Telegiornale, servizio sulle banche, la borsa, il superenalotto: la solita carrellata di vane speranze e dati sconfortanti. Si salva la colonna sonora: “Money, Money, Money”, classica e immancabile. Certo, ormai un po’ prevedibile, come la tv che trasmette per l’ennesima volta in prima serata il musical “Mamma mia”, con Meryl Streep e Amanda Seyfried. Visto e stravisto, ma sempre gustoso. E che dire del tormentone “Hung Up”, uscito nel 2005 e rimasto in vetta alle classifiche per mesi e mesi col suo bel campionamento da “Gimme! Gimme! Gimme! (A Man After Midnight)”?
Era il 1982 quando gli ABBA si scioglievano, ma ancora oggi, 2013, la loro musica è ovunque. Piacciano o non piacciano, le canzoni del quartetto svedese hanno un’immediatezza e una limpidità che le rendono il non plus ultra della pervasività pop. E fanno degli autori, legittimamente, la band non anglosassone più celebre della storia anche negli Usa e nel Regno Unito.
Ascoltateli, gli album che hanno inciso: troverete sorprese per ogni gusto. Ma è inutile girarci attorno: il capolavoro non c’è; le tracklist oscillano tra magistrali hit singles e sciropposi trionfi kitsch. Compito di ogni appassionato sarebbe allora quello di mettere assieme la propria personale compilation dei sogni, non fosse che c’è già, si chiama “ABBA Gold” ed è uscita nel 1992, a celebrare i 10 anni dalla separazione del gruppo.
Sono diciannove le tracce di “ABBA Gold”, e tra loro ci sono tutti quei 5-10-15 pezzi indimenticabili che, al di là delle personali predilezioni, hanno fatto e fanno tuttora il mito della band.
Gli artigiani del pop
La storia di questi quattro musicisti svedesi, Agnetha Fältskog, Björn Ulvaeus, Benny Andersson, Anni-Frid Lyngstad (A.B.B.A.), è un sostanziale a sé rispetto a quella delle popstar anglosassoni. Mentre quelle calcavano i palchi di mezzo mondo e si davano il turno a Top of the Pops, gli ABBA si facevano le ossa cercando di conquistare una finestra all’Eurovision Song Contest, accanto a Gigliola Cinquetti e Nicola di Bari.
Ci riuscirono nel 1974 con “Waterloo”, che sbaragliò la debole concorrenza e dalla Scandinavia li portò alla ribalta mondiale. Tratta dal loro secondo, omonimo album, la canzone è il primo esempio di quella speciale maestria fatta di equilibrio e colori sgargianti, di pomposità ed essenzialità, che sarebbe stato il principale tratto distintivo del loro stile.
Nata come energico pop-rock condito di chitarroni e venature rock’n’roll, fu spogliata in fase di lavorazione, ristudiata e rivestita di scintillanti panni disco finemente cesellati da Benny Andersson e Björn Ulvaeus, principali autori dei brani della band nell’arco di tutta la carriera e fondamentali factotum di tutti i dischi.
La declinazione che gli ABBA danno dell’imperante disco-music è decisamente lontana dai modelli americani, ma almeno altrettanto catchy. Al posto delle chitarre funky nel loro embrionale europop si insinuano semplici e brillanti accordi acustici, basso e batteria acquistano una robustezza parecchio distante dai groove della black music, e la stessa melodia rinuncia a ogni connotato soul per darsi a un’orecchiabilità che, al di là dei connotati smaglianti e sbarazzini, sembra affondare le radici dritte nella tradizione folk europea. Pianoforte honky-tonk, sassofono a briglia sciolta e qualche synth di rinforzo completano il quadro del brano che per primo fa conoscere al mondo lo “stile ABBA”.
Mai una nota fuori posto. Questa la “ricetta” fondamentale di tutti i successi planetari a venire, da “Mamma Mia” (1975) a “Super Trouper” (1980). Nella prima si ritrova l’ossatura “pianoforte e chitarra” roboanti del singolo dell’anno prima, ma la costruzione è al tempo stesso più limpida e articolata: da una parte, il piano è rafforzato dal timbro festante dello xilofono, dall’altra i riff chitarristici passano in secondo piano, sostituiti da semplici e impeccabili linee ascendenti e discendenti giocate sul sustain. Pieni e vuoti, orpelli e pennellate d’archi si alternano per tutta la durata del pezzo senza mai rubare la scena l’uno all’altro, e soprattutto al continuo susseguirsi di invenzioni melodiche e cambi di tono che caratterizza il tema vocale.
“Super Trouper”, cinque anni dopo, aggiorna la stessa formula al sound dell’ultima fase della band. Spariti piano e chitarra, il loro stesso schema di gioco è retto dal volteggiare dei sintetizzatori, con una linea saltellante a prendere il posto del tintinnio dei martelletti, e un tappeto timbrico soffuso a fondere quello che era il ruolo di archi e chitarra. Non solo il colore del suono si è però evoluto: nell’architettura è stato ricavato un po’ di spazio per il basso, che si è fatto più dinamico e prominente; la batteria inoltre ha acquisito accenti più smaccatamente disco, capaci di spingere il pezzo su piste sempre più abituate alla dance music.
Ma se un singolo pezzo andasse scelto per simboleggiare tutta l’abilità artigiana del combo Andersson/ Ulvaeus, questo sarebbe “Money, Money, Money” (1976). Qua ci poniamo nell’assoluta classicità pop, su quel filo sottile che lega Cole Porter ai Beatles a Burt Bacharach ai Supertramp. Gli ingredienti sono i consueti: piano e chitarra, melodie pop-rock e piglio ritmico disco. Ma la costruzione del pezzo affonda le radici nella tradizione canzonettistica primo-novecentesca, nell’arte del rallentamento e dell’accelerazione, degli accordi arricchiti, dei passaggi di tonalità. Su questo disegno di altri tempi, con un testo e un’interpretazione vocale che sembrano rimandare ai Ruggenti Anni Venti, si innestano un basso più pulsante che mai, un impeccabile gioco di piatti e, soprattutto, la miglior realizzazione di quello schema ascendente/discendente che è il marchio di fabbrica di tante linee chitarristiche della band. Cinico, essenziale e tagliente, il solco della Gibson di Ulvaeus sembra addirittura trasporre in chiave pop le intuizioni di sua maestà Robert Fripp. Più di ogni altro brano della compilation, “Money, Money, Money” è la bandiera dell’eleganza e dell’asciuttezza di cui sono stati capaci gli ABBA senza rinunciare a versatilità e colori cangianti.
La squadra, i testi, l’immagine
Agnetha Fältskog e Björn Ulvaeus, così come Benny Andersson e Anni-Frid Lyngstad, sono stati una coppia nella vita (almeno fino alla fine degli anni Settanta), ma l’immagine degli ABBA è indissolubilmente legata a un altro allineamento, quello tra i due musicisti uomini da una parte e le due cantanti donne dall’altra. Più di ogni altra pop band, gli ABBA hanno saputo trasmettere il clima di una squadra, fatta di due “punte” e due retrovie fortemente affiatate fra loro.
Ancor più che i video, le copertine, le esibizioni dal vivo schiena contro schiena, le frequenti apparizioni in tv, è stata la musica a rendere gli ABBA sinonimi di quest’unità. “Non siamo popstar egocentriche, ma quattro persone normali con problemi normali, uniti dai due rapporti più intensi di questo mondo: amicizia e amore. La nostra vita è la vostra, siamo come voi”: questo è, in fin dei conti, il messaggio che emerge implicitamente dai loro brani.
Partiamo da “Take A Chance On Me” (1978), l’esempio più palese. Bastano le prime note per capire tutto: le voci di Agnetha e Anni-Frid che si fondono in una e quelli di Björn e Benny che arrivano un istante dopo sui controcanti. Il testo, in un inglese lineare e senza pretese, che tratteggia la storia del tutto ordinaria di un flirt andato a vuoto. Niente malizia, niente spavalderia: solo speranza, leggerezza e delusione. Le sensazioni e i rapporti, come in quasi tutti i pezzi, sono il vero fulcro della vicenda.
Mentre però le parole cantano una storia alla prima singolare, è il “noi” che riecheggia nelle voci dei quattro. Ciò che passa non è la solitudine, ma la forza rasserenante del “siamo tutti sulla stessa barca”, la certezza di poter sempre contare sulle amicizie. Prodigi dei cori e dell’unisono, che trasformano un trito e ritrito fallimento amoroso in “spirito di squadra” che dal quartetto si estende a qualsiasi comunità.
Anche quando affrontano esplicitamente una separazione, gli ABBA riescono nella magia di affermare il loro onnipresente senso di comunione universale. È il caso di “Knowing Me, Knowing You” (1976), in cui il formalmente intimo ritornello “Knowing me, knowing you/ […] There is nothing we can do/ Breaking up is never easy, I know but I have to go” è in realtà l’apice del pezzo in fatto di coralità. Dalla strofa cantata a voce singola, fino al pienissimo della parte citata, l’intera canzone è un continuo crescendo sul fronte della stratificazione di linee vocali, coi passaggi salienti evidenziati da provvidenziali stop-‘n’-go della parte strumentale. Di nuovo una serie di accorgimenti da manuale, semplici, mai sovrabbondanti e perfettamente efficaci; per poi sfociare, a fine ritornello, in un’iconica sezione strumentale nella quale perfino la linea solistica della chitarra è rafforzata da un gioco di sovraincisioni di imprevedibile sobrietà.
Il caso di “Super Trouper” (1980), infine, è particolare. Fatto rarissimo tra le hit della band, la canzone tratta di un tema strettamente “da popstar”: lo stress legato al successo. Ma – c’è da ripeterlo? – ancora una volta il tono è quello ecumenico del “siamo tutti uguali e fratelli”, e l’accento è posto su quegli elementi comuni a chiunque che svettano anche in un contesto così distante dai più. Strofe e ritornello ondeggiano tra la descrizione del mondo e del modo di sentire di chi “spera ogni giorno che questo show sia l’ultimo” e la ricerca di quella persona (amante? amico? parente? nell’assoluto genericità del riferimento sta la carica universalistica dell’immagine evocata) la cui presenza, nascosta fra la folla, dà la forza di andare avanti. Il bridge si sbilancia invece tutto sulle sensazioni quotidiane, celebrando il momento della ricongiunzione come panacea a ogni preoccupazione. Anche il tema più lontano possibile dal “sentire comune” è così ricondotto a dinamiche assolutamente “popolari”.
Non è tutto oro quel che luccica
È un delicatissimo gioco di equilibri, quello su cui si regge la musica degli ABBA. Tra leggerezza e superficialità, tra essenzialità e ornamento, tra buon gusto e kitsch, tra sentimentalismo e zuccherosità, tra universalità e populismo.
Ogni pezzo che si muova in questi territori, anche il più sapientemente costruito, sarà perennemente in bilico, pronto a precipitare nell’oceano della stucchevolezza. Basterà niente a farlo cadere: anche solo la diversa prospettiva da cui ciascun ascoltatore lo guarda può essergli fatale.
Così, anche nella crème della crème del canzoniere degli ABBA, ci sarà inevitabilmente qualche brano che evocherà sensazioni di svenevolezza. I più a rischio, chiaramente, saranno i lenti.
È infatti sulle ballad, i pezzi meno ritmati e più vicini al romanticismo da coppiette, che si gioca la partita più difficile per una band come gli ABBA. Meno libertà di lavorare su incastri e strutture, meno possibilità di bilanciare un tono un po’ affettato con l’estro ritmico di basso e batteria. E l’ovvia necessità di affidarsi, sempre e comunque, alle stesse due cantanti, sebbene il loro registro tenda intrinsecamente a sfociare nel melenso.
In questo contesto, una canzone come “The Winner Takes It All” (1980) dovrebbe già apparire miracolosa. Solo la chitarra acustica a tenere il ritmo, testo in evidenza e un memorabile tema di piano che emerge poco a poco: per tutta la prima strofa, il pezzo si regge su pochissimo. Il procedere dello sviluppo aggiunge elementi (basso e batteria prima, poi archi e cori) ma non altera il clima al tempo stesso epico e raccolto dell’apertura. Nonostante la consueta vocazione “al plurale”, il cantato riesce a restare intimo e sentito, proiettando sull’ascoltatore il senso di commossa rassegnazione espresso dalle parole.
Emerge con questo brano un aspetto nient’affatto secondario della musica degli ABBA: apparentemente frivola e spensierata, cela in realtà un’anima malinconica. Se negli episodi più uptempo essa rimane in secondo piano, immancabilmente questa viene alla luce quando il ritmo si quieta. “S.O.S.” (1975), peraltro in parte offuscata da un pre-chorus folk-pop sul dozzinale andante, mette chiaramente in evidenza il lato più sconsolato della band sia nella strofa languida che nel ritornello più spumeggiante, anche grazie a un intelligente uso “prog” delle tastiere.
La pseudo-cilena “Fernando” (1976), invece, rappresenta al meglio il peggio del disco e dello stile ABBA. Nonostante alcune brillanti intuizioni nella costruzione nella melodia (con versi di metro variabile che ipnotizzano l’ascoltatore) e i diversi accorgimenti strutturali che avrebbero ispirato la monumentale analisi semiologica del musicologo Philip Tagg, la canzone si colloca nel panorama della più fastidiosa paccottiglia pop. Timbri etnici tanto al chilo, flauti di Pan come se piovesse, e l’irrompere repentino di un riprovevole ritornello folkeggiante - con tanto di basso zumpa-zumpa da sagra paesana - riescono a far sembrare un miraggio la classe delle varie “Dancing Queen”, “Does Your Mother Know”, “Gimme! Gimme! Gimme! (A Man After Midnight)”.
Non va meglio con la spagnoleggiante “Chiquitita” (un nome che è un programma in quanto a sdolcinatezza) o la quasi-filastrocca “Thank You For The Music”, ma in fin dei conti è giusto facciano parte di questa raccolta: non si può dire di apprezzare gli ABBA senza essersi confrontati anche col loro lato più lezioso. Anche se, forse, a rappresentarlo sarebbero state preferibili pezzi come “When All Is Said And Done”, “Our Last Summer” o “Angel Eyes”, incluse invece nella successiva compilation “More Gold” - che, a questo punto, siete tenuti ad ascoltare.
12/05/2013