Diavolo d'una Angel. In meno di un decennio di prolifica attività, la damigella del Missouri si è già imposta come una istituzione del cantautorato femminile a stelle strisce. E le sue quotazioni dopo l'ultimo, splendido album All Mirrors (2019) sono ormai in rapida ascesa. Che punti dritta all'essenza più intima della sua penna, che carichi il sound di fitte bordate chitarristiche o che proceda obliqua, alla ricerca di trasversali forme pop, che attinga alle radici country e folk degli anni 50, magari iniettate di una intensità drammatica in stile Elvis Presley o Edith Piaf, l'arte della Olsen si presenta sempre densa, imponente, un torrente lirico capace di piegarsi a ogni singola sfumatura emotiva, supportato da una delle voci più caratteristiche e versatili dell'ultimo decennio. Un fiume che i continui cambi di stile non sono mai riusciti a scalfire, portandolo semmai a un'accentuazione dei suoi tratti fondanti, a una piena consapevolezza del suo essere. Alla volta del quarto album di una carriera già ricca di soddisfazioni, quella comprensione si è tramutata in una vera e propria arma, portando l'autrice statunitense ad abbracciare un'universalità finora soltanto intravista in tralice. Ma riavvolgiamo il nastro, per tornare a St. Louis, Missouri, profondo Sud degli States, seconda metà degli anni Ottanta.
Won't you please come to Chicago
Angel Olsen nasce il 22 gennaio 1987 in quell'antico baluardo sudista sulle rive del Mississippi. A tre anni viene adottata da una famiglia affidataria che si era presa cura di lei da poco dopo la sua nascita. Il rilevante scarto di età con i genitori le lascerà un segno profondo: "Poiché ci sono così tanti decenni di differenza tra noi, mi sono interessata a come era la loro infanzia - ha raccontato Angel - Ho fantasticato su come fosse essere giovani negli anni 30 e 50, più degli altri bambini della mia età". L'ascolto della sua recente "Chance" può da solo bastare a suffragare ampiamente la tesi.
Ai tempi del liceo, si appassiona ai concerti di gruppi punk e noise al Lemp Neighbourhood Arts Center e al Creepy Crawl, ma anche alla scena Christian rock, diffusa in tutta la città. I primi strumenti ai quali si avvicina per scrivere la propria musica sono pianoforte e chitarra. Ma le opportunità nel Missouri scarseggiano: due anni dopo essersi diplomata alla Tower Grove Christian High School, Olsen si trasferisce così a Chicago. Nella windy town, cerca di farsi largo tra le nutrite schiere della scena indie. Realizza un primo Ep, l'eccentrico Strange Cacti, inizialmente inciso su cassetta nel 2010 e poi ristampato dalla Bathetic Records un anno dopo.
Strange Cacti è composto da sei canzoni, sospese tra la nuova Americana e l'indie-folk. Armata solo di chitarra e del suo soprano vibrante - con un livello incautamente alto di riverbero, che ne evidenzia i sospiri, il vibrato e le tecniche di yodeling - Angel Olsen sfodera melodie espressive e testi spontanei e naif. Grazie anche a un tocco vintage prontamente percepito dai critici dell'epoca. Come Frank Valish che su Radar scrive: "Piazzi la puntina sul disco e ti sembra di aver messo su un vecchio 78 giri di Dinah Washington, con la voce gloriosamente emotiva di Olsen che serpeggia attraverso una foschia fumosa, come se provenisse da un altro mondo, allo stesso tempo incantevole e misterioso". Non male come biglietto da visita per una debuttante, per quanto ancora acerba si mostri.
Tra i brani, spicca l'iniziale "Tiniest Lights", in cui la voce melodiosa di Angel si inerpica su trame scoscese in un idillio acustico sognante, la non meno raffinata "So That We Can Be Still", litania folk arcana non distante dagli onirismi mesmerici della coeva Marissa Nadler, e la spettrale "Some Things Cosmic" che traghetta il twee-pop anni 60 delle Shirelles nelle foschie brumose del dream-folk del Duemila. Perché Angel conosce bene l'arte del ritornello scanzonato e accattivante (basti ascoltare il finale canticchiato della conclusiva "Creator, Destroyer"). Le soluzioni sonore, però, restano piuttosto scarne, rigorosamente acustiche, nonostante lo strumento del cuore della nostra - come raccontato in varie interviste - sia la tastiera regalatale dai genitori.
Quando Angel improvvisa i suoi gorgheggi non so come sentirmi. È un misto di apprensione e soddisfazione allo stesso tempo.
(Will Oldham)
Alla corte del PrincipeÈ però un incontro a far svoltare probabilmente l'intera carriera della Olsen: quello con Will Oldham, ovvero sua maestà
Bonnie "Prince" Billy, guru del cantautorato indie-folk americano, dalla penna incredibilmente prolifica nei suoi vari progetti, che siano con il suo nome di battesimo, con quello d'arte o sotto le insegne dei Palace e dei Palace Brothers. Oldham intuisce subito le potenzialità di quell'affascinante e sfrontata fanciulla sudista dalla frangetta scomposta alla
Françoise Hardy: ne percepisce lo spiazzante mix di esuberanza rock e compostezza da
folksinger d'altri tempi. Il 30 novembre 2010 se ne accorgono anche gli ignari spettatori che assistono allo spiazzante show di Bonnie "Prince" Billy con The Babblers, band di supporto che si presenta sul palco indossando pigiami in
pile. Dal classico repertorio alla Oldham della serata, si discosta infatti una sanguinante sarabanda punk urlata a squarciagola da una stramba cantante, presentata come Angela Babbler. Il brano è una cover di "Sweetheart" di Dagmar Krause e Kevin Coyne (dal loro album del 1979, intitolato proprio "Babble") e la misteriosa interprete è per l'appunto Miss Olsen, che da allora diverrà una presenza fissa accanto al Principe nella sua Cairo Gang. "Quando Angel improvvisa i suoi gorgheggi non so come sentirmi - racconterà Oldham a Pitchfork - È come se mi sentissi svuotato e poi riempito, ma non so di cosa si tratta. È un misto di apprensione e soddisfazione allo stesso tempo".
Un minuto canta a malapena - sembra più un mormorio di parole bisbigliate - ma subito dopo si trasforma in una tragica eroina del cabaret di Weimar.
(Pitchfork su Half Way Home)
Piccoli semi, grandi ambizioniA suggellare il momento magico, giunge anche la collaborazione con l'altra musa del nuovo folk,
Marissa Nadler, per la cover di Richard e Linda Thompson "My Dreams Have Withered And Died": un'ottima esecuzione che fa presto il giro del web. È il trampolino di lancio per il suo album d'esordio,
Half Way Home (2012), che esce per la piccola Bathetic Records. Che nel frattempo sia in corso una lenta maturazione del suo stile si percepisce già dalle note iniziali di "The Waiting", primo esercizio della sua arte corale, con la sua band di supporto ad assecondarne il canto con nitidi fraseggi di chitarra, morbidi cori maschili e una sezione ritmica minimale. Ma al centro del disco è più che mai la voce di Angel con la sua gamma di sfumature intensamente drammatiche così pittorescamente riassunta, all'epoca, da Pitchfork: "Un minuto canta a malapena - sembra più un mormorio di parole bisbigliate - ma subito dopo si trasforma in una tragica eroina del cabaret di Weimar, tremendamente sospesa, lasciando che un'emozione le spezzi la gola come se fosse travolta da un treno merci. La sua voce non è fatta per i moderni altoparlanti per laptop. Il suo gemito lamentoso le farà guadagnare paragoni pigri con
Joanna Newsom, ma in realtà la sua tavolozza è un mix tra la grande e perduta Connie Converse, il vecchio dramma di
Jason Molina, l'eccezionale e inquietante capacità di
Bill Callahan di oscillare tra la cupezza e il comfort, e l'armonia aggraziata di
Nina Nastasia".
I testi sono ancora diretti e immediati, spesso dolorosamente autobiografici e introspettivi, come nella straziante "Lonely Universe", che racconta la perdita di una figura materna in un momento in cui "era solo una bambina, sul punto di perdere l'innocenza infantile", mentre fratelli e sorelle non possono aiutarla, le ambulanze arrivano e lei deve vestirsi per la scuola, ritrovandosi perduta in "un universo solitario".
Your hands were cold
Your voice was shaky
One morning not too long ago
And at the time I was only a child
About to lose my childlike mind
The way you touched my hands
Like you never had before
It wasn't you anymore
I called for my brothers
I called for my sisters
But there was nothing left for them to do
And so I watched from far away
As the ambulances came
And started dressing for school
Goodbye sweet mother earth
Without you now I'm a lonely universe.
Giochi di parole neanche troppo velati, come quello sulla "dolce madre terra", ad evocare quel conforto materno citato anche nella lenta ninnananna di "Safe In The Womb", in cui il grembo della madre e i primi istanti della inconsapevole vita neonatale appaiono quasi come gli unici momenti sereni di un'esistenza terrena: "I was safe when I was in the womb/ I was warm when I was wrestling to get out/ Out of the flesh/ And the sound of the world filled easily/ And the eyes above watched eagerly/ In the hope of the nave/ In the hopes of a change/ It was all bright, clear".
Il dramma è sempre dietro l'angolo, nascosto dai morbidi ricami della chitarra o dai sussurri morbidi di una Olsen tradita, che si improvvisa persino sceriffo intento a leggere i "diritti" all'innamorato ("You have a right to remain silent/ Anything you say or do/ Will be held against you in a court of law/ So don't be such a fool... Don't you know you're wanted in fifty states? I love you, dear, but it's not up to me"). Altrove ritrova la sua vena romanticamente vintage, come nella litania di "Always Half Strange", sospesa tra realtà e sogno, fiducia e disincanto ("Half life and half dream/ and half crazy to believe in/ anything at all").
Aleggia un senso di perdita e di morte, ma senza eccessive morbosità o angoscia: "Se solo potessimo capirci, sarei felice di morire", canta Angel in "Can't Wait Until Tomorrow", grezza e cruda ancor più dei brani dell'Ep d'esordio. "Ho pensato che a quest'ora l'anno scorso sarei morta", ricorda nella schietta e disarmante "You Are Song". E tra le ombre, spunta anche qualche radiosa apertura sentimentale: dal rapinoso valzer iniziale di "Acrobat" ("I love the way your body's made/ I love the way your voice is sex") alla festosa "Free" dove torna il brio
girl-pop dei 60's a illuminare una calda infatuazione: "Sometimes I have to take you in my arms/ Press your heart against my heart, oh!/ You know, each day it means a little more".
Half Way Home è un disco ancora forse troppo scarno e monocorde - legato com'è al binomio voce-chitarra, solo a tratti scalfito dalle incursioni di basso e pianoforte - ma aperto a tutto ciò che potrebbe essere (e presto sarà): "È noto che il seme più piccolo è sia semplice che selvaggio", avvisa Angel Olsen nella conclusiva "Tiniest Seed", quasi a profetizzare l'inizio di una grande carriera.
Di certo, il suo nome comincia a circolare con insistenza nel giro indie, tanto che è la rinomata Jagjaguwar a pubblicare il suo secondo album.
Burn Your Fire For No Witness (2014) segna un'ulteriore tappa nel processo di affrancamento della Olsen dalle scarne nenie folk degli esordi. Prodotto da John Congleton (
Bill Callahan,
St. Vincent) e composto dalla cantautrice e chitarrista di St. Louis per la prima volta in versione
full-band, l'album nasce da una sessione piuttosto vivida e istintiva: dieci giorni di fuoco nella chiesa sconsacrata di Echo Mountain ad Asheville, in North Carolina, insieme al batterista Josh Jaeger e al bassista Stewart Bronaugh.
Il risultato è un
sound molto più ricco, abrasivo ed eccentrico rispetto ai predecessori, anche se ancora a metà strada rispetto alle sue evoluzioni future. Alla originaria matrice folk-country si aggiungono spunti rock, garage,
lo-fi e psych, mentre a livello testuale si segnala il tentativo di uscire da quel bozzolo di solitudine,
comfort zone dei primi lavori, per abbracciare tematiche più collettive, se non universali. Un afflato più "positivo", insomma, che si riflette anche in una maggior varietà delle interpretazioni.
In scaletta si alternano nenie che cercano di conquistare col loro "vibrato" materno (la lunga, e un po' soporifera, "Enemy", l'ovattata, jazzy "Iota", l'intensa "Dance Slow Decades") ed esperimenti più coraggiosi, in cui la cantautrice del Missouri esplora nuovi territori e cerca di conquistare, sull'onda del riverbero, con l'
outlaw country sarcastico di "Hi-Five", giocando col piglio, tra il broncio di Scout Niblett (il disadorno farfugliare ossessivo di "Unfucktherworld"), tonalità
psych narcolettiche alla
Hope Sandoval ("White Fire") e suggestioni sanguigne vicine a
PJ Harvey,come nella titanica "Stars", dal respiro quasi "panteistico":
To scream the animals, to scream the earth
To scream the stars out of our universe
To scream it all back into nothingness
To scream the feeling 'til there's nothing left (...)
I'll close my eyes and try to breathe for the world
Il numero di registri e di stili richiamati aumenta col numero delle tracce (il garage ruvido di "Forgiven/Forgotten", le sfumature
Velvet Underground della ballata country di "Lights Out"). Ne beneficia l'ascolto, con un'impressione di maggior eclettismo e originalità, anche se alcuni episodi danno l'impressione di poter esplodere da un momento all'altro senza però riuscire a deflagrare mai, con la Olsen intrappolata in un tono vagamente dolente e sanguigno, che si avvita su sé stesso senza trovare respiro in una melodia davvero convincente.
Nel complesso, comunque,
Burn Your Fire For No Witness si rivela un lavoro interessante, che catalizza l'attenzione verso la rinascita (se mai ci fosse stato un declino recente) del cantautorato femminile, nella sua accezione "slacker" o meno, certificando la relativa indipendenza autoriale della Olsen.
I want to die
right next to you
(da "Sister")
Profumo di donnaDue anni dopo è la volta di
My Woman (2016), terzo album a nome Angel Olsen, che si muove verso uno stile decisamente più classico, in un difficile equilibrio con la proposta idiosincratica dell'americana. Ambizioso anche l'obiettivo delle liriche che, uscendo definitivamente dall'asfittica dimensione autobiografica degli esordi, si aprono a un vero e proprio "commentario" sull'essere donna oggi, con un taglio personale e anticonvenzionalmente femminista, nel quale convivono dolore e speranza, furore e lucidità: "Know your own heart well, it's the one that's worth most of your time" ("If It's Alive").
A spiazzare subito la platea è il primo singolo, l'affascinante "Intern": un numero
Bush-iano, con la sua filastrocca finale in falsetto dai ben "delineati" e riconoscibili contorni melodici, forte di un testo che è tutto una melodrammatica implorazione ("I just want to be alive/ make something real"... "Pick up the phone/ but I swear is the last time"). La cantautrice del Missouri riesce comunque a mantenere la sua beneamata impronta "alternativa", anche sulla scorta di un languido e grave tono cameristico, come nel lungo manifesto trasognato dell'incantevole "Woman", con tanto di vocalizzi lascivi e lacerante assolo finale di chitarra elettrica.
Il tutto fa emergere il carattere "arrangiato" di questo terzo album, in cui la calibrazione degli strumenti appare studiata ai limiti dell'artificioso, come anche le ostentate interpretazioni "espirate" - e a volte un po' melliflue - della Olsen, novella Emmylou Harris capace però anche di attingere a un rabbioso fervore rock alla
Patti Smith, con il suo caratteristico grido strozzato a griffare autentiche cavalcate chitarristiche come "Not Gonna Kill You", certamente impensabili a inizio carriera (ma non per chi ne aveva seguito la formazione punk-noise adolescenziale).
Resta anche l'impronta originale, piacevolmente anacronistica, del suo canto, ad avvolgere trascinanti motivetti power-pop anni Sessanta ("Never Be Mine"), nostalgiche ballate
soulful ("Those Were The Days"), invettive vibranti alla
Cat Power ("Shut Up Kiss Me", ruvida e accattivante insieme; "Give It Up" con ricami di chitarra
psych) e lunghe tirate da diva (alt-)country ("Heart-Shaped Face"), mentre la trascinante "Sister", con l'abbacinante amplesso di due chitarre elettriche, sembra quasi una risposta rock a
Lana Del Rey. A chiudere, "Pops", con il suo tremolio struggente, nel solco di un folk antico.
In generale, cresce il livello della scrittura e si irrobustisce il suono, grazie anche al contributo del basso corposo di Emily Elhaj, che puntella il canto della Olsen, specie negli episodi più lunghi ("Woman", "Sister"). E proprio quest'ultimo fattore è sempre più rilevante: la cantante del Missouri ha ormai una completa padronanza della sua gamma vocale, sa oscillare sapientemente da bisbigli mesmerici a esplosioni gutturali, da soffici tonalità da ninnananna a un vibrante registro da
rockeuse. Resta anche l'impressione di un prodotto anabolizzato in studio da dosi massicce di infioriture strumentali, ma il tutto rende l'ascolto decisamente più conciliante. Passando con disinvoltura da uno stile all'altro, Olsen si rivela senz'altro più eclettica e completa, pur correndo il rischio di assottigliare quel nocciolo duro di disperata drammaticità esistenziale che aveva reso così suggestivi e toccanti i suoi primi lavori.
Nel 2017 esce
Phases, prima raccolta della cantautrice di St. Louis, in cui trovano posto alcune rarità,
B-side, demo e
outtake, concentrate soprattutto sul versante più folk e intimista della sua produzione. Dominano quindi i riverberi e le spoglie sonorità
lo-fi (la feroce apologia dell'amore di "Only With You"), ma non mancano episodi che denotano un maggior supporto da parte della band ("Special", "Sweet Dreams"). In scaletta anche due cover, "Tougher Than The Rest" (
Bruce Springsteen) e "For You" (Roky Erickson), e un'esecuzione essenziale di "Endless Road", dalla serie tv "Bonanza", talmente scarnificata da smarrire quasi la sua epicità western. Da segnalare anche "Fly On The Wall", già inserita nella compilation anti-Trump "Our First 100 Days" e l'inedito "Special", proveniente dalle
session dell'ultimo album in studio.
I wish I could un-see some things that gave me life
I wish I could un-know some things that taught me so
I wish I could believe all that's been promised me
(da "Chance")
Ritratto allo specchioRiflesso di una separazione dalle conseguenze non proprio edificanti,
All Mirrors (2019) è il disco che tramuta quell'esperienza in una magniloquente riflessione sul lato oscuro che si impossessa delle nostre personalità, sul cambiamento e sulle incertezze che ad esso si accompagnano, dotandosi di un linguaggio fastoso, drammatico, che sfrutta al meglio il suggestivo impianto orchestrale, per un disco letteralmente "larger than life". Un effettivo punto di snodo, in un percorso già ricco di momenti di rilievo.
Registrato inizialmente nella dimensione raccolta di Anacortes, Washington, successivamente rivisto attraverso i contributi orchestrali di Ben Babbitt e
Jherek Bischoff, l'album è la perfetta incarnazione di un'anima contesa, stufa delle sofferenze del passato e conscia delle esigenze del presente, ancora insicura sul percorso da prendere. Ne deriva una narrazione ondivaga, dal tono talvolta sospeso, che mostra tutta la potenza delle sue dichiarazioni con ripide esplosioni melodiche, ascese di colore, improvvise spallate compositive. È questo un taglio lirico che premia gli sforzi compiuti in fase di arrangiamento, l'imponente malleabilità di un'orchestra che sa risparmiarsi le declinazioni da
ballad strappalacrime e il commento cinematico, prendendo pieghe inattese, dal sicuro tocco vintagista eppure fresco, vitale, mai seduto su spenti
cliché.
Già i due singoli di lancio, strategicamente posti ad apertura del lavoro, chiariscono la finezza dei meccanismi esecutivi, rodati con invidiabile premura. Con la coordinazione di due arrangiatori d'eccellenza, e la collaborazione di un produttore quale
John Congleton, un pezzo come "Lark" sfugge alla sorte dell'
overture leziosa grazie alla gestione del suono, un continuo perdersi e ripartire che sottolinea la spasmodica ricerca di evasione e contemplazione della voce narrante, il perfetto compimento di una relazione conclusa, rievocata però con dolente amarezza. Il contraltare rappresentato da "All Mirrors" (provvisto di uno splendido video dai toni
bushiani) è una vera e propria parabola sul tempo, il passato rivissuto ed elaborato con intensità sempre più insostenibile; il nucleo melodico, variato da maggiore a minore nel corso della canzone, acuisce la sua dolente carica comunicativa in un ineluttabile climax per synth e striature di archi, modulate quasi con fare gotico, a ribadire la forza di eventi a cui non ci si può sottrarre. Là dove "Too Easy" incanala il modernariato dolceamaro della prima
St. Vincent in un illusorio castello emotivo, "New Love Cassette" irrora di echi
gainsbourghiani un canto perso nella convinzione di un amore impossibile: gli irruenti commenti di archi, frapposti ai lunghi movimenti interpretativi, quasi sottintendono la natura erronea di una convinzione basata su premesse già tradite.
Altrove la rabbia si fa sentire in maniera più definita: "What It Is" si specchia nel passato rock di Olsen, tra giravolte di archi e insistiti bordoni di chitarra, ad autosarcastico sostegno rivolto alla propria idiozia. "Tonight", sorretta su un lento passo di
swing, appiana la drammatica
grandeur di "Impasse" (il momento più tragico della collezione, contrassegnato dall'uso violento della strumentazione) e lascia finalmente intravedere la luce in fondo al tunnel, riscoprendo una dolcezza che pareva essere stata sepolta per sempre. Se "Summer" affila le lame sui modi del grande canzoniere americano, tra le galoppate country-rock del ritornello e le aperture sintetiche (dalle atmosfere espanse
à-la War Of Drugs) delle strofe, "Endgame" è un pezzo notturno, pronunciato a labbra socchiuse, tra strie di violini e sibili di ottoni, quasi per timore che la forza del desiderio distrugga tutto al suo passaggio. Il tutto, prima che una "Chance" chiuda l'album con una classicità volitiva, e allo stesso tempo sfumata, notturna, una conclusione potente per un disco memorabile.
Ultimo di una serie di album che ha spostato indietro le lancette del pop d'autore, alla ricerca di una convivenza tra modi ed epoche,
All Mirrors è la più imponente espressione della caratura artistica di Angel Olsen, adesso artista pienamente matura e cosciente, di sé, dei suoi errori, del timore di ricaderci di nuovo, a capofitto, con ardore rinnovato. In fondo, invecchiare significa anche sbagliare, meglio e più convintamente.
A neanche un anno di uscita dal suo fratello maggiore, arriva Whole New Mess, già menzionato ai tempi del precedente disco, e ne completa la visione, sovrapponendosi come un negativo ruvido sulle fastose cornici synth-orchestrali del predecessore. Accompagnate da poco altro che una chitarra, le canzoni, registrate in una chiesa sconsacrata nello stato di Washington, si presentano nude di fronte al loro prepotente nucleo espressivo, richiamando una frugalità da tempo assente nelle composizioni dell'autrice.
Se è vero che il taglio delle melodie, anche quando queste non superano lo stato di bozzetto/demo (spesso accorciando in misura significativa il minutaggio rispetto alle versioni definitive), rimane pressoché invariato, nondimeno la natura spuria del suono, legato al solo accompagnamento di chitarra, esalta ogni singola variazione di tono e umore della voce di Olsen, più che mai prossima all'essenzialità dei suoi esordi folk. Se è vero che le ricchissime tessiture sonore di “All Mirrors” sono più che un semplice corredo alla scrittura, nondimeno il processo di comprensione e accettazione del dolore qui si muove in una nuova dimensione, parla un linguaggio sì più elementare, non privo però di una sua specifica ricercatezza, nel modo in cui i fraseggi vocali dell'autrice riempiono e svuotano lo spazio a disposizione, ergendosi ad assoluti protagonisti dei brani.
Là dove le progressioni già chiariscono pienamente la forma finale del brano (“All Mirrors” su tutte, così come l'arpeggiare valzerato di “Chance”), alcune delle canzoni hanno subito ben più intensi rimaneggiamenti, tanto che la differenza si fa ben più lampante. È il caso di “Summer”, che cede ad un marcato languore espressivo prima dell'esplosione vocale sul finale, così come “What It Is”, che la baldanza sintetica trasforma completamente rispetto al canovaccio folk di base. Gli unici due brani inediti calzano la collezione con la loro carica ruspante, condendo di nuovi significati anche il progetto madre: se la title track introduce con la sua carica emozionale l'intero album, coprendone sinteticamente l'intero arco narrativo, “Waving, Smiling” si posiziona proprio dalle parti di Half Way Home, tornando ad un classicismo anni Settanta che Olsen sa interpretare con il dovuto coraggio, esibendo una personalità che a dieci anni dall'esordio appare più evidente che mai.
Il taglio più spartano di Whole New Mess rende merito alle sottigliezze di un'autrice fattasi grande, che in ogni veste sa tenere fede a se stessa e ai suoi istinti creativi. Non ci sarà ancora una soluzione agli interrogativi proposti nel disco, ma il viaggio vale sicuramente la fatica.
Una pausa al supermercato
Le cuffie alle orecchie, tra i corridoi dei supermercati che ha inforcato all'infinito, una playlist di classiconi anni 80 a rendere più divertente la scelta dei cereali e la fila alla cassa: sembrerà banale, ma la cinquina di cover che compone Aisles nasce proprio così, come una sorta di stacco dalla discografia ufficiale, una deviazione di spirito con cui presentare un altro lato di se stessa, l'ennesimo di una carriera già densa di svolte.
Nel rielaborare la versione di Laura Branigan della celebre “Gloria” di Tozzi/Bigazzi, Olsen spoglia il brano dei suoi richiami disco, rimandando alla grandeur barocca del suo ultimo album senza il soverchiante peso emotivo che lo caratterizzava. Fantasmatica, eppure dotata di una sua intrinseca levità, la cover riesce a mantenere lo spirito di partenza distorcendone le appendici stilistiche e l'espressività vocale. Ma l'asticella è stata posta in alto, troppo perché un progetto volontariamente scanzonato possa tenere botta: non che non sia competente, ma la cover di “Forever Young” degli Alphaville fa ben poco per lasciar rimpiangere l'originale. Laddove “Eyes Without A Face” ricalca il classico di Billy Idol eliminando ogni asperità chitarristica, “Safety Dance” è l'unico altro momento che sa come appropriarsi delle premesse (i Men Without Hats) e alterarne completamente la visione, rallentando i toni e piazzando una coltre vaporosa che a tratti ricorda quasi i Goldfrapp più evocativi.
Quando la lettura sa essere intensa, decisa, Angel Olsen ha tutto per non temere confronti con i mostri sacri con cui si cimenta. Ma le occasioni, anche in un Ep così succinto, sono poche per suggerire anche solo un progetto più espanso verso questa direzione. Poco male, si tratta comunque di un'aggiunta che nulla toglie né aggiunge a una discografia densa di ben altre soddisfazioni.
Perdite e redenzioni
Non è detto che il dolore debba essere necessariamente esprimersi attraverso concept magniloquenti o toni da tragedia. Non che non possano funzionare, a volte però si colpisce con maggiore incisività operando con le sfumature, col potere della giusta interpretazione. Uscito a seguito di uno dei periodi più burrascosi della vita di Angel Olsen (il coming-out come persona queer, la chiusura di una relazione con una donna, la perdita di entrambi i genitori a strettissimo giro), Big Time è album che fa proprio questo preciso assunto, e gioca con i toni pastellati di una malinconia senza fine. Il convinto sodalizio con la tradizione country, che ha sempre permeato la sua musica ma non è mai assurta a vera protagonista, arriva quindi a declinare con un nuovo cambio d'abito un'altra dimensione, contrassegnata da un controllo espressivo e da sprazzi di luminosità guadagnati a carissimo prezzo.
Patsy Cline, Skeeter Davis, Tammy Wynette, le eroine di un intero universo espressivo si danno l'appuntamento nei dieci brani dell'album, che ben si piazza nell'alveo del linguaggio par excellence dell'eredità americana, tenendo però conto delle fattezze di una carriera plasmata attorno alla straripante personalità della sua creatrice. Questa emerge senza grosse difficoltà, a prevalere però sono decisamente le mezze misure; ogni idiosincrasia, ogni slancio passa attraverso un filtro che azzera gli estremi e favorisce invece le infinite sfumature dell'emozione, delle nuove urgenze e cambiamenti che essa sa suggerire. Il tocco si fa quindi scientemente classico, perfino manierista, accoglie la versatilità del pop senza timori, sfiorando addirittura tentazioni ballabili in una title track che indovina il passo giusto.
Il pericolo viene aggirato con tutta la classe e l'espressività necessarie, l'onestà è tale che anche i momenti più a rischio brillano di una convinta partecipazione. In questo senso, la co-produzione di Jonathan Wilson restituisce una chiarezza tutta nashvilliana alle immagini di Olsen, ne vivifica la materia lirica con dolorosa precisione: forte però si fa l'impressione, specialmente nei vari lenti che costellano la raccolta, di una scrittura spesso troppo succube dell'epoca che vorrebbe restituire. Così “Through The Fires” disperde il suo potere catartico alla ricerca di una circolarità che non offre mai una reale risoluzione, e “This Is How It Works”, la stanchezza prima dell'addio definitivo, stempera la sua forza in un notturno troppo stiracchiato per farsi valere pienamente. Rimane comunque la caratura soul dei fraseggi spezzati di “Right Now”, passato e presente in un robusto passo a due, la decisa riflessività di “All The Good Times”, la consapevolezza di una serenità volata via troppo presto.
Eppure non vi è mai commiserazione, mai un senso di accusa, diretta o non che sia: la crescita vertiginosa affrontata da Olsen negli ultimi anni porta a un equilibrio che forse priva di slancio, traghetta però l'autrice ad un divero grado di consapevolezza, a una piena ricalibrazione del suo essere. La ripartenza non poteva partire con un più lucido posizionamento.
Contributi di Lorenzo Righetto ("Burn Your Fire For No Witness", "My Woman")