Boo Radleys

Boo Radleys

Outsider britpop

Dagli esordi accomunati alla scena shoegaze al progressivo avvicinamento - più o meno volontario e consapevole - al britpop. Lo strano caso della band di Sice Rowbottom e Martin Carr, che prese il nome da uno dei personaggi-chiave del capolavoro letterario di Harper Lee “Il buio oltre la siepe”

di Giuseppe Rapisarda

Quando si ripercorre la storia del rinascimento del pop britannico avvenuto negli anni 90 vengono in mente, oltre all’immancabile quadrilatero Blur-Oasis-Suede-Pulp, i più svariati nomi, ma spesso ci si dimentica di una band come i Boo Radleys che, attraversando l’intero decennio con una carriera certo discontinua ma notevole, ha conquistato critiche entusiastiche e posizioni di classifica Uk ragguardevoli (con tanto di numero uno delle chart britanniche raggiunto con l’album Wake Up).
La loro parabola ascendente e discendente, a partire dagli esordi accomunati alla scena shoegaze per proseguire con un avvicinamento più o meno volontario e consapevole al britpop, ha raggiunto l’apice alla metà dei 90’s per concludere in leggero e fisiologico declino, ma ogni album della band differisce dal precedente mostrando sempre segni di interesse, a dimostrazione di una creatività e di una versatilità che mancano spesso a gruppi più blasonati, che hanno ripetuto nel tempo la stessa formula (basti pensare agli Oasis). Il loro mutare continuo, se da un lato si è rivelato un valore aggiunto, dall’altro ha impedito una fidelizzazione continuativa degli ascoltatori meno avvezzi alle novità. Così, anche a causa della mancanza di un fisique du role da star (l’aspetto qualunque e la pelata del loro frontman non reggeva il confronto con le facce da schiaffi e le frangette di derivazione sixties dei vari Gallagher, Albarn, Cocker ecc.) sono finiti relegati - almeno al di fuori dei confini britannici - allo stato di band di culto, se non a meri epigoni, quando in realtà meriterebbero una maggiore considerazione.

Il buio oltre la siepe

I Boo Radleys, il cui nome è tratto da uno dei personaggi-chiave del capolavoro letterario di Harper Lee “Il buio oltre la siepe”, letto e apprezzato dai membri del gruppo in gioventù, si formano alla fine degli anni 80 a Wallasey, cittadina anonima poco distante da Liverpool, nel distretto di Wirral e soprattutto nella contea del Merseyside, zona che ha fatto da culla al movimento Merseybeat all’interno del quale mossero i primi passi i Beatles. Il loro nucleo centrale è composto da Sice Rowbottom (cantante e chitarrista) e Martin Carr (chitarrista e compositore), due grandi amici fin dalla prima adolescenza, precoci appassionati di musica anche perché cresciuti in una zona in cui la pop music (in particolare quella dei Fab Four) è praticamente ovunque. A completare la line-up ci sono il bassista Timothy Brown e alla batteria inizialmente Rob Harrison, poi sostituito da Steve Hewitt (futuro Placebo) che verrà a sua volta rimpiazzato dopo il primo album da Rob Cieka, successivamente assunto in pianta stabile.
Acquisito l’assetto definitivo, si tratta ora per i Boo Radleys di decidere quale direzione musicale prendere: a metà anni 80 nel Regno Unito la new wave inizia ad allentare la presa in favore di gruppi più pop e intimisti come gli Smiths, dalla Scozia affiora l’indie-pop più underground, mentre a fine decennio le novità sono rappresentate dal movimento baggy, che mescola la dance al rock e che si afferma nella zona di Manchester, e da quello più introverso, rumoroso e psichedelico dello shoegaze, al quale il gruppo viene da subito accostato.

Nel 1990 la band debutta sulla lunga distanza con l’album Ichabod And I, uscito per l’etichetta indipendente Action,  composto da otto brani per una durata inferiore alla mezz’ora. La critica lo infila nel calderone shoegaze, probabilmente in modo approssimativo, visto che in esso solo a tratti il genere in questione viene evocato (in particolare, nella malinconica “Kaleidoscope”, peraltro uno dei brani migliori), mentre i riferimenti più diretti sono quelli dell’indie-rock a stelle e strisce, a partire dall’uno-due iniziale (“Eleanor Everything” e “Bodheim Jr.) più in linea con gli assalti abrasivi dei Dinosaur Jr. o con il pop-core di certi Husker Du che alle rarefazioni soniche dei My Bloody Valentine. Nella costruzione di alcuni brani che alterna vuoti e pieni, il modello è invece quello dei Pixies, come in  “Sweet Salad Birth”, tra incedere obliquo e sferzate chitarristiche al confine con hard e noise, o nell’elettroacustica “Walking 5th Carnival”, giocata tra malie pop e guizzi elettrici.
Il gruppo all’esordio dà la sua versione del connubio rumore–melodia, ma il problema è che il primo a volte diviene quasi eccessivo (in “Hip Clown Rag” il motivetto surf della strofa è subissato da un frastuono talmente infernale da superare i Jesus and Mary Chain), mentre la seconda è memorabile solo in rari casi. Oltre che gravato da una qualità altalenante e non troppo elevata di scrittura, nonché indebolito da un’autoproduzione inesperta, poco curata e  fautrice di un sound fin troppo grezzo, Ichabod And I paga il confronto con capolavori contemporanei come “Nowhere” o dell’anno successivo come “Loveless” e “Just For A Day” che, al di là delle differenze stilistiche, sono di un’altra categoria, tanto che la stessa band finirà per prenderne le distanze e rinnegarlo. Tuttavia questo debutto rimane un discreto punto di partenza su cui lavorare e si fa notare dall’etichetta Rough Trade, per la quale usciranno i tre Ep successivi.

La trilogia in Ep

Il passaggio alla storica label segna un nuovo corso sonoro, anche grazie a una produzione finalmente passata in mani più sapienti che porta maggiore equilibrio, attenzione ai dettagli e un più marcato avvicinamento al genere shoegaze, emerso in questo periodo. Fin dal primo Ep Kaleidoscope (1990), registrato con Rudi Tambala degli A.R. Kane, la musica dei Boo Radleys comincia a mutare grazie a un suono più posato, strutture dilatate e atmosfere sospese. A fianco del brano eponimo, già presente nell’esordio, spiccano pezzi elettrici ma visionari come “How I Feel”, in cui l’atmosfera sognante viene bruscamente interrotta da sporadiche fucilate chitarristiche degne degli Smashing Pumpkins, mentre “Aldous” è un incanto mesmerico tra effettistica delle chitarre e la reiterazione di un’unica frase fino a farsi mantra dream-pop; infine “Swansong” fluttua tra brume oscure in un personale esempio di neopsichedelia britannica.
Se con Kaleidoscope i Boo Radleys iniziano davvero a “fissarsi le scarpe” avvicinandosi in parte al modello My Bloody Valentine, con il successivo Every Heaven, prodotto da Alan Moulder come l’Ep seguente, fanno un ulteriore passo avanti grazie alla chitarra riverberata di “Tortoiseshell”, che dona al brano un fascino arcano poco lontano da quello evocato dalla più celebre “Kashmir” dei Led Zeppelin o dal Morrissey più esotico, ma soprattutto con “The Finest Kiss”, in cui il giro di basso new wave viene sommerso da un sottile strato liquido di feedback solcato da una spuma dreamy sprigionata da una melodia vocale dolcissima e malinconica, una preziosa alchimia perfetta che anticipa gli Slowdive più potabili di ”Souvlaki” o gruppi più vicini ai nostri tempi come i Radio Dept.
Chiudono i giochi la muscolare “Bluebird”, retaggio di un passato più burrascoso, e l’onirica seppur vibrante “Naomi”, a dimostrazione di un’eterogeneità che ritorna anche nell’Ep successivo Boo Up, in cui prevalgono soluzioni elettroacustiche a partire dall’opener “Everybird”, dalla partenza lenta con la spina staccata per poi esplodere in fiammate elettriche in un’alternanza continua, mentre in “Foster’s Van” i nostri si fanno traghettatori del verbo psichedelico dai lisergici Sixties ai narcolettici anni 90 e infine con “Song For Up” finiscono per sparare una pallottola power-pop-punk adrenalinico (stile per loro anomalo che tornerà a fine carriera) seguita da un’inedita coda post-rock. I tre Ep saranno riuniti nella raccolta Learning To Walk, testimonianza di una band in evoluzione e arricchita da un paio di chicche per i fan tratte dalla Peel Sessions risalenti al 1991, come la cover elettrificata di “Alone Again Or” dei Love (brano amato trasversalmente da musicisti di diversa estrazione tanto che i Calexico la ripropongono spesso in sede live), purtroppo ben lontana dalle vette dell’originale, e una versione personalizzata di “True Faith” dei New Order ribattezzata “Boo Faith” che perde il battito sintetico per farsi indie-rock più moderno.

Learning To Walk esce nel 1993, ma nel frattempo la band non sta con le mani in mano e inizia anche ad avere maggiore visibilità: l’anno precedente dà alle stampe Everything’s Alright Forever, il secondo album di inediti, uscito per la Creation Record di Alan McGee, noto talent-scout che non si lascia scappare una delle nuove promesse del pop inglese. Si tratta di un lavoro di transizione tra lo shoegaze degli Ep precedenti e il pop della loro produzione successiva, con l’edulcorazione del modello MBV, tra distorsioni e chitarre effettate a sostegno di melodie sognanti ma sempre orecchiabili, anche quando il ritornello è affidato alle sei corde (“Towards The Light”) o cammini sul filo del rasoio di un feedback assassino stile Jesus and Mary Chain (“Memory Babe”).
Sul versante ancora più pop spicca “Does It Hurts?”, composizione circolare tutta giocata sulla reiterazione di una melodia perfetta che si ripete per quattro minuti ma potrebbe durare all’infinito, mentre l’opener “Spaniard” anticipa la mestizia arty dei Radiohead di “The Bends”, seppur arricchita da chitarre e trombe spagnoleggianti come da titolo. Per arricchire il quadro, il verbo psych è declinato con cavalcate visionarie più dilatate in minutaggio, come “Skyscraper” e “Firesky”, nonché nelle pennellate acustiche di “Sparrow” e “Song For The Morning To Sing”.
Il gruppo si destreggia tra registri stilistici diversi facendo spesso centro, e perdendo la bussola solamente nei solchi più sperimentali dell’astratta “Room At The Top”, abulica e priva di direzione, e nell’evanescente parte centrale di “Paradise”, ma si tratta di dettagli che non inficiano un disco che dimostra le capacità della band e che fa da preludio per un futuro sempre più radioso.

A Passi da Gigante verso il successo

A un anno di distanza dall’uscita di Everything’s Alright Forever, scocca la data cruciale per la musica inglese e per gli stessi Boo Radleys: è il 1993 quando l’esordio dei Suede (oltre che, in misura decisamente minore, quello dei meno celebri Auteurs) funge da big bang per la nascita dell’universo britpop, mentre i nostri danno alle stampe il loro album ritenuto universalmente, e a ragione, il migliore della loro discografia, ovvero Giant Steps. Tra i singoli apripista, posta in apertura del disco, spicca “I Hang Suspended”, canzone che, dotata di armonie maliziose e illuminata da luccichii chitarristici neo-glam, potrebbe far pensare a degli epigoni del gruppo di Brett Anderson (come del resto l’analoga “If You Want It, Take It”), ma si tratta solo di una delle innumerevoli facce di un ricco prisma stilistico, costruito con perizia, a riprova della poliedricità di una band in stato di grazia.
Raggiunta definitivamente una maturità artistica oltre che una solidità di scrittura, i Boo Radleys ora guardano all’inesauribile tradizione pop dei Sixties riaggiornandola ai loro tempi e anticipando sviluppi futuri: se la perfezione jangle-pop di “Wish I Was Skinny” anticipa le delizie elargite successivamente da Belle And Sebastian e gruppi analoghi, “Leaves and Sand” sembrerebbe progenitrice di “Yellow” dei Coldplay, molto simile per l’utilizzo della dinamica piano-forte, timbro chitarristico ed esplosioni elettriche in un contesto malinconico. Ma al di là di questi congegni pop lineari e rotondi, a cui si aggiungono l’autoscontro tra electro e indie-rock evidenziato dal synth fluorescente di “Rodney King (Song for Lenny Bruce)” e la smithsiana “Barney (...And Me)”, che conferiscono ai nostri il titolo di veri e propri autori di spessore nell’ambito della canzone pop canonica, a sorprendere l’ascoltatore, allora come oggi, sono quei brani mutaforma che contengono elementi e stili disparati giustapposti in costruzioni barocche, figlie di una sperimentazione non più legata solamente agli effetti delle chitarre ma alla composizione di strutture complesse e dotate anche di arrangiamenti orchestrali stratificati e curiosi: “Upon 9th And Fairchild” parte in levare con bassi dub per trasformarsi gradualmente in una fuga di art-rock sferragliante degna dei Radiohead più elettrici; il folk-pop iniziale di “Butterfly McQueen” acquista ritmo per essere squarciato da barriti di tromba e ripartire in uptempo acustico; “Lazarus” giustappone a un reggae inacidito da synth lisergici un crescendo di trombe epiche a mo’ di ritornello e una delicata strofa con coretti pop a legare il tutto; infine, in “I've Lost The Reason” svenevolezze bacharachiane (vocalizzi melliflui e atmosfere da soundtrack soft) vengono spazzate via da chitarre elettriche e risucchiate in un gorgo acido di voci distorte. Questi accostamenti desueti all’interno dello stesso brano stupiscono inizialmente, ma soprattutto funzionano nell’ambito del pop più creativo e stimolante, mentre il lato più soft emerge nell’idillio arcadico “Thinking Of Way”, acquerello delicato, impreziosito da un flauto pastorale, e nella breve “One Is For”, purezza cristallina radicata nel folk primigenio. L’anima indie-gaze ritorna solo negli scatti e spasmi elettrici di “Take The Time Around”, mosca bianca in un album che si chiude significativamente con la filastrocca twee “The White Noise Revisited”, in cui il ritornello “Ehi what's that noise? Do you remember?” ripetuto a mo’ di mantra singalong sembra una presa di distanze dagli esordi rumorosi della band.
Giunti alla fine di un disco privo di cedimenti, ricco di perle melodiche, potenziali singoli e mini-suite di fantasia barocca dal fascino indubbio, verrebbe da affiancare Giant Steps (titolo preso in prestito dal capolavoro di John Coltrane) con le dovute proporzioni a opere pop degli anni 60 del calibro di “Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band” ,“The Who Sell Out” e “Odgens’ Nut Gone Flake” (Small Faces), pur in assenza di concept e organicità tematica, ma per ispirazione, genio creativo, ambizioni artistiche e risultato finale. Non sono molti i gruppi che sono riusciti a eguagliare la grandezza dei classici senza eccessiva aderenza ai modelli e rimanendo ai margini del grande pubblico, almeno fuori dai propri confini (vengono in mente, ad esempio, i purtroppo dimenticati Olivia Tremor Control), e i Boo Radleys riescono nell’impresa con un disco all’epoca esaltato dalla critica, tanto da finire in vetta alle classifiche di fine anno su riviste come Select e Melody Maker, mentre su New Musical Express si piazza al secondo posto dopo “Debut” di Bjork, ma al primo della classifica dei lettori. In tempi più recenti Sic Magazine parla addirittura di migliore band del pianeta (dell’epoca), mentre Pitchfork nello stilare la (discutibile) classifica dei migliori album britpop concede un ingeneroso 25esimo posto e un altro ancor meno comprensibile venticinquesimo nella lista dei dischi shoegaze, genere appena sfiorato su Giant Steps. Il roboante successo di critica non è accompagnato da uno altrettanto grande di vendite (che comunque salgono), ma per i Boo Radleys è solo questione di tempo, per essere precisi appena due anni.

Il biennio successivo vede l’esplosione del fenomeno britpop, nel ’94 con l’esordio degli Oasis e l’uscita di “Parklife” dei Blur, due dei massimi manifesti della Cool Britannia, oltre che l’emersione di una miriade di band più o meno legittimamente pompate dalla stampa, e l’anno successivo il movimento assume connotati mediatici tali da diventare fenomeno di costume che va oltre il mero aspetto musicale.
È proprio nel 1995 che i Boo Radleys danno alle stampe il loro quarto album, Wake Up, anticipato dal singolo “Wake Up Boo!”, che si contende il titolo di inno pop dell’anno con “Alright” dei Supergrass oltre che con i brani di punta delle band più in vista. Scritto dopo  una notte in acido mentre il gruppo guardava “The Big Breakfast”, un programma televisivo britannico d’intrattenimento, e introdotto da cori polifonici di matrice Beach Boys, “Wake Up Boo” è un uptempo spumeggiante, propulso da fiati squillanti (provenienti dalla band di Tom Jones), un tripudio melodico sixities pop dal ritornello irresistibile e ottimista, ma che nasconde nelle pieghe delle liriche un lato più oscuro in contrasto con l’atmosfera gioiosa della musica (la frase incriminata è “You put the death in everything”). Il singolo è il più trasmesso dalle radio britanniche del 1995, raggiunge la nona posizione della classifica Uk e soprattutto trascina l’album alla vetta delle chart, per quello che sarà il massimo successo di vendite  mai eguagliato dalla band.
Sulla falsariga di “Wake Up Boo!” si muove l’altro singolo “Find The Answer Within”, un’altra fanfara retrò sull’asse BeatlesKinks, altrettanto gioiosa e luminosa. Queste tracce fungono da apripista per quello che sarà il loro disco più pop, solare e beatlesiano, come dimostrano il power–pop ritmato e irresistibile di “It’s Lulu” e quello di marca Teenage Fanclub di “Twinside”, oltre che, sul versante più soft, “Fairfax Scene”, che getta un ponte tra l’eredità dei Fab Four e il folk gentile dei Belle & Sebastian, mentre l’ironica “Charles Bukowski Is Dead”, con quell’andatura scanzonata se non infantile, sembrerebbe quasi una sigla di un cartoon.
Solo in rari casi si ricercano la sperimentazione compositiva e gli accostamenti arditi di Giant Steps: ad esempio, in “Joel” le armonie dolci e allucinate di Sice scompaiono sotto i colpi di bordate funkeggianti di matrice Madchester e “Martin, Doom! It's Seven O'Clock” presenta diversi cambi di tempo, pur rimanendo nell’alveo indie-pop. In definitiva, manca il genio collagista del lavoro precedente. A fare da contraltare ai brani più allegri sono le ballate, almeno in parte la nota dolente di un disco che porta le stesse ambiguità emotive del singolo trainante, non tanto “Reaching Out From Here”, che sfodera un ritornello brit quasi come un guanto di sfida lanciato agli Oasis, o una “Stuck On Amber” che tuttavia annacqua il periodo Rough Trade senza lambire le vette raggiunte in passato, piuttosto la drammatica “4AM Conversation” probabilmente fuori contesto e parzialmente la conclusiva “Wilder”, con un piano e una melodia melodrammatica rubati a Elton John, seppur impreziosita da armonie vocali (ancora una volta) beatlesiane, canzoni in cui per la prima volta i Boo Radleys sembrano prendersi sul serio pur senza mai scadere nella banalità,  mantenendo un certo gusto e magari infrangendo il cuore di parecchi ascoltatori.
Se per qualità il confronto con Giant Steps depone a favore di quest’ultimo, Wake Up rimarrà per molti fan l’album più amato, grazie a un’immediatezza e a una perfezione formale che lo rendono punto di arrivo di un percorso di avvicinamento graduale al pop più puro ottenendo un grande riscontro non solo di pubblico.

Trasformismo come fede

Giunti a un tale risultato, parecchi gruppi si adagerebbero sugli allori, replicando la stessa formula vincente, ma non è il caso dei Boo Radleys che proseguono sulla via del trasformismo con C’Mon Kids (1996), uno dei loro lavori più controversi, da una parte è accolto con entusiasmo anche da colleghi tra cui Tom White degli Electric Soft Parade (per il quale è addirittura il disco preferito di sempre) e i Radiohead, che lo ascoltano durante le session di “Ok Computer”, dall’altra la critica è tiepida quando non polemica, finendo per accusare la band di voler spaventare gli ascoltatori seguendo una via anti-commerciale rispetto all’album precedente, anche se Sice successivamente replicherà rivendicando la semplice volontà (e libertà) di esprimersi in maniera differente, senza voler necessariamente sconcertare.
L’ennesimo cambio di stile segue due direttrici: la prima e più evidente nella parte iniziale consiste nel recupero di un approccio muscolare e rock, che si esplica nella potenza elettrica della maggior parte dei brani, a partire dall’iniziale title track, nei riff massicci che entrano a gamba tesa anche nei contesti più pop (“Meltin's Worm”, “Melodies For The Deaf”, “Get On The Bus”) e infine raggiunge lo zenit nel singolo “What's In The Box (See Whatcha Got)”, uno scalmanato hard-beat power pop degno degli Who, ma galvanizzato da scariche elettriche di matrice pop-punk à-la Buzzcocks nel ritornello ipercinetico; la seconda in cui si cerca di rievocare i fasti compositivi di Giant Steps, in modo più riuscito nell’eclettismo da capogiro di “Four Saints”, frullato di shoegaze, indie-rock, elettronica, psichedelia, folk e chissà cos’altro, ma fallendo nell’electro hip-hop di “Fortunate Sons”, che sembra figlia di un Beck minore. In questo marasma elettrico e stilistico spiccano questa volta le splendide ballate elettroacustiche “Everything Is Sorrow” e “Ride The Tiger”, impreziosite da curati arrangiamenti di archi, che non avrebbero sfigurato in (capo)lavori britpop come “What’s The Story, Morning Glory” e “Urban Hymns”.
Pur non raggiungendo le vette di Giant Steps o l’immediatezza di Wake Up, e al netto di qualche caduta di stile, C’Mon Kids rimane un lavoro discreto, che necessita diversi ascolti per lasciar scoprire dietro la scorza elettrica costruzioni armoniche ancora interessanti e una capacità compositiva rimasta ancora su buoni livelli.

Più discontinuo e discutibile è il successivo Kingsize del 1998, ultimo disco della band e il suo più tribolato, tanto nelle premesse, con il gruppo lacerato da dissidi interni, quanto nel risultato finale altalenante, con una conseguente accoglienza tiepida. La partenza promettente dei primi brani, arricchiti da arrangiamenti eleganti con gli archi classicheggianti di “Blue Room In Archway”, i fiati jazzati di “The Old Newstand At Hamilton Square”, nonché il flauto quasi prog di “Monuments For A Dead Century”, viene definitivamente affossata dall’inutilmente scalmanata e perfino volgare “Free Huey”,un brano dance-rock che ci aspetterebbe più da un Robbie Williams in cerca di consensi ma privo di ispirazione che da chi fino a qualche tempo prima si sporcava le mani con shoegaze e psichedelia; una caduta di stile che non può passare inosservata, visto che il brano viene scelto come singolo, a dimostrazione che i Boo Radleys hanno puntato su quello che probabilmente è il punto più basso della loro produzione.
Il gruppo recupera quando riprende la strada del britpop classico con “Heaven's At The Bottom Of This Glass” e “High As Monkeys” che declinano il verbo degli Oasis (melodie catchy di stampo British) con il piglio sbarazzino dei Blur e soprattutto con “Comb Your Hair”, ultima perla melodica à-la Suede, mentre perde di nuovo terreno quando si aggiorna alla seconda ondata del pop inglese dei 90 con le varie “Kingsize”, “Eurostar”, “Adieu Clo Clo”, composizioni dolciastre e mediocri, segno dei tempi in cui in Uk spadroneggiano gruppi non proprio imprescindibili come gli Stereophonics.
Nel finale il gruppo funkeggia inutilmente per sette minuti su un brano intitolato “The Future Is Now”, prestando il fianco a facili ironie: qualcuno avrà pensato “se il futuro è questo, meglio rifugiarsi nel passato…”, ma il destino sarà ancor più beffardo tanto che la band non avrà proprio alcun futuro, a causa di uno scioglimento repentino che lascia definitivamente orfani i fan.

L’epilogo

Se la storia del gruppo si ferma in modo immediato e definitivo, bisogna ricordare come i suoi membri principali, Sice e Martin Carr, abbiano cercato di continuare con la musica, seppur con esiti differenti: il primo con il suo unico disco “First Fruit”, uscito sotto il moniker Eggman nel ’96, in cui viene annacquata la soluzione dei Boo Radleys più pop; mentre il secondo, a nome Brave Captain, pubblica una manciata tra album, Ep e singoli dal 2000 ai giorni nostri, in cui la base sixties psych-pop viene leggermente sporcata da tratti lo-fi ed elettronici, con esiti a tratti interessanti. Entrambi questi progetti sono rimasti nell’ombra, seguiti da pochi fan e accusati dalla critica di produrre B-side dei Boo Radleys, anche se sicuramente Martin Carr supera il collega per quantità e qualità, ricordando chi fosse principale compositore del gruppo e creando uno iato tra i due ben più consistente tra quello che si sarebbe verificato in seguito tra i fratelli Gallagher in versione solista.

Nel nuovo millennio, a ricordare i fasti dei Boo Radleys degli anni d’oro sono, oltre che qualsivolglia rievocazione del britpop che si rispetti, ben due raccolte uscite a soli due anni di distanza: Find The Way Out (2005) e The Best Of Boo Radleys (2007). Per gli interessati non c’è confronto tra la prima , doppia (ben 35 tracce), che riesce a rappresentare le varie fasi stilistiche del gruppo, e la seconda, più esigua, meno rappresentativa e con qualche scelta discutibile.

Quindi, a sorpresa, nel 2023, adistanza di trent’anni, la band britannica ritorna in pista prendendo a modello proprio la sua opera maggiore con Eight, in cui vengono ricombinati gli stessi elementi utilizzati in passato: l’uso massiccio dei fiati all’interno della forma canzone pop, a rimbalzare ora su riff granitici di chitarra elettrica (“Seeker”), ora sugli amati ritmi in levare (“The Unconscious”, timida ed edulcorata versione dei Teardrop Explodes) arricchendo le varie tracce di arrangiamenti rigogliosi (“Skeleton Woman” tra le altre), dando così vita a composizioni lambiccate e piacevoli ma che non reggono il paragone con quelle dei bei tempi. Non solo per lo scorrere inesorabile del tempo e la fisiologica riduzione dell’urgenza creativa, ma anche per la perdita di un elemento fondamentale come il chitarrista Martin Carr, evidentemente decisivo in ambito compositivo, in particolare nei brani più complessi.
Nonostante l’importante defezione, Sice e compagni dimostrano di non aver perso il talento melodico iniettato nel ritornello malinconico di “Hollow”, con spolverate glitter di marca Suede, e nel crescendo epico-lirico degno dei Manic Street Preachers che innerva l’altrimenti magniloquente “Way I Am”.
Altrove la band riesce persino dove i fratelli Gallagher in versione solista spesso hanno steccato, tanto nella ballad di chiara ispirazione beatlesiana “Sometimes I Sleep”, impreziosita da archi sublimi e cori angelici, quanto nell’evoluzione più ruvida e nostalgica di “Dust”, come a rivendicare una centralità nell’universo brit, ricercata anche tramite l’aggancio all’espediente utilizzato nel loro singolo di maggiore successo “Wake Up Boo!”, ovvero lo stridente contrasto tra liriche ombrose (in questo caso rabbiosamente rivolte contro ogni forma di violenza in particolare di tipo bellico) e la gaiezza sonora di matrice merseybeat di “Now That’s What I Call Oscene”, pur senza cavarne un nuovo instant-classic.
A dimostrazione di una maggiore propensione ai brani più diretti e con meno suoni affastellati, è il fatto che a svettare sia l’esplosiva “I Was I To Know, il brano più power-pop del lotto come avvenne in passato (con “What’s On The Box”) in “C'mon Kids”: è probabilmente questo l’album più vicino a “Eight” per lunghezza forse eccessiva, ispirazione altalenante ma con buone frecce al proprio arco e complessivamente di discreta godibilità: i buongustai del britpop apprezzeranno, ma senza gridare al miracolo, probabilmente.

A fare giustizia alla band che, pur non avendo cambiato la storia della pop music, l’ha segnata nel bene e nel male, rimangono comunque gli album degli anni 90, con almeno due picchi (Giant Steps quello più artistico e creativo, Wake Up quello più fruibile e commerciale): saranno sufficienti a scucirle di dosso l’ingenerosa se non fastidiosa etichetta di oustsider britpop?

Boo Radleys

Discografia

Ichabod And I (1990)

6

Everything’s Alright Forever (1992)

7

Learning To Walk (1993)

7

Giant Steps (1993)

8

Wake Up (1995)

7,5

C’Mon Kids (1996)
7
Kingsize (1998)

5,5

Find The Way Out (antologia, 2005)
The Best Of Boo Radleys (antologia, 2007)
Eight (Boostr, 2023)

6,5

Pietra miliare
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