1. Premessa storica
Riuscire a cavalcare l'onda, e restare ben saldi in sella per vent'anni e più, è prerogativa concessa a pochi. Farlo nel campo della musica di consumo, a livello internazionale, presentandosi vivi anno dopo anno con dischi nuovi, senza campar di rendita, è impresa.
Il dono di Madonna consiste proprio in questo: nella sua gestione. Crearsi una carriera sui continui cambi di immagine e suono significa avere intuito e circondarsi delle persone adatte.
Il grande rischio, Madonna, lo prese nel '98 con "Ray of Light". Da allora, rispetto alla formula, rivelatasi più che vincente, i cambiamenti apportati non erano stati molti e i passi, più che in avanti, erano avvenuti a lato.
2. L'elogio del suono
Era il momento di svoltare.
Dal connubio di rock e elettronica che "Ray of Light" contribuì a sdoganare presso il grande pubblico qualche anno or sono, si cambia completamente scenario: alle voci che parlavano inizialmente della lavorazione di un disco rock è seguito invece questo "Confessions on a Dancefloor" (nomen omen).
Non lo si veda come un ritorno al passato, perché, semplicemente, non lo è.
"Confessions" si muove piuttosto su tre direzioni temporali: la dance anni Ottanta, il prima (i loro ispiratori principi, i Kraftwerk) e il dopo (i loro riscopritori principi, i Daft Punk). Il tutto che convoglia assieme, in un suono attuale e puntuale, con il lavoro di Stewart Price in "cabina di regia" praticamente senza una pecca una.
Fare l'elogio della produzione e del suono in un disco di Madonna rasenta l'ovvietà, lo ammettiamo, ma se nonostante ciò ne parliamo, vorrà dire che un motivo ci dovrà pur essere.
E' proprio il suono di "Confessions", infatti, il suo valore aggiunto, citazionista e personale allo stesso tempo, colto (mirare alla testa) e profano (mirare alle gambe) allo stesso tempo.
3. La "penna" di "Confessions on a Dancefloor"
Certo, solo col suono non si va da nessuna parte.
Occorre una scrittura perlomeno di buon livello per permettere al lavoro di fondo di dare i suoi frutti. E quando l'idea buona non è in casa, bisogna saperla pescare.
Nasce così il primo singolo di "Confessions", "Hung Up".
La soluzione, perfetta, è rappresentata da un campione degli ABBA, che regala la verve adatta ai compatti binari elettronici del pezzo, che si snodano a ritmo di treno. Il brano, riuscitissimo, in verità non cattura al primo impatto e necessita dei giusti ascolti, come tutto il disco a dire il vero, scavando col passare del tempo.
Senza soluzioni di continuità (tutto "Confessions" è un unico flusso da ballo) si passa a "Get Together". Una melodia sinuosa si distende su tappeti di synth a lieve distorsione, batteria elettronica andante e tastierine e pulsazioni a infarcire il suono. La bontà melodica ne fa il pezzo di maggiore impatto.
Chi invece si rivela mano a mano è il futuro secondo singolo, la svelta "Sorry", un motivetto pulsante che vanta clangori metallici e vocoder al controcoro. Scelta che non poteva essere più azzeccata, dato che si tratta di uno dei brani più coinvolgenti e ballabili (e anche belli) del disco.
Meriterebbe la stessa evidenza anche "I Love New York", pezzo ad alta attitudine rock, canto declamato e "tosto", tamburi a scandire l'aria, inserti elettronici.
Insomma l'inizio è sfavillante, con la sola "Future Lovers" (il brano più anni 80 del lotto) che fallisce nella sua ricerca di suggestioni.
La "penna", dunque, c'è.
4. Il corpo centrale
Il corpo centrale di "Confessions" invece è un po' più seduto (parliamo di qualità e non di ritmo, sia chiaro).
L'aria, in pratica, è godibile e nessun pezzo è da scartare, ma i picchi della prima parte non vengono raggiunti.
A segnalarsi è soprattutto l'inciso della ballata "Forbidden Love", vocoder e campanellini dal sapore daftpunk e melodia molto madonniana, cantato con grazia e incanto, mentre sotto invece lavora una pulsazione molto computerworld che la collegherà alla movimentata "Jump".
I violini (fluttuanti sullo sfondo e tesi in primo piano) di "How High", i giri di chitarra di "Isaac" (duetto in salsa araba con Yitzhak Sinwani, poco digeribile al primo impatto, si rivela poi) e i synth di entrambe hanno invece il grosso merito di fare un lavoro più sporco, sull'atmosfera, di grande utilità per godersi appieno la vera gemma del disco.
5. Il meglio di…
Trattasi di "Push", brano sensualissimo, capolavoro d'arrangiamento con percussioni arabeggianti, folate di synth e violini, cristalli che si intromettono tra sogno e paura, sorpresa e delizia quando si apre nella carezza, dolcissima, dell'inciso.
Degnissima conclusione è la (quasi altrettanto) bella camminata a tempo di battito di mani di "Like It or Not", basata su un carillon di chitarra un filo desolato, con l'interpretazione di Madonna sentitissima e decisa.
6. Conclusioni
Finisce così "Confessions on a Dancefloor".
La portata del disco sul mondo musicale mainstream si verificherà solo con gli anni.
Dovesse pure andar male (ovvero non divenire un trend come fu "Ray of Light"), la sensazione è che non finirà per essere un disco dimenticato tra tanti all'interno della discografia di Madonna (e che qualcuno tra qualche anno vorrà riascoltarsi proprio quel disco "là", quello "particolare").
"Confessions" invero sembra non porsi neanche come obiettivo primario quello di aprire un trend: più che altro è mosso da urgenza comunicativa e voglia di dire, di essere. Per questo sceglie una forma diversa, soltanto sua (e per questo sostanzialmente non sarebbe cambiato nulla quand'anche fosse stato un disco rock).
E seppure quello che ha da dire non è quanto di meglio al mondo si possa dire, qualche possibilità (qualche, non una sola) se la merita senza alcun dubbio.
06/11/2005