Relegati ingiustamente fra le seconde linee del movimento britpop, i Boo Radleys attorno alla metà degli anni 90 erano ben più che semplici comprimari, tanto da sfiorare la vetta delle chart Uk con l’album “Wake Up” e in precedenza segnare la storia del pop britannico con un capolavoro non abbastanza celebrato come “Giant Steps”, datato 1993.
A distanza di trent’anni, la band britannica ritorna in pista prendendo a modello proprio la sua opera maggiore con questo “Eight”, in cui vengono ricombinati gli stessi elementi utilizzati in passato: l’uso massiccio dei fiati all’interno della forma canzone pop, a rimbalzare ora su riff granitici di chitarra elettrica (“Seeker”), ora sugli amati ritmi in levare (“The Unconscious”, timida ed edulcorata versione dei Teardrop Explodes) arricchendo le varie tracce di arrangiamenti rigogliosi (“Skeleton Woman” tra le altre), dando così vita a composizioni lambiccate e piacevoli ma che non reggono il paragone con quelle dei bei tempi. Non solo per lo scorrere inesorabile del tempo e la fisiologica riduzione dell’urgenza creativa, ma anche per la perdita di un elemento fondamentale come il chitarrista Martin Carr, evidentemente decisivo in ambito compositivo, in particolare nei brani più complessi.
Nonostante l’importante defezione, Sice e compagni dimostrano di non aver perso il talento melodico iniettato nel ritornello malinconico di “Hollow”, con spolverate glitter di marca Suede, e nel crescendo epico-lirico degno dei Manic Street Preachers che innerva l’altrimenti magniloquente “Way I Am”.
Altrove la band riesce persino dove i fratelli Gallagher in versione solista spesso hanno steccato, tanto nella ballad di chiara ispirazione beatlesiana “Sometimes I Sleep”, impreziosita da archi sublimi e cori angelici, quanto nell’evoluzione più ruvida e nostalgica di “Dust”, come a rivendicare una centralità nell’universo brit, ricercata anche tramite l’aggancio all’espediente utilizzato nel loro singolo di maggiore successo “Wake Up Boo!”, ovvero lo stridente contrasto tra liriche ombrose (in questo caso rabbiosamente rivolte contro ogni forma di violenza in particolare di tipo bellico) e la gaiezza sonora di matrice merseybeat di “Now That’s What I Call Oscene”, pur senza cavarne un nuovo instant-classic.
A dimostrazione di una maggiore propensione ai brani più diretti e con meno suoni affastellati, è il fatto che a svettare sia l’esplosiva “I Was I To Know, il brano più power-pop del lotto come avvenne in passato (con “What’s On The Box”) in “C'mon Kids”: è probabilmente questo l’album più vicino a “Eight” per lunghezza forse eccessiva, ispirazione altalenante ma con buone frecce al proprio arco e complessivamente di discreta godibilità: i buongustai del britpop apprezzeranno, ma senza gridare al miracolo, probabilmente.
22/01/2024