Muslimgauze

Muslimgauze

Vampiri, narcotici e profeti

Autore di una delle discografie più estese di sempre, Muslimgauze è stato un personaggio fondamentale negli scenari post-industriali e a suo modo unico nella sua reinterpretazione di suggestioni etno-ambient al servizio di un'acuta militanza politica, anticipando i tetri umori del Duemila e ispirando un'intera nuova generazione di musicisti alle prese con le drum machine applicate alla cultura del terrore. Breve introduzione a un culto in dieci opere seminali

di Roberto Rizzo

Bryn "Muslimgauze" Jones ha tutte le credenziali per posizionarsi ai vertici di ogni eventuale graduatoria che ordini i suoi candidati per oscurità, prolissità o controversia, tutti parametri che nella sua esperienza sono andati brillantemente a braccetto. Tra sparute dichiarazioni sibilline, una coscienza politica incompromissoria ai limiti dell'oltranzismo e una mole di produzioni a due zeri - questo in un'epoca che non aveva ancora conosciuto la bulimia della Retromania e dei file digitali - la discografia Muslimgauze si è estesa ai margini dell'industria per appena tre lustri, lasciandosi dietro tuttavia un numero di quesiti, dischi e contraddizioni sufficiente a nutrire una carriera pluri-riconosciuta.
Un'ambiguità che una precoce morte a trentasette anni ha esclusivamente contribuito ad alimentare la legenda di una figura già ascritta a un (pur sotterraneo) mito.

Come ogni personaggio tutt'altro che semplice o con pretese universali il suo curriculum è stato interpretato alternativamente come un impressionante cumulo di meriti e di fallimenti. Se a questi ultimi ha contribuito la prolissità di un opus in superficie poco giustificato, avulso da ogni senso di compiutezza e sintesi, d'altro canto il contributo di Muslimgauze è stato seminale, tangibile e per molti versi insuperato nel veicolare messaggi politicalmente militanti - anch'essi, per altro, ereditati dal radicale manifesto industrial - in una carrozzeria etno-ambient insolitamente ideata e forgiata nei foschi cantieri della tarda scena industriale. Una genesi che spiega in parte l'unicità del progetto di Bryn Jones e che lo distingue dalle rumorose autocelebrazioni world (sulla cui scia pure si aggrappa qui e lì), dai pregiati intellettualismi quartomondisti o da orientalismi vari.

Muslimgauze non è frigida descrizione, né interpretazione, né osservazione partecipante - di fatti in Medio Oriente Jones non ci mise mai piede. Il suo simpatizzare con l'OLP e con varie figure postcoloniali, la condanna senza mezzi termini di Israele e degli influssi americani in Medio Oriente e nel Maghreb, cosiccome il frequente cristallizzarsi su un semplice fotogramma di guerra ha la commozione di una umanissima empatia e di un valico di confini, quelli edificati sulla geo-politica e quelli costruiti sull'alterità. Del colonizzato e del colonizzatore.

The music can be listened to without an appreciation of its political origin, but I hope that after listening the person asks why it's called what it is and from this finds out more about the subject. It's up to them. Go out and discover.

Opaques (Product Kinematograph, 1983)

muslim7I primi vagiti della storia Muslimgauze si rintracciano agli inizi degli Ottanta, Bryn Jones un ventenne di Manchester folgorato dallo scandalo industrial che scorrazzava nei capannoni inglesi parallelamente ad un'onda punk già moribonda, in particolare una memorabile performance dei Throbbing Gristle a Manchester cui partecipa appena diciassettenne. Un paio di nastri come E.G. Oblique Graph lo introducono nel micro-universo industriale britannico, ma è nel 1982 che il nostro decide di fare sul serio, ribattezandosi simbolicamente Muslimgauze, un adattamento di "muslin" e "gauze", infine riarrangiato per palesare il caldeggiato nesso con il Medio Oriente.
Dopo l'Lp Kabul esce quindi nel 1983 Opaques, un nastro di sei pezzi che offre una serie di spunti innovativi in più nel progressivo distacco da un suono altrimenti - per quanto ostico e sotterraneo - "tipico". L'album si apre con una dedica a Milena Jesenska, scrittrice ceca vittima dell'Olocausto, uno straniante pezzo "minimal" (aggettivo cui bisognerà ricorrere di frequente nella discografia di Jones), che si trascina su un beat sintetico lobotomizzato e un loop pseudo-chiesastico che si riavvolge su se stesso a fine traccia. "Cyst" e "Anatomy" portano avanti il discorso con nuovi riferimenti a inni e marce che "opacizzano" il confine tra religione e propaganda di stato, ma anche con una cura del ritmo sintetizzato, austera ma a suo modo ambiguamente melodica, che lo avvicina più a certe cose dei Monoton o dei Borghesia che alle narrative industrial.
A scoraggiare le pur vaghe tentazioni melodiche ci pensa però in chiusura d'album l'angosciante "Taoist", un ombroso collage ambient-industriale di diciotto minuti costruito su oggetti rituali e che lancia un ponte verso i contemporanei :zoviet*france:, ma che anticipa anche alcune cose dei Coil più sperimentali.
Il dazio con (il meglio di) tutto quello che girava negli scantinati inglesi era così saldato. Si trattava a questo punto di aprirsi un proprio, peculiarissimo, campo d'azione artistico, tra gli orrori del Golfo Persico, l'invasione del Libano e le avvisaglie di un rinnovato fervore jihadista.

Abu Nidal (Limited Editions, 1987)

muslim8Quattro anni e quattro album più tardi esce quindi Abu Nidal, album che inquadra definitivamente e interamente in una nuova prospettiva il progetto Muslimgauze. L'opera è dedicata all'omonimo attivista fondatore del Consiglio Rivoluzionario Palestinese ed esplora il drammatico svolgersi degli eventi in Medio Oriente che incendia il quesito etico dell'invasore e della "violenza giustificata" - un conflitto che Jones invece non esita a collocare senza falsa diplomazia nelle pochissime interviste che rilascia nel periodo alle fanzine di settore.
La prima metà del lavoro è composta proprio dalla suite in tre parti (o, meglio, "versioni") "Gulf War" costruita su ritmi "tribal" o arabeggianti in loop continuo su cui si insinuano altri elementi di disturbo, frammenti di un qualche campionamento acustico, voci, e soprattutto tanti field-recording.
Si tinge invece di toni più emotivi la seconda parte, con la title track, che viaggia su uno spedito loop di ritmi mediorientali avviluppati in una freddissima spirale ambient che straripa qui e là in imprevisti territori cosmici, ma anche e soprattutto con il collage etno-ambientale di "Green Is The Color Of The Prophet", eccellente numero che punta a un subdolo orientalismo in guisa di revival teocratico post-moderno e che non sfigurerebbe nel canzoniere di certi Dead Can Dance (zona "The Serpent's Egg"). Il concept si ritrova quindi nella conclusiva "Fatwa - Religious Decree Giving Recourse To Terrorism", che riassume stilisticamente e tematicamente l'opera.
Abu Nidal è il perno irrinunciabile sui cui edifica l'esplorazione etno-ambientale di Muslimgauze, una deriva che ha però poco o nulla a che spartire con la parallela affermazione del fenomeno "world music" e che si pone da una parte come sviluppo ulteriore e non autorizzato di certe intuizioni industriali già presenti nei cantieri "zovietici", dall'altra come uno dei punti più raffinati dell'intero percorso di Jones.

Zul'm (Extreme, 1992)

muslim9A cavallo tra i due decenni Jones si avvicina progressivamente alle tendenze elettroniche più orientate al club, esplorando le già intrinseche affinità con i movimenti techno, in Inghilterra già sublimati nell'acido delle summer of love. Se dischi come Iran, The Rape Of Palestine e Uzi erano timidi tentativi di incorporare il 4/4 nel canovaccio Muslimgauze, Zul'm porta a compimento il felice matrimonio e inaugura un intero, corposo, capitolo nella discografia di Jones.
Uscito come i precedenti Intifaxa e United States Of Islam sulla pregiata Extreme, Zul'm racchiude alcuni degli episodi più coinvolgenti dell'intera esperienza del nostro: dalla punjab-danza di "Fakir", alla minimal-techno di "Curfew, Gaza", al bellissimo raga speziato di tabla e loop non meglio identificati di "Afghan Black" fino al quasi-hip-hop di "Indian Summer Of Benazir Bhutto", dedicata all'omonima chiacchierata premier pakistana, e alle distese etno-ambient di "Tehran Via Train" e "Shiva Hooka", animate da pulsazioni elettroniche a sorpresa, i sette - variegati ma coerenti - tasselli di Zul'm sono il meglio di quanto il connubio etno-electro aggiornato ai Novanta potesse offrire. Un'impresa che tiene ben saldo Jones al qui-ed-ora anche estetico, oltre che politico. Un'immersione che avrebbe probabilmente potuto fiorire appieno con la collaborazione con 808 State mai andata completamente in porto, ma che in ogni caso rinfresca il progetto in una chiave diversa, ancora più inclusiva e sempre più indefinibile ed enigmatica.

Vote Hezbollah (Soleilmoon, 1993)

muslim10Appena sei mesi più tardi Muslimgauze approda sulla gloriosa Soleilmoon, per cui usciranno diverse sue produzioni significative, tra cui entrambi i due memorabili Lp rilasciati nel 1993. Il primo, dedicato "alla liberazione della Palestina" è Vote Hezbollah, album che continua sul tragitto marcato da Zul'm, con una più spiccata propensione per la componente elettronica. L'album si compone di tredici tracce che mimetizzano nel solco techno-ambient del tempo, loop, voci e incursioni acustiche che mutano il segno generalmente e felicemente estraniato del filone in un umore minaccioso e precariamente "dark".
A differenza del lavoro precedente, Vote Hezbollah non si costituisce di individualità solide, ma si svolge in maniera uniforme in uno stato di trance in cui in svariate occasioni Gerusalemme sembra dissolversi per riemergere sulle spiagge di Goa.
Se l'occhiolino alla nascente scene ambient-allucinogena è evidente, l'album si mantiene nondimeno su un brillante equilibrio tra un godibilissimo trip e un sostrato oscuro sempre allerte, al di qua di ogni facile cliché. Per molti versi, il disco di Muslimgauze più accessibile all'audience più tipicamente "electro".

Veiled Sisters (Soleilmoon, 1993)

muslim11Il contributo di Bryn Jones al filone etno-trance elettronico tocca però il suo vertice di ispirazione con il seguente, doppio, Veiled Sisters. Accompagnato al solito da un artwork di classe, Veiled Sisters dilata ulteriormente i tempi - da intendersi qui anche in senso "altro" - presentandosi fondamentalmente come un flusso, una variazione continua su un motivo unico che si distende per oltre due ore, ma che sembra puntare in diversi momenti a un'eternità oltre ogni ontologia.
Il tema fondamentale è ancora una volta l'occupazione della Palestina, l'Olp, ma la condizione di colonizzato è estesa qui anche su altri livelli, come suggeriscono il materiale sonoro, proveniente o ispirato prevalentemente al sub-continente indiano, in cui Goa questa volta è solo il porto d'attracco da cui investigare i meandri di un mondo meno plastificato. Proprio da uno stato di coscienza quantomai elevato sembra provenire la prima porzione del lavoro, proiettata com'è su una sottile aura di melanconia e trascendenza, in cui si susseguono frammenti di vissuto, geo-politica, tappeti minimal, percussioni, echi industriali e brevi campionamenti acustici che soffiano senza traiettoria ma che affascinano vivide come allucinazioni. La seconda parte punta invece su un'ambience più scura e una scelta ritmica più eterogenea, pur non discostandosi troppo dalla soluzione - e dalla qualità - impostata dalle prime tre tracce.
Da diversi cultori considerato come la summa dell'intera mole di produzioni gauziane, Veiled Sisters è sicuramente il lavoro più suggestivo ed emotivo di Jones, che mette in risalto a chiare lettere la sua idea di composizione "aperta", vale a dire di continua, ossessiva, rielaborazione di idee e campionamenti, un'idea che lavora sulle possibilità molteplici della prospettiva - prospettiva spesso su un'identico campionamento sviscerato all'infinito - piuttosto che sulla scrittura tradizionalmente intesa. Fatto che spiega parzialmente anche la prolissa discografia Muslimgauze e che Veiled Sisters comincia a portare definitivamente a galla: alle "session" dell'album, infatti, apparterranno anche ulteriori variazioni sullo stesso tema, alcune anche particolarmente valide, raccolte postume su Untitled (2000).

Izlamaphobia (Staalplaat, 1995)

muslim12La produzione di Muslimgauze comincia quindi a farsi bulimica, nell'incontinenza programmatica di rilasciare ogni incisione ritenuta meritevole senza aggrapparsi ad alcuna pretesa compiutezza.
Dopo ben sei album rilasciati nel 1994 (tra cui da ricordare almeno l'ottimo Al-Zulfiquar Shaheed), il 1995 è segnato dal più ambizioso Izlamaphobia, opera che da un lato sembra riallacciarsi più direttamente alla controparte politica, dall'altro esplora scenari nuovi, più crudi e disturbanti, rispetto alle suggestioni etno-ambient cui sembrava aver dedicato l'intera prima metà dei Novanta. Il doppio Lp si compone di trentatré tracce frammentarie, destabilizzanti, in cui l'utilizzo di loop, hiss, stop&go e giochi di frequenze si fa quasi maniacale, come sintetizza brillantemente l'iniziale "Hudood Ordinance", nel cui groviglio di suoni abrasivi e bassi screziati riemerge la ruggine dell'industria pesante.
Stilisticamente il resto dell'album spazia dal breakbeat all'hip-hop fino a certo trip-hop di frontiera, ma invece di indugiare nelle rassicuranti identità di genere di tendenza Jones sembra pescare dalle stesse al solo scopo di abbozzare scheletri su cui inscenare violente visioni "acid-arab", per dirla con un'espressione post-millennium. Più spesso Izlamaphobia, piuttosto, sembra (ri)trovare affinità con certe reincarnazioni coeve dei mostri industriali, gli Horizon 222 di Ben Ponton, Rapoon e il post-Cabaret Voltaire di Richard H. Kirk, inasprite e aggiornate però ai postumi di una sbornia rave al risveglio nella polvere di Baghdad. Izlamaphobia è uno dei lavori più estremi e incompromissori - ma tutt'altro che inaccessibile - di Jones e il suo lascito più ambizioso e probabilmente insuperato nella visione di un arab-electro-industrial d'avanguardia su cui il discorso sarebbe ripreso, di fatto, solo una quindicina d'anni più tardi e a cui nomi come Mutamassik e Filastine avranno acceso più di un incenso.

Return Of Black September (Staalplaat, 1996)

muslim13Accasatosi su Staalplaat, per cui rilascerà decine e decine tra Lp, Cd-r e singoli, Muslimgauze prosegue il suo il momentum con un'altra serie di lavori apprezzati, come Gun Aramaic e Uzbekistani Bizarre & Souk, ma è soprattutto l'eccellente Return Of Black September a distinguersi l'anno successivo, grazie a una nuova formula che reintroduce in primo piano la componente ambientale dopo i deliri break di Izlamaphobia. Se l'album, che lancia un riferimento all'organizzazione terroristica palestinese, rientra in un ottica evidentemente "etno", grazie al solito privilegiato focus sulle percussioni - suonate quasi interamente dal solo Jones - e sui campionamenti "orientaleggianti", Return Of Black September tocca sovente profondità dark-ambient finora raramente esplorate e che rimandano al suono abissale di Vidna Obmana e di alcuni lavori di Pete Namlook.
Il centro dell'album si svolge attorno alle suite "Lybia" e "Thugghee", che vivisezionano i tipici campionamenti acustici fino a lasciarli strisciare in circolo a mo' di droni. L'ambience è di conseguenza fortemente ipnotica e notturna, trascinata com'è dal suono esteso degli echi e dai rantoli ritmici che sembrano avanzare inquietanti e in sordina come il felino non meglio identificato in copertina. Sotto ogni aspetto, il capolavoro "ambient" di Muslimgauze.

Narcotic (Staalplaat, 1997)

muslim14Tra il 1997 e il 1998 Muslimgauze pubblica ben diciotto lavori, incluse tre collaborazioni (con Sonar, Rootsman e Les Joyaux de la Princesse), con un dispendio di energie e stimoli con pochi epigoni nella storia della musica incisa. La prima pubblicazione dell'anno è probabilmente anche la più memorabile. Narcotic sembra fare il punto della situazione sui risultati raggiunti nel lustro precedente, filtrando e concentrando le tante intuizioni in un album questa volta (relativamente) più tradizionale. Dalla danza del ventre di "Medina Flight" alla trance minimal di "Believers Of The Blind" all'ambient tribale di "Effendi", Narcotic è una sequenza babelica di piccoli gioielli ormai univocamente identificabili solo come "Muslimgauze". Ad arricchire di colore il disco anche le inusuali - e toccanti - parentesi esclusivamente acustiche come "Saddam's Children" e la tripartita title track, che culmina in un sommesso duetto di oud e percussioni attraversato da sporadiche frequenze elettroniche, indubbiamente tra gli attimi più "orecchiabili" dell'intera impresa Muslimgauze.
Se doveste trovarvi a scegliere un solo disco di Jones da prestare agli alieni per introdurre al meglio il suono "gauze", Narcotic sarebbe senza batter ciglio la scelta obbligata.

The Gulf Between Us (Soleilmoon, 1997)

muslim15Nell'oceano di produzioni del nostro figurano anche numerosi - una trentina - di Ep, generalmente poco più che schizzi parallelamente approfonditi altrove su full length. Tra questi spicca però il suggestivo Gulf Between Us, un'unica composizione di ventitré minuti in cui Jones flirta più esplicitamente con le strutture dub. Si tratta di un movimento stordito, un ondeggiare in ipnosi tra riverberi e impalpabili melodie sintetiche (si può pensare qui ad alcune cose degli African Head Charge), che con il passare dei minuti prendono il sopravvento in modo angosciante, fin quasi ad affogare le percussioni a mero ruolo ornamentale. Il pezzo sarà rivisitato e rielaborato sul parallelo Narcotic, ma è in questo godibile Ep - accompagnato da un artwork che mostra una veduta aerea sul Golfo Persico - che la soluzione viene spiegata in tutto il suo potenziale trasognato.

Mullah Said (Staalplaat, 1998)

muslim16Al vertice della sua prolificità, quindi, Jones rilascia il suo ultimo grande capolavoro, nonché quello che sarà tristemente ricordato per molti come il suo testamento. Mullah Said riprende il formato "in flusso" di Veiled Sisters, ma l'allucinazione ha a questo giro più i tratti di un tormentato dormiveglia che l'ampio respiro di un trip alla fine dei mondi, a cominciare dal richiamo di un muezzin che circola nel corso dell'intero album. Le composizioni sono fluide e gentili, caratterizzate da corde mediorientali, sitar e voci in eco imperscrutabili e traghettate da un dub-techno in punta di piedi in perenne riverbero.
Mullah Said ha le carte in regola per il lavoro definitivo di Jones - lo stile peculiare, la forma accattivante, le splendide foto in booklet, titoli che sono pallottole - e di fatti sarà il disco ad oggi più conosciuto e quotato del musicista di Manchester.

Bryn Jones lascia queste lande ad appena trentasette anni per le complicazioni di un'infezione fungina. La Palestina nel frattempo non è un territorio libero e il Medio Oriente, l'Iran e il Pakistan sono tutto fuorché purgati da terrorismo, estremismo e petrol-dollari. Anche per questo, forse, il mito di Muslimgauze risuona oggi più forte e influente che mai (Helm, Vatican Shadow, Shackleton hanno tutti più o meno esplicitamente riconosciuto l'ascendente del lavoro di Jones), mentre il diluvio di uscite postume non accenna a esaurirsi, cosiccome l'incredibile pozzo di materiale inciso e mai pubblicato da cui le etichette più disparate continuano ad attingere e ad aggiungere ulteriori titoli alla già florida discografia attivamente accumulata in vita dal nostro. Tra questi da avere almeno gli ottimi Baghdad (2000) e Speaker Of Turkish (2006), ma - come si sarà intuito - in ogni singola uscita sotto il marchio Muslimgauze è possibile rinvenire spunti di interesse, estasi e sana inquetudine. Come si conviene, del resto, a ogni grande nome della musica (im?)popolare di ogni epoca.

Muslimgauze

Discografia

DISCOGRAFIA SELEZIONATA
Kabul (Product Kinematograph, 1982)
Opaques (Product Kinematograph, 1983)
Buddhist On Fire (Recloose Org., 1984)
Flajelata (Limited Editions, 1986)
Hajj (Limited Editions, 1986)
Coup d'Etat (Permis de Construire, 1987)
Abu Nidal (Limited Editions, 1987)
The Rape Of Palestine (Limited Editions, 1988)
Intifaxa (Extreme, 1990)
United States Of Islam (Extreme. 1991)
Zul'm (Extreme, 1992)
Vote Hezbollah (Soleilmoon, 1993)
Veiled Sisters (Soleilmoon, 1993)
Satyajit Eye (Staalplaat, 1993)
Blue Mosque (Staalplaat, 1994)
Citadel (Extreme, 1994)
Al-Zulfiquar Shaheed (T.4, 1994)
Izlamaphobia (Staalplaat, 1995)
Gun Aramaic (Soleilmoon, 1996)
Return Of Black September (Staalplaat, 1996)
Narcotic (Staalplaat, 1997)
The Gulf Between Us (Ep, Soleilmoon, 1997)
Zuriff Moussa (Staalplaat, 1997)
Sandtrafikar (Staalplaat, 1997)
Vampire Of Tehran (Staalplaat, 1998)
Mullah Said (Staalplaat, 1998)
Hussein Mahmood Jeeb Tehar Gass (Soleilmoon, 1999)
Lo-Fi India Abuse (BSI, 1999)
Untitled (Klanggalerie, 2000)
Baghdad (Staalplaat, 2000)
Dome Of The Rock (Ant-Zen, 2003)
Speaker Of Turkish (Soleilmoon, 2006)
Pietra miliare
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