dougans ci tengono a mettere ben in chiaro in ogni singolo istante come Lifeforms non sia una variazione new age su tecnicalità downtempo, ma, al contrario, un lavoro che cerca di rimettere in dialogo materia e spirito, emozione e cerebralità, fascino e straniamento, digitale e analogico, in un monolitico ascolto in cui la bellezza sgorga a sorpresa dagli interstizi piuttosto che essere in bella mostra al servizio dell'ascoltatore casuale, che sia al centro del dancefloor o su un divanetto al Buddha Bar.

Lifeforms si rivelerà da subito come uno dei capitoli più atipici della decade, non solo per il fatto di snobbare allegramente convenzioni di stile e formato, paradossalmente proprio appena messo piede in casa a una major, ma anche e soprattutto per ridefinire una direzione in cui traghettare l'elettronica post-rave, tramite un sistema di alleanze, influenze e convergenze per cui il guardare indietro (al calderone cosmico, alla psichedelia, al prog) non è più anatema. Nel sottobosco elettronico dei Novanta, i tentativi di ribattere il sentiero di Lifeforms saranno sporadici e con risultati alterni. La sua eredità, invece, sarà raccolta, dispersa in una miriade di direzioni, da tanta Idm a venire cosiccome dagli eccessi psytrance & illbient e dalle derive downtempo più ambientali.
Nell'economia interna dei due, invece, il progetto FSOL si scopre finalmente nella sua essenza ultima più luminosa e iridescente, una luce in cui gli esercizi tech-house di appena qualche anno prima si rivelano sempre più come l'alibi necessario per allargarsi un proprio spazio vitale all'interno dell'universo elettronico del tempo, prima di capovolgere a piacimento le regole del gioco e riscriverne radicalmente il programma.

Per quanto le voci di dissenso non mancheranno – quelle che avrebbero voluto una dozzina di nuove “Papua New Guinea” – Lifeforms viene accolto con entusiasmo da critica e pubblico, scalando le chart album inglesi fino in sesta posizione, un risultato affatto scontato per un'opera da molti identificata come prevalentemente “ambient”.
Non ci sono però interludi autocelebratori, per i nostri, e nel giro di un paio di settimane sono già con le mani in pasta in un nuovo progetto, dai tratti significativamente diversi. Tra maggio e luglio dello stesso anno, Cobain e Douglas sperimentano un nuovo modo di performance, senza biglietti, senza agenzie, senza pass stampa e soprattutto senza concerti, almeno nel senso ovvio del termine. Sfruttando le potenzialità della neonata tecnologia ISDN che permette di trasmettere dati ad alta definizione tramite network telefonico, i FSOL tengono una serie di sessioni live dal loro studio londinese di Earthbeat trasmettendole simultaneamente in tempo reale a decine di stazioni radio in giro per il mondo. In questo modo, nella visione dei due, viene bypassato (o de-spettacolarizzato) il concetto di performance tradizionale, fondamentalmente immutato “dagli heydays del rock'n roll”, insinuandosi nell'intimità delle mura domestiche, con tutta l'imprevedibilità contestuale che ne consegue. Il risultato di queste imprese – cui parteciperà sporadicamente nientemeno che Robert Fripp – sarà documentato dall'album ISDN. Con l'eccezione di alcune tracce pubblicate parallelamente nell'Ep Far-Out Son Of Lung And The Ramblings Of A Madman, il materiale dell'album è composto da tracce per lo più inedite, girando alla larga, una volta in più, dalla comoda tentazione di ripetersi.

Per quanto il cordone ombelicale tra Lifeforms e ISDN sia evidente in più punti, il nuovo capitolo FSOL guarda decisamente altrove, con un'attenzione più certosina all'ambience resa, effetto sicuramente anche del contesto particolare da cui emerge.
La quindicina di pezzi presenti sulla versione definitiva di ISDN (l'edizione limitatissima lanciata nel dicembre 1994 ha una scaletta leggermente diversa) aggiornano i FSOL a un suono più cinematico e notturno, ma al tempo stesso dal passo più spedito – a tratti quasi aggressivo – e in linea con quanto in gestazione nell'elettronica inglese del tempo. Se Lifeforms introduceva un certo gusto per l'organicità strumentale, ISDN ne fa il centro dell'azione, spostando al tempo stesso le coordinate dai colori tropical a un apparato più tipicamente e urbanamente jazz e rock. Ugualmente, la componente elettronica del duo saluta definitivamente l'estetica dance e approda in maniera più esplicita dalle parti di un beat più fumoso e in moviola, prossimo all'acid-jazz e soprattutto al genere-master del periodo, ovvero il trip-hop.



L'avvicinamento verso stili più in voga, tuttavia, non fa di ISDN un album prevedibile o derivativo. Al contrario, la raccolta srotola alcuni nei numeri d'eccellenza del momento, standard verso cui i neoarrivati sulla scena avranno da confrontarsi (le uscite Ninja Tune). Come altro inquadrare l'eroticità surrealista di “Smokin' Japanese Babe” e “The Far Out Son Of A Long And The Rumblings Of A Madman”, le grottesche proiezioni di “Slider”, il passo sinuoso di “Snake Hips” e “Kai” (qui e li con una strizzata d'occhio in direzione Barry Adamson).
La parte centrale dell'album riserva i pezzi più prossimi alle strutture di Lifeforms, soprattutto quando si distende su tessiture ambientali, dalla macabra “Eyes Pop - Skin Explodes - Everybody Dead” all'emotiva “Dirty Shadows” e l'ariosa “Tired”. Si tratta però giusto di questo: strutture. Gli scenari paventati da ISDN infatti sono irrimediabilmente crepuscolari e inquieti, anche quando emergono vibrazioni orientaleggianti (la splendida “Egypt”) sono più le asciutte architetture di Muslimgauze e Autechre a venire in mente, piuttosto che i succosi filamenti di una “Cascade”.
La limpidezza acquatica di “Amoeba” e “A Study Of Six Guitars”, infine, concede un sospirato rilascio di nervi, aprendo luminose vedute di pace e distensione, prima di ripartire con il vaporoso trip di “Snake Hips”, ineluttabilmente già catapultata in quei bigi scenari dietro l'angolo nell'evoluzione del suono FSOL.
Gustoso esperimento schiacciato tra i due “big” nella discografia del duo, ISDN traghetta con colpo di gran raffinatezza l'esperienza Future Sound Of London verso lidi ancora una volta imprevisti, scarsamente popolati e con ampio margine di scombussolamento. A sigillare il pieno potenziale di tutto ciò, il quarto – e formalmente ultimo – atto FSOL.

Concentrati nello sviluppo di un percorso proprio e originale, proiettati – come marchio vuole – nel futuro, i due ignorano ogni invito a compromessi con le smanie di major e agenzie (che, con ogni probabilità, avrebbero preferito che i due rimanessero nel sentiero tracciato in origine, dopo l'estemporanea concessione “avant”), pagando il dazio in termini di visibilità mediatica dedicatagli.
Quando Dead Cities arriva sul mercato nel primo 1996, così, era già chiaro che i rapporti con la Virgin erano arrivati all'ultimo atto.
Dead Cities è il naturale sviluppo delle idee tracciate in ISDN. L'uso di campionamenti si fa massiccio, ritmi e battiti, già passati al filtro trip- e hip-hop, si incattiviscono, straripando in territori elettronici accelerati post-industriali, gli intervalli ambient si tingono di nuance grigie e vagamente “zovietiche”. Al tempo stesso, le partiture jazz vengono rilasciate con più parsimonia, lasciando il volante alla componente electro sia nei pezzi più sostenuti che in quelli dalla fisionomia più ambientale.
Nonostante i caratteri “digital splatter” dell'artwork, l'umore che trapela nei settanta minuti dell'album è più Lynch che Romero, un thriller psicologico-esistenzialista a sfumature urbane vivacizzato da idiosincratiche presenze 3D. La sintesi tra cinematografico e videogioco, ambizione presente sullo sfondo in buona parte delle produzioni FSOL, raggiunge qui il sunto totale.

L'album è preannunciato dall'Ep-suite My Kingdom e da un eccellente videoclip reminiscente dei lavori di Stéphane Sednaoui.



A differenza di ISDN, l'album è estremamente compatto e coerente, al tempo stesso senza essere monocromatico: al contrario, la trepidante pellicola paventata dai due assorbe un'incredibile serie di intuizioni e variazioni, aggiungendo un alto tasso di ambiguità ai singoli episodi. A prevalere, però, è pur sempre un cielo bigio e un'angoscia vagamente repressa. Ad accoglierci in queste città moribonde – la scelta tra metaforico e letterale è lasciata a chi legge – è l'inquietante monito “I've killed a man... A man who looked like me” (estratto dal giallo “Deep Cover”) che apre la title track, segue un misterioso numero minimal a tinte tardo-industriali malate rimandante ai lavori di Richard H. Kirk e Soma, su cui si palesa tuttavia in coda un etereo vocalizzo femminile, tra mortuario e salvifico, riassumendo il gioco ambivalente, e anche per questo affascinante, dell'album. “Her Face Forms In Summertime” propone lo stesso paradigma ma a valori invertiti: un arpeggio celestiale zona Lifeforms si rincorre voluttuoso per cinque minuti, solo per essere trafitto da stacchi trip-hop e commenti di contrabbasso e spegnersi quindi in un indefinito flusso sintetico che aprirà l'inattesa accelerazione del singolo numero due.
“We Have Explosive” lancia una sfida a Prodigy e Chemical Brothers con una mossa hardcore-mitragliatrice da manuale. L'esplosività psichedelica del pezzo ha più le sembianze di un collasso nevrotico, però, che di un'apoteosi adrenalinica rave, un cortocircuito in cui vengono fuse immagini televisive, cartelloni pubblicitari, monologhi politicanti e architetture urbane di periferia. La saturazione degli interstizi immaginativi e psichici, come lascia intuire del resto l'ottima “edit version” del videoclip, non poteva essere resa in maniera più efficace. “Everyone In The World Is Doing Something Without Me” rilascia naturalmente la tensione, ma solo sul piano dei battiti per minuto: l'umore infatti si fa ancora più depresso, come l'impianto dark-ambientale del brano emana un lugubre canto di sirena ai limiti dei mondi conosciuti (sirena che altri non è che la cantante d'opera Rebecca Caine). È proprio la stessa “My Kingdom”, a conti fatti il brano-fulcro dell'opera, a riassestare l'equilibrio dell'album, con un numero noir fitto di criptici rimandi simbolici, tra cui sample morriconiani e Vangelis, nonché un fraseggio rubato a Mary Hopkin, il tutto arrangiato furbamente su un passo felino ed elegante dall'ampio respiro “world”, per quanto vagamente tratteggiato. “My Kingdom” è, in molti versi, il saggio trip-hop che coniuga Lynch e Hitchcock e che in tanti tra gli smanettatori britannici downbeat del periodo, Portishead e Massive Attack inclusi, avrebbero voluto scrivere.
Da qui in avanti la nevrosi pare gradualmente sopirsi, o ritrarsi quantomeno nei canali psichici più reconditi. Tracce successive come “Antique Toy” e “Glass” rispolverano il gusto per il sintetico in maniera più giocosa e meditabonda (con una strizzata d'occhio all'estetica Warp), mentre “Quagmire/In A State Of Permanent Abyss” mette in scena un rocambolesco mash-up tra exotica e drill'n bass, su cangiante sfondo cosmico. “Yage”, quindi, è il tanto sospirato rilascio: una luminosa e densissima partitura ambientale dai confini quasi religiosi che ci riporta indietro a una sorta di “tempo profondo” popolato da spiriti maliziosi e divinità incantevoli, tra cui si venerano Lisa Gerrard e Asha Bohsle. L'estasi, però, non è definitiva, e in “Vit Drowning” lo spirito torna a manifestarsi più umano e notturno come re-spiro, mentre “First Death In The Family” chiude il lotto con una nuova glaciazione emotiva, questa volta con l'andamento pesante e tetro di un inconsolabile Frankenstein e un gioco di riflessi sintetici mai così aspri. L'intera l'esperienza di Dead Cities viene così improvvisamente spazzata via alla stregua di una visione, un film proiettato in dormiveglia, una liminalità ai confini del razionale e dell'industriale.

Nonostante le differenze di superficie e di immaginari evocati, al cuore di Dead Cities pulsa tuttavia la stessa tensione al fondo di Lifeforms, il gioco costante e irrisolto tra alieno e familiare, seducente e ripugnante, organico ed elettronico, redenzione e perdizione, lasciando intuire una volta in più come nel programma del duo non ci sia alcuna intenzione di costruire vignette musicali emotivamente e simbolicamente univoche, ma, all'opposto, la voglia lucidissima di sporcare, sbavare i confini, rimettere in discussione costruzioni assodate e rivelare il magma incostante e iper-connesso al fondo di tutto.

Nonostante tutto, Dead Cities riceverà però un'attenzione mediatica a dir poco marginale, sia per il nuovo ordine del giorno della major, che per l'attitudine sempre più incompromissoria di Cobain.
La conseguente chiusura con la Virgin, la disillusione con la macchina dell'hype, la voglia di sperimentare con l'acustico, nonché l'interesse acutizzato per i volumi di spiritualità Hindu-buddhista, fanno collassare il progetto FSOL in maniera quasi naturale e semi-definitiva.

Per Cobain e Dougans, però, non si tratta dell'ultimo atto. Nel 2002 si torna ad aver notizia dei due, riemersi dopo un viaggio attorno al mondo e (Cobain) esperimenti con ritiri meditativi e digiuni, al punto da tornare sulle scene visibilmente scarnificato.
Quello della coppia però sarà un ritorno che lascia basita buona fetta degli aficionados. Riappropriatisi dello pseudonimo Amorphous Androginous, messo in cantina dopo un'unica uscita – quel Tales Of Ephidrina che al contrario si incastra perfettamente nell'evoluzione della discografia FSOL – i due sfoggiano un suono radicalmente diverso rispetto a tutto quello che era stato fatto in precedenza.
The Isness è un progetto pensato in grande in ogni aspetto. L'armamentario strumentale portato in studio è di mole floydiana. Lo studio in sé, almeno per una parte delle session, altro non è che un certo Abbey Road. Il suono si fa ampio e semi-sinfonico. I temi che scorrono toccano la spiritualità e l'astrofisica in chiave post-moderna. Con tanti elementi da tenere al guinzaglio, il rischio che qualcosa andasse storto era insolitamente alto. E infatti l'incisione e l'uscita del disco saranno una frustrante odissea: poco prima della data di uscita prevista (nell'agosto 2002), Cobain decide di rivedere la tracklist, perché “non sufficientemente femminea”, ma alcune copie promozionali avevano già incominciato a circolare. Subito dopo i due rilasciano nuove copie promozionali, con scaletta modificata ma con libretto e artwork non ritoccati, gettando nel panico i critici. La versione definitiva dell'album riceverà ulteriori modifiche, limitate però a una traccia aggiuntiva e una versione differente di “The Mello Hyppo Disco Show”. Come se non bastasse, i distributori americani pubblicano l'album nella primissima versione promo: quando la distribuzione viene richiamata, 2.500 copie erano già sugli scaffali e alcune già acquistate (esemplari che oggi costituiscono una curiosa rarità).
Il disordine della release trova un inquietante parallelo nel contenuto dell'album. L'ambizione evidente è quella di arredare una rock-opera di respiro internazionalista e dai contorni elettronico-Novanta. Psichedelia, jazz, progressive (!) e world music si contendono lo spazio dell'album con battiti elettronici e cameo synth-ambientali, quasi sempre avendo la meglio nel determinare lo “spirito” di ogni traccia. Lungi dalle lucide visioni unitarie del materiale FSOL, però, buona parte di The Isness si spreca confusamente tra jam session aperte tanto da sfiorare l'impersonalità ed episodi più vicini al formato pop-rock, ma non a sufficienza per poterne determinare colore e fisionomia. Tra i contributi dell'album, che ammontano a diverse dozzine, spicca il cameo cancellato all'ultimo momento di Noel Gallagher, che, dopo aver realizzato come la partecipazione “non gli avrebbe dato sufficiente credito”, si ritira dalle sessioni.

Amorphous AndrogynousDetto questo, The Isness non manca comunque di regalare qualche momento di piacere, sebbene troppo spesso latente nella sfera del potenziale e degli irrisolti “e se invece...”.
“The Lovers” è uno di questi attimi, sensuale passo jazzy e angelico fraseggio femminile, vive del momento, fermato e fotografato, e poco più, morendo in un'incursione di sitar, che annuncerà la più breve title track. “The Mello Hyppo Disco Show” è un singolo dalle sembianze Primal Scream, ma è già stanco al secondo minuto, nonostante l'impressionante saturazione strumentale. L'esuberante “Elysian Fields” mischia psichedelia, spinte progressive, archi e flauti, “Go Tell It To The Trees Egghead” riesuma i circoli hippie-scout di Saddhu Brand – in questo, forse, la traccia più coerente del lotto – mentre “Divinity”, il secondo singolo, continua sullo stesso tracciato, azzardando una sintesi felicemente allucinata tra strumentazione neo-classica, sitar e tabla su un tipico scheletro acustico da falò, con tanto di handclapping.
Quando arriva “Guru Song” si tira finalmente il fiato: partitura hip-hop al rallentatore, chitarre wah wah, sample world in riverbero, una ricetta che pare appartenere a un B-side nel suono dei tardi Future Sound Of London, ma che nel cuore di The Isness brilla se non altro di benvenuta familiarità. “Meadows” è, come da titolo, una piacevole escursione bucolica con banjo e Rhodes, preannunciante “High Tide On The Sea Of Flesh”, a mani basse il pezzo più riuscito della raccolta, una toccante hindu-ambient con chitarre “psych” alla stregua dell'indimenticabile lavoro di Michael Brook e U. Srinivas e che, a conti fatti, non avrebbe sfigurato nei lavori immediatamente precedenti dei due. “The Galaxial Pharmaceutical”, infine, prova (con fatica) a tirare le somme, ripartendo dagli stessi toni ambientali per aprirsi a un prog bulimico e richiudersi nuovamente su linee acustiche, chiedendo a un fantomatico farmacista-oracolo galattico: “Do you think I'm animal, or maybe mineral, or simply vegetable?”.

La ricerca esistenziale di Cobain e Dougans raggiunge con The Isness il suo picco di intensità. La resa musicale, animata da un senso di libertà assoluta e al tempo stesso da una certa prosaicità inconsueta nella biografia del duo, non sembra però stargli dietro. Dispersivo e iper-possibilista, l'album finisce col destare interesse paradossalmente quando si contiene in quelle poche strutture già note o derivate, un risultato non troppo lusinghiero per un progetto che solo fino a poco prima aveva fatto della ricerca del suono futuro il proprio credo.
Ciononostante, The Isness è forse il manifesto più appropriato dello stato delle cose in casa Cobain/Dougans: il sentire e gli interessi maturati, musicali e non, hanno fatto del pur generoso marchio FSOL un vestito troppo stretto da indossare, con il sottosviluppato Amorphous Androgynous lì a disposizione come depositario di nuove idee e possibilità. Che piaccia o meno, una nuova storia nel cammino dei due ha avuto inizio.
Il pasticcio promozionale di The Isness sarà in qualche modo rimediato l'anno dopo dalla pubblicazione di The Isness/The Otherness, doppio che raccoglie tutte le composizioni, edite e omesse, del progetto. Il nuovo capitolo della saga Amorphous invece arriverà nel 2005, ancora una volta gravido di intenti fantastici, Alice In Ultraland.

Il terzo episodio dell'indeterminata creatura amorfa dei due soci ha un po' l'intento correttivo nei confronti del predecessore, ma anche trasformativo, nell'umore generale che trapassa. L'attitudine “flower power” dei nuovi Cobain e Dougans è qui più a fuoco, meno auto-indulgente e, in definitiva, più convincente. Maggiormente selettivo, lo spettro sonoro abbracciato dall'opera preferisce la psichedelia e sfumature blues, mentre le collaborazioni hindustani di Baluji Shrivastav hanno più consistenza e dialogano in maniera efficace con il resto del panorama strumentale dell'album. Cobain, sempre più dominante nelle scelte del duo, inquadra espicitamente il lavoro Amorphous Androgynous come una risposta “ai tempi cambiati” rispetto agli esordi, in particolare “il ritorno dei Sessanta” come riscoperta delle filosofie orientali (Cobain si dichiara avido lettore di Krishnamurti e Lao Tzu) e dei moti per una libertà svincolata da ogni costrizione.
Alice In Ultraland riesce a comunicare questa nuova dimensione del duo in maniera più persuasiva e musicalmente seducente. “The Emptiness Of Nothingness” introduce l'album con un caleidoscopico incrocio di psichedelia e shoegaze e idilliche spolverate “orientaleggianti” di flauto, “The Witchfinder” riprova, questa volta senza strafare, il quadretto hippie-arcadico di “Divinity”, mentre la sua controparte, “The Witch Hunt”, sfiora territori krauti con polso e oculatezza sorprendtenti. I capolavori però arrivano dopo: “All Is Harvest”, un semplice ma toccante blues per archi, chitarre e flauti, e “The Prophet”, una jam psichedelico-pesante con rievocazioni Funkadelic e soprattutto “High And Dry”, probabilmente la “canzone” propriamente detta che Cobain aveva in mente fin da The Isness e che finalmente fiorisce in un pezzo liquido e coerente, persino orecchiabile, con percussioni, chitarre acide e tamburelli in improvvisazione, in cui si tradisce un malcelato apprezzamento per Mercury Rev e Primal Scream (nonché il fantasma beatlesiano di “Tomorrow Never Knows” che infesta a ben vedere quest'intera fase nella carriera dei due) e che rivela sempre più chiaramente come Alice In Ultraland, e un po' l'intera storia Amorphous, sia un lavoro pensato prevalentemente in chiave live, come performance non definitiva e potenzialmente riscritta, allargata, imbastardita a piacimento: in libertà assoluta, appunto.
Pubblicato per la decisamente poco elettronica Harvest Records, Alice In Ultraland segna l'approdo definitivo del progetto Amorphous nei settori più “tradizionalmente” prog e indie, abolendo tracciati di confine e portando ai (mai così fitti) tour curiose platee ibride.

Il progetto Amorphous Androgynous, in realtà più un gruppo aperto sotto l'egida di Cobain che un'esclusiva del duo originario, continuerà nel 2008 con The Peppermint Tree & The Seeds Of Superconsciousness, che però aggiungerà poco o nulla ai lavori precedenti. Nella stessa vena compare anche il più interessante The Woodlands Of Old, sotto il nome di Yage, che amplifica la ricerca ritmica, tanto acustica quanto elettronica in un'atipica salsa tribal-kraut.

Contemporaneamente, però, Cobain e Dougans, ormai padri di famiglia (Dougans vive in una chiesa sconsacrata, Cobain nella campagna francese), fanno sussultare nuovamente i fan della prima ora, inclusi quelli non del tutto convinti dalla svolta rock del duo, e a partire dal 2007 tornano a pubblicare nuovamente materiale come Future Sound Of London. Più che pubblicare si dovrebbe forse parlare di inondazione: tra il 2007 e il 2016 arrivano ben quattordici uscite di materiale nuovo e meno nuovo, tutte disponibili sia su disco tradizionale che in download digitale dal sito ufficiale.

Le uscite sono divise in due macro-gruppi: From The Archives raccoglie prevalente rielaborazioni su materiale già edito, per quanto spesso rimuginato fino all'irriconoscibile, e preferisce un impianto downtempo e godibile (per quasi tutto qui vale la pena l'acquisto o almeno un ascolto, soprattutto i vol. 1, 2 e 4), Environments invece punta su ambient e field recordings, con composizioni per lo più inedite. Insuperato, nella serie pubblicata, Environments primo, splendida doppia suite sintetico-cosmica che non sarebbe dispiaciuta a un Edgar Froese d'annata né al digital-minimalismo di un Tetsu Inoue.
L'ispirazione della serie Environemnts scema sensibilmente con i numeri successivi, ma la qualità rimane sorprendente alta dall'inizio alla fine, con Environment Five a spiccare sulle altre come chicca, grazie a una felice sterzata post-rock che prova a conciliare il suono tipicamente FSOL con le ambizioni di Amorphous Androgynous, trovando quella sintesi che lo zoccolo duro dei fan della prima ora avrebbe volentieri ascoltato da un decennio a questa parte, in luogo di tante altre uscite parallele.

Future Sound Of London

Discografia

FUTURE SOUND OF LONDON
Papua New Guinea Ep (Ep, Jumpin' & Pumpin', 1991)
Accelerator (Jumpin' & Pumpin', 1991)
Cascade Ep (Ep, Virgin, 1993)
Lifeforms Ep (Ep, Virgin, 1993)
Lifeforms (Virgin, 1994)
ISDN (Virgin, 1995)

Far-Out Son Of Lung And The Ramblings Of A Madman (Ep, Virgin, 1995)

My Kingdom (Ep, Virgin, 1996)
Dead Cities (Virgin, 1996)
We Have Explosive (Ep, Virgin, 1997)
Papua New Guinea Translations (remix compilation, Jumpin' & Pumpin', 2001)
Teachings From The Electronic Brain (compilation, Virgin, 2006)
From The Archives vol. 1, 2, 3, 4 (fsoldigital.com, 2007)
Environments (fsoldigital.com, 2007)
A Gigantic Globular Burst Of Antistatic (fsoldigital.com, 2007)
The Pulse (compilation, Jumpin' & Pumpin', 2008)
From The Archives vol. 5 (fsoldigital.com, 2008)
Environments II (fsoldigital.com, 2008)
From The Archives vol. 6(fsoldigital.com, 2010)
Environments 3(fsoldigital.com, 2010)
Environments 4 (fsoldigital.com, 2012)
From The Archives vol. 7(fsoldigital.com, 2012)
Environment Five(fsoldigital.com, 2014)
Life In Moments (compilation, fsoldigital.com, 2015)
Environment 6, 6.5 (fsoldigital, 2016)
AMORPHOUS ANDROGYNOUS
Tales Of Ephidrina (Quigley / Virgin, 1993)
The Isness (Future Sound Of London Rec., 2002)
The Isness / The Otherness (Psychobaby, 2004)
Alice In Ultraland (Harvest, 2005)
The Peppermint Tree & The Seeds Of Superconsciousness (fsoldigital.com, 2008)
The Cartel vol. 1 & 2 (fsoldigital.com, 2013)
HUMANOID
Global (Westside, 1989)
YAGE
The Woodlands Of Old (fsoldigital.com, 2008)
Pietra miliare
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