Benvenuti nel negozio di articoli usati di Mick Collins. Un genio del garage-rock americano che, quando si imbatte nei proverbiali momenti di crisi dello scrittore, ama pescare nello sconfinato antiquariato della storia della musica moderna. E, da buon artigiano, prende a prestito da altri generi, seziona, cesella e scompone ogni singolo pezzo, rimontandolo secondo la propria visione, proprio come un novello Picasso. Lo aveva già fatto una decina d'anni fa con "Ultraglide In Black", quando raccolse una serie di classici soul-funk, sconvolgendoli in una manciata di cover pazzesche.
Questa volta Mick e i fedeli Dirtbombs si spingono addirittura oltre, verso territori mai battuti prima, sui quali sarebbe molto facile lasciarci le penne. "Hey boys, siamo di Detroit, la culla della musica americana, qui si è suonato di tutto, con cosa vogliamo misurarci questa volta?". La scelta è caduta su nove classici techno della loro città nativa. Sì, avete capito bene, techno, direttamente dai decenni 80 e 90. Una selezione di brani sconosciuti ai più, eseguita da chi conosce la materia a menadito e sa come tramutarla in arrembaggi sonici, vero marchio di fabbrica del negoziante Collins e dei suoi collaboratori.
Vorremmo stare qui a parlare di esperimento completamente riuscito, e a tratti è così, vedi la straripante e festosa rilettura di "Strings Of Life", davvero meritevole di essere ballata per una notte intera anche in questa versione: tenetela a mente se la prossima estate dovrete attrezzare degli indie-party in spiaggia. Per gran parte del disco la band riesce a generare un perfetto mix fra garage-rock e musica da dancefloor, adagiando le proprie attitudini su quelle della scena techno. Le cover funzionano bene quasi sempre, e per un'oretta si viene trasportati in una realtà parallela che abbatte le barriere fra sottoculture (perché di sottoculture stiamo parlando, non certo di stili di massa). Purtroppo, però, i Dirtbombs questa volta a tratti restano troppo prigionieri degli originali (come nel caso dell'hit single degli Inner City "Good Life", l'unica traccia che più di qualcuno dovrebbe riuscire a ricordare), spersonalizzando oltremodo le proprie consolidate attitudini. Inoltre, qualche lungaggine di troppo mina seriamente la completa riuscita del progetto: un terzo dell'album è occupato da "Bug In The Bass Bin", originariamente lanciata dalla Innerzone Orchestra di Carl Craig, presente dietro i sintetizzatori anche in questa versione. Oltre ventuno minuti di ipnosi ai confini con il kraut, che sfido chiunque ad ascoltare in maniera attenta senza toccare mai il tasto di avanzamento veloce.
Peccato, perché l'idea del tributo alla scena techno si dimostra coraggiosa e originale: un'intelligente iniziativa volta ad avvicinare due mondi apparentemente così distanti, frutto di un attento lavoro di ricontestualizzazione, eseguito senza mai privare le singole canzoni della propria anima originaria. Forse l'esperimento resterà soltanto un divertissement occasionale ed è presumibile che nessuna di queste reinterpretazioni diventerà un classico delle memorabili esibizioni live firmate Dirtbombs. "Party Store" è probabilmente destinato a restare nella memoria collettiva come un godibile riempitivo nella loro discografia, in grado tuttavia di suscitare la necessaria dose di curiosità e il dovuto apprezzamento. E magari di aprire una nuova via, che qualcuno potrebbe presto dimostrare di essere pronto a seguire.
Alla fine si resta con uno straordinario punto interrogativo: ma quanta musica memorabile è stata scritta per le strade e nelle case di Detroit? Non c'è tempo per rispondere: è già ora di chiudere il negozio. Quanti articoli siamo riusciti a piazzare quest'oggi?
31/03/2011