Va detto che c'era molta attesa per il ritorno in gran spolvero di Shackleton, chi scrive sicuramente la coltivava da parecchio. Il problema - uno dei - dell'approcciarsi a Shack è che bisogna avere una certa predisposizione d'umore: non è uno che ti metti nelle cuffiette per correre o nell'impianto stereo per favorire la copula. Ha questo mondo di morte medievale attorno, un po' bubbonica e un po' da tortura, che tende a mettere le cose su un piano "abbastanza" integralista. Poi c'è il fatto che tutto questa volta si muove attorno a un concept, arrivano due dischi e non uno solo, è chiaro che per l'uomo della strada è facile farsi salire la fotta.
Sam è dunque altrove con la mente e gli arnesi del mestiere. Fuga totale. Ciao ciao a tutti dal pianeta Shackleton. A guardare poi bene l'immagine posta in copertina, pare sia finito nelle mani di qualche smidollato della benemerita Not Not Fun. Ma non è affatto così. Sam non è a Los Angeles. Sam è davvero in qualche altro mondo. Qualcosa tra Pandora e Tralfamadore. Forza della natura e astrazione pura. Cuore e psiche. Droga e mentalismo. Neuroni al vento e fosforo da vendere.
È musica per le ore di quiete, come è lui stesso a suggerirci, ma anche no. Di certo evasione dalla realtà e dalle appartenenze. Battiti terzomondisti e tropicalismi post-moderni mettono a nudo la visione androide, solo a tratti umana, di uno sciamano fuori dal tempo in perenne viaggio metafisico, meta-dubstep, meta-tutto. L'inafferrabilità è totale. La bussola è riposta nel cassetto. Domina un esotismo alienante. L'umore è ora nero e intriso di misticismo, ora vivo e pulsante, mai retto e conciso. La direzionalità è nulla: ci si disperde inconsapevolmente, storditi a più riprese in un'estasi di xilofoni impazziti, vortici siderali e tumulti suburbani. Tutto è dannatamente obliquo, sfuggente.
Sam scivola nell'Iperuranio del dubstep. È un folletto che salta da un funghetto all'altro. La foresta è buia. Poca luce. Tante ombre. Una sola guida. Vengeance Tenfold sputa fuoco dall'alto di una nuova consapevolezza. Un macigno in gola che vibra e annienta. Un predicatore dal pugno di ferro e dall'assoluta fierezza.
In un lavoro come questo, in cui le mutazioni di Shackleton vanno a toccare ambiti lontani da quello che è stato lo schema dubstep, verso Reich e il minimalismo, ci si affaccia su un'opera che ha spesso - e che induce spesso - visioni, una musica non solo ornamentale di ricerca estetica ma anche viva e forte nel poter esprimere e suggerire immagini in un linguaggio sempre più proprio, difficilmente inquadrabile. Decisamente post-qualcosa, o semplicemente di non catalogazione. Niente male nel decennio del già sentito, niente male per un'opera che parte ambiziosa e porta a casa un bellissimo risultato con tutte le imperfezioni di chi spinge l'orizzonte un passo più avanti.
25/05/2012