Chi si ricorda cosa voleva dire essere adolescenti e britpoppari nel Duemila si ricorderà il senso di spaesamento: Blur e Oasis che nascondono la crisi di mezz'età dietro un pallido sperimentalismo, i Radiohead che ancora più apertamente disconoscono "OK Computer" iniziando con "Kid A" il loro periodo sperimentale. Nell'aprile del '99, i Verve si sciolgono.
In realtà un piccolo segnale della prossima evoluzione del genere e del pop inglese in generale c'era già stata con "The Man Who" dei Travis e quella barca sul canale inglese con un ragazzo dalla faccia pulita e dalla cresta appena accennata, che intonava sotto la pioggia: "Why Does It Always Rain On Me?".
Sembrava un po' il britpop, nel bene e nel male, passato attraverso una clinica di riabilitazione, ripiegato su sé stesso nei toni e nei temi, oppresso dallo spettro della grande ondata nazionalpopolare ("The radio keeps playing all the usual/ And what's a Wonderwall anyway?", sempre da "The Man Who"), anche perché cosciente di non potersene distaccare. Ma questo non varrà per tutte le band nate in quell'epoca.
Il 26 giugno 2000 appare nella rotazione di Mtv, quando ancora i video (e Mtv se per questo) volevano dire qualcosa, un altro ragazzo dall'inesistente colorito inglese, che arriva camminando, al buio, su una spiaggia del Dorset, per cantare "Guarda le stelle/ guarda come brillano per te" e tante altre cose tra le più naif che possano venire in mente - forse uno dei testi più imbarazzanti da raccontare a voce, tra le hit pop di tutti i tempi.
Eppure è proprio quest'aura naif a rendere irresistibile "Yellow", la prima hit vera e propria dei Coldplay, foss'anche solo per caso, perché Chris Martin non è abituato a girare in primo piano, e così sembra, almeno all'inizio, visibilmente imbarazzato; o sarà forse per il sorriso che gli scappa negli occhi quando si mette a rincorrere la videocamera con un attimo di ritardo.
Sono queste impressioni, che vanno al di là del "significato" e di qualsiasi rimasticazione intellettuale, ciò che rimane di "Yellow": il suo riff portante, una specie di bend sconsiderato che sembra trascinare anche il corpo, oltre il falsetto e il coro di voci bianche del ritornello, e che certamente sa arrivare là dove l'insipido testo della canzone non può. Ma come si fa a disconnettere ciò che è scritto da ciò che si ascolta quando si parla di musica?
Tutto "Parachutes" ha infatti, prima ancora che nella scrittura, addirittura, nell'interpretazione e forse soprattutto nella registrazione e nella produzione (tutto catturato live nello studio-stanza di Ken Nelson a Liverpool) il suo punto di forza: un emozionante calore, un'espressività irresistibilmente ingenua e puramente infantile si spande da ogni nota, provocando brividi nella nervosa serenata di "Shiver", in cui Chris Martin si arrampica sul suo falsetto in una sorta di riproposizione garage di Jeff Buckley; o nell'entrata di tutti gli strumenti di "Trouble", vero momento-capolavoro chamber-rock, in quell'alternarsi piano-voce/full band che i Coldplay sapranno poi riproporre solo in maniera caricaturale e semplicistica, attirandosi la fama di ruffiani e sdolcinati (vedasi "The Scientist", "Fix You" ecc., in cui è riproposto, in modo molto più consapevole e imbarazzante, anche il primo piano di Martin).
In quest'ultima si trova una melodia lineare, quadrata, più americana che inglese verrebbe da dire, che però rappresenta un'eccezione in un disco che, pur nella limpidezza e nella pulizia dei brani, ospita diversi brani difficili da immaginare senza un vero talento per la musica e per la sua dinamica: l'uggiosamente minacciosa "Spies", che esplode con una delle caratteristiche progressioni della band, che qui può ricordare il britpop dei Manic Street Preachers; il numero acustico da "new acoustic movement" (movimento a cui vengono associati ma limitativo rispetto alla loro influenza anche su band più "quotate" artisticamente, ad esempio Other Lives ed Elbow) di "Sparks", in cui si esalta, nel calar di tono, la pregevolezza dell'interazione tra i membri della band, la semplicità complementare degli arrangiamenti - i movimenti circolari di basso, le punteggiature di chitarra elettrica, il suono chiaro dell'acustica, le sottolineature di batteria, l'estensione mai forzata della voce.
Una semplicità che stride con l'abbuffata di arrangiamenti e produzioni dei Novanta, come confessa già la copertina, in cui si minimizza il marasma di simbologie e rimandi in un solitario mappamondo che ruota su sé stesso, una calda luce nell'oscurità.
"Parachutes" è insomma un album "miliare" anche per la familiarità immediata che si crea con l'ascoltatore, tale da provocare sussulti di riconoscimento immediati anche a distanza di anni. Il pezzo da crooner impacciato "Everything's Not Lost" è forse uno dei momenti più significativi da questo punto di vista, un sospiro di sollievo finale che si trasforma in un interrogativo strumentale, nascondendo una ghost track conclusiva e consolatoria, consapevole che solo l'amore può salvare dalle spie e dalle ragnatele in cui si rimane invischiati.
Del resto "We Never Change", e la forza di questi primi Coldplay e della grande musica pop è proprio qui: quella di farci (ri)scoprire chi siamo, con poche parole, ma molte emozioni.
I want to live life
Never be cruel
I want to live life
Be good to you
I want to fly
And never come down
And live my life
And have friends around
We never change do we
We never learn, do we?
19/07/2015