Ci sono dischi che trascendono non solo il loro stesso genere di appartenenza, ma la concezione stessa di musica "rock" o "pop" o comunque la si voglia chiamare, pur appartenendovi in tutto e per tutto: "Just For A Day" degli Slowdive è uno di questi. Nel 1991 Neil Halstead (voce e chitarra, autore di tutti brani) e Rachel Goswell (voce e chitarra), leader e fondatori degli Slowdive appena due anni prima, avevano rispettivamente 21 e 20 anni. Tra il '90 e il '91 pubblicarono tre sensazionali Ep che fecero gridare al miracolo per le loro canzoni all'insegna di un rock sognante e rallentato, quasi in trance, per un sound che sposava alla perfezione l'incanto dei Cocteau Twins e i densi intrecci chitarristici degli shoegazer.
Le premesse al debut-album erano dunque già chiare: da loro ci si aspettava un capolavoro, ma "Just For A Day" andò anche oltre le più rosee-aspettative, rivelandosi un imponente affresco che sposava la perfezione melodica della pop-song inglese a sonorità che avevano tratti in comune più con la pittura di artisti come Friedrich e Turner (quest'ultimo esplicitamente citato nel video del singolo "Shine", dell'anno successivo), che non con le sue ispirazioni musicali più ovvie: dreampop e shoegazer, appunto.
Si pensi ai paesaggi dipinti da quegli artisti: panorami immensi e incontaminati, avvolti però da una nebbia di colori sfumati e lattiginosi, che avvolgeva tanta bellezza in una sconfinata malinconia e in una tetra inquietudine. La musica degli Slowdive agisce allo stesso modo: le parole sussurrate dalle armoniose voci di Halstead e Goswell, cariche di "spleen", di uno struggimento totale, di un senso quasi tangibile di rimpianto e perdizione universale, le splendide melodie e i ritornelli onirici erano la quintessenza della "bellezza" che si può trovare in una canzone, erano "dreampop" nel senso che era il pop che si era sempre sognato di ascoltare. Tutto questo era però quasi nulla di fronte all'oceano di droni che di volta in volta si levavano dalla soffice struttura melodica della canzone e avvolgevano tutto in un vortice ipnotico che di punto in bianco toglieva qualsiasi senso alla definizione stessa di "melodia", allo svolgimento della canzone, che infatti, benché rigorosamente ancorata allo schema strofa-ritornello, era pressoché immobile, contemplativa, rallentata fino alla stasi.
Sublime esempio della loro estetica è la straordinaria "Catch The Breeze", costruita su un tempo irregolare, su chitarre tintinnanti e una melodia triste, sconsolata, di immediata presa emotiva, con un ritornello che è davvero vicino alla poesia romantica ("and I, I want the world to cry/ and I, I want the sun to shine"), finché come dal nulla si leva un vento "cosmico", culminante in una coda strumentale che non ha più nulla di musicale, ma che è pura astrazione, puro rapimento emozionale, con i feedback delle tre chitarre (la terza era quella di Christian Savill) talmente effettati, intrecciati e spinti all'estremo da non ricordare più nemmeno lontanamente il suono di chitarra, somigliando più a una sinfonia di tastiere ambientali. Lo scampanellio costante delle chitarre e la pulsazione tetra del basso evidenziano i loro debiti musicali verso gli esercizi liberi e le filastrocche fatate dei Cocteau Twins, ma negli Slowdive tutto questo è convertito allo scopo di raggiungere la massima profondità emotiva possibile, ora facendosi sopraffare dalla tristezza come nella cupissima "Ballad Of Sister Sue", semplicemente una delle canzoni più tragiche e abbattute che si siano mai sentite ("the man said the drink in his hand was all he required/ and it seems much the same when he pointed a gun to his head/ filled it with lead"… "sister, I've lost all the feeling/ I'm lost and I'm sold, I lay down beside you").
Altrove invece a prendere il sopravvento è la bellezza ariosa della melodia, una bellezza ingenua e spontanea, come in quella piccola, fragile meraviglia che è "Celia's Dream", ("she flies/ she's gone to ride an angel's breath/ gone to taste a dream"), e nell'omaggio dichiarato ai maestri Cocteau Twins di "Brighter", anch'essa però carica di una sotterranea e incalzante tristezza, che emerge nel ritornello declamato mestamente da Halstead.
Il gruppo è altrettanto abile nell'evitare le trappole della ripetitività, e in certi brani mostra ambizioni che vanno ben al di là della semplice "canzone". Una su tutte è l'eccezionale, possente orchestrazione di "Spanish Air", lunga cavalcata vicina al progressive più cerebrale, con quel suo ritornello medievale e un arrangiamento affollato e complesso; eppure tutto procede spedito, fluido, naturale, perché tutti gli strumenti, come già detto, avanzano all'unisono, incastrati l'uno all'altro, e le voci con loro. Non c'è posto nella loro musica per assoli, controtempi e virtuosismi: anche nei momenti più alti e ambiziosi, l'esibizionismo è qualcosa che non può appartenere a una musica spontanea e "impressionista" come la loro, è qualcosa che la loro timida, umile attitudine "shoegazer" rifiuta a priori: prova ne sia l'esperimento ambient di "Erik's Song", che rinuncia alle parole e al ritmo, avvicinandosi alle magie di Brian Eno (che non a caso fu entusiasmato dal gruppo - "questi ragazzi sono geniali", ebbe a dire all'epoca - tanto da offrirsi lui stesso come collaboratore nel secondo album "Souvlaki"), ma con un tale pudore, una tale delicatezza che ogni singola nota fa piangere di gioia.
Arriva a questo punto l'apoteosi di "Waves", un solenne inno all'oblio, un canto di morte e rassegnazione che per contrasto è mascherato con la partitura più solare e armoniosa di tutto il disco: ma il testo, forse il più bello in assoluto, parla chiaro: "Don't you know I've left and gone away/ you're knocking on the door I closed today/ and everything looks brighter/ the waves they just soothe my pain away". Ancora una volta torna il vero filo conduttore del disco: questo desiderio di perdersi nell'oblio, di lasciarsi alle spalle ricordi dolorosi perché raccontano di una felicità irrimediabilmente perduta; e allora ecco che i testi e le musiche evocano di continuo paesaggi immaginari, paesaggi da sogno che più concretamente nascondono una infinita depressione, un malessere profondo e totale.
Quello che rende unici gli Slowdive è che tutto questo emerge non solo dalle liriche ma anche e soprattutto dai suoni, prova ne sia lo stupefacente quadretto astratto di "The Sadman", melodia sussurrata e spettrale, recitata quasi a monosillabi, costruita su una musica fatta di ticchettii e pulsazioni sparse che d'improvviso si innalzano e si fondono per pochi attimi in un uragano di suoni "cosmici", quanto basta però per sommergere come un mare in tempesta il ritornello sospirato dalla Goswell, tornare a una calma apparente e far riesplodere di nuovo il caos, ancora più violentemente di prima. Arriviamo così alla chiusura, affidata a "Primal", canzone di devastante bellezza, che chiude come in un cerchio perfetto l'opera sulle stesse sonorità maestose e incalzanti dell'opening-track, ma tutto qui è davvero immerso in una trance mistica, almeno finché nel ritornello non si lascia finalmente spazio a un crescendo epico che sfocia in un'altra allucinata coda strumentale, la più violenta e assordante, un urlo disperato affidato ancora una volta ai suoni, non alle parole, un'eruzione liberatoria che racchiude e condensa tutte le emozioni che si sono altalenate nel corso del disco. Questa non è più solo musica: qui siamo davvero su una delle scogliere di Friedrich, a contemplare il mare e l'orizzonte, immersi in una solitudine angosciante e bellissima, avvolti da nebbie spettrali e colori impastati e indefiniti ("today I watch the colours fade", è la frase con cui si apre "Primal"): in un contesto simile, fatto di pura suggestione, non ha più senso parlare di influenze e generi musicali.
Dall'alto di un talento melodico fuori dal comune, gli Slowdive superano nettamente qualunque altro gruppo "shoegazer", con la loro capacità di emozionare profondamente con poche, semplici parole e con un suono portato talmente all'estremo da perdere qualunque identità. Pochi gruppi come gli Slowdive sono stati capaci di unire la forma e la sostanza con tanta perfezione e naturalezza, di centrare - per di più al primo colpo, e ad appena vent'anni - un disco irripetibile e indimenticabile come "Just For A Day".
09/11/2006