Tra le nuove damigelle del folk post-Duemila, Marissa Nadler spicca per almeno tre qualità. La voce, anzitutto: un mezzo soprano cristallino, capace però di calarsi alla perfezione nelle sue scurissime trame musicali. Poi, un'attitudine "classica", che le conferisce un maggior senso della misura rispetto alle confuse velleità "avant" di altri/e esponenti del genere. Infine, un peculiare talento, di matrice quasi coheniana, nel saper disegnare stupende aperture melodiche all'interno di scarni paesaggi sonori. La cantautrice nata a Washington è così riuscita nell'impresa di distinguersi dalla pletora di ragazze con la chitarra che continua tuttora a inondare il mercato indipendente. Merito di una formidabile sequenza di dischi che possiamo già tranquillamente annoverare tra le migliori produzioni di cantautorato al femminile di questi due decenni post-Duemila.
In perenne migrazione - da New York a Boston fino all'attuale residenza di Nashville - Marissa Nadler vive il suo tempo, ma con un'anima antica, quasi fosse la reincarnazione di un'eroina romantica dell'Ottocento o di qualche sirena dei mistici Sessanta (Nico?). Bell'ovale, incorniciato da lunghi capelli neri, pelle diafana e movenze delicate, attraversa i boschi gelati delle sue canzoni come un fantasma senza requie. Canzoni invernali, appunto, che riportano alla mente le "Songs Of Love And Hate" di Leonard Cohen o le "Murder Ballads" di Nick Cave per la loro esplorazione degli anfratti più oscuri e desolati dell'animo umano. Ma, a veder bene, il cuore della sua musica va ricercato ancora più indietro negli anni: nella tradizione dei cantastorie degli Appalacchi, nel folk celtico e provenzale, nell'antica scuola portoghese del fado (il paragone con Teresa Salgueiro dei Madredeus non è così infondato) e in una sempiterna psichedelia, che oscilla dai ruggenti Sixties ai languori onirici di Hope Sandoval.Stampato in sole 550 copie dalla Empire Records, una piccola etichetta dell'Arizona, il disco d'esordio Ballads Of Living And Dying (2004) è una raccolta di "canzoni d'amore e morte" scritte di proprio pugno dalla Nadler, salvo i due omaggi letterari, a Edgar Allan Poe (la fiaba d'amore dannato di "Annabelle Lee") e Pablo Neruda (la rivisitazione in chiave fado di "Hay Tantos Muertos", con un suggestivo accompagnamento d'organo).
Il formato-ballata riacquista il suo significato primigenio: non più un semplice "lento" o una qualsiasi canzoncina sentimentale, ma un piccolo poema drammatico, musicato alla maniera degli antichi cantastorie, con strutture circolari, rime orecchiabili e scarni arrangiamenti a far da contorno. La voce di Marissa Nadler fluttua eterea, punteggiata solo dal suo fingerpicking (chitarre, banjo e ukulele) e dal frusciare ombroso degli archi.
L'iniziale "55 Falls" schiude le porte di questo villaggio arcano sulle note raggelanti di una slide-guitar, "Mayflower May" conduce lungo un desolato sentiero di campagna, affollato di spettri e silenzi inquietanti, "Days Of Rum" imbrocca un country-blues vecchio stampo, pizzicato sulle corde del banjo, mentre "Virginia" è un funereo ritratto della Wolf. Gli unici raggi di sole filtrano tra le scabre tessiture di "Box Of Cedar", sorta di celebrazione della vita nel bel mezzo di un requiem ("I'm going to tell everybody that I'm glad to see you, even though you're coming home in a box of cedar"). E l'altra murder ballad di "Bed Of Solid Stone" (un titolo che è tutto un programma...) chiude nel disco nell'unico modo possibile.
Affascinante ibrido di folk sepolcrale à-la Bert Jansch e psichedelia ipnotica, Ballads Of Living And Dying è un debutto di straordinaria maturità per una ragazza di 23 anni, il biglietto da visita ideale per entrare nel gotha dei folksinger del nuovo secolo.
A un solo anno di distanza, esce The Saga Of Mayflower May, ovvero altri undici bozzetti di folk spoglio e incantevole. L'ouverture di "Under An Old Umbrella" è addirittura commovente: il fingerpicking insistito della Nadler fa da sfondo a una nenia di infinita mestizia, di quelle che ti dilaniano il cuore. Quando poi entra in scena il flauto (a cura di Nick Castro) ad accompagnare l'altra splendida litania medievale di "The Little Famous Song", l'ascoltatore è definitivamente al tappeto, soggiogato da questa sirena che canta come una damigella provenzale del XIII secolo, con una grazia e una melodiosità che non sono di questo mondo.
Con "Mr. John Lee", Marissa scende su una tonalità leggermente più bassa, per declamare con piglio da blues-singer un'altra storia d'amore irrimediabilmente perduto. Lo strimpellio di "Yellow Lights" prelude a un'altra elegante ballata, dove la tristezza si tinge del rosso del rubino e del sangue ("drinking rubies in the rain"... "red the blood inside the old tree"), del verde dei prati ("green the colour of the grasses") e dei colori degli occhi ("Oh, Mary, don't you die/ Cause of the color of her eyes").
La saga di Mayflower May prosegue come un sogno ininterrotto, che si strugge sulle lacrime di piano di "Old Love Haunts Me In the Morning" (altra stupenda melodia a suggellare un'ode d'amore e morte) e sulle delizie del fingerpicking, stavolta più virato verso il folk-country americano, di "In The Time Of The Lorry Low" e "Calico", o dei cori angelici e degli intarsi vocali di "Horses And Their Kin", che chiude il disco in piena trance estatica.
Marissa Nadler parla il linguaggio di un folk universale, che spazia da Joni Mitchell a quell'angelo dimenticato del folk bretone di nome Veronique Chalot. La musa di Cohen (e, indirettamente, di Cave) domina invece sul versante dei testi, tanto elegiaci e delicati, quanto cupamente gotici.
Ancor più profondo e toccante del precedente, The Saga Of Mayflower May è un disco da conservare in uno scrigno, come un antico monile prezioso.Per il suo terzo disco in quattro anni, Songs III: Bird On The Water (2007), Marissa Nadler ha potuto beneficiare del sostegno di una nuova etichetta, l'inglese Peacefrog, e della produzione di Greg Weeks, oltre alla partecipazione di altri due musicisti degli Espers, Jesse Sparhawk (mandolino, arpa) e Otto Hauser (percussioni).
Alle prese con violoncello, chitarra e synth, di contorno al suo mezzo soprano cristallino, l'aggraziata damigella del Massachusetts conferma anzitutto la sua crescita come musicista e cantante. E resta l'enorme potenza evocativa di una voce spettrale, che sembra provenire addirittura da un altro evo. Lo scheletro delle sue gelide ghost-ballad è intatto, ma gli arrangiamenti si presentano ora meno spogli, con qualche distorsione di chitarra elettrica a irrobustire il sound.
Rispetto a The Saga of Mayflower May , però, l'impianto melodico appare più debole: mancano quelle aperture radiose che schiantavano l'ascoltatore in madrigali da brividi come "Under An Old Umbrella" o "Famous Song", e talora Marissa indulge in qualche leziosismo di troppo. Paradossalmente, proprio l'acquisita consapevolezza dei propri mezzi sembra aver imbrigliato il suo songwriting, attenuando il pathos quasi "primordiale" che lo pervadeva.
Ma la classe non è acqua, e allora basterebbero i bagliori psichedelici di "Mexican Summer", sospesi tra Calexico e Mazzy Star, e le palpitazioni soffuse di "Dying Breed" a surclassare nugoli di cantastorie in gonnella (e non). Poi c'è la folksinger moderna, che flirta con l'elettronica (le tastiere stralunate di "Bird On Your Grave") e con la spigolosità delle chitarre ("Rachel"), senza rinunciare alla sua inflessione classica à-la Joan Baez (il singolo "Diamond Heart", forse la miglior ballata del lotto). E rivive anche il nume tutelare Cohen, virato a tinte (ancor più) fosche nella cover di "Famous Blue Raincoat". Il resto, però, rimane imprigionato in una bolla di vetro, con pochi guizzi e molto mestiere.
Il lirismo gotico e mesmerico di Marissa Nadler affascina ancora, ma non riesce a esprimersi appieno nella sua opera terza. Se però servirà a far conoscere al mondo il talento di questa sirena ammaliatrice, Songs III: Bird On The Water sarà tutt'altro che un disco inutile.
Proseguendo sulla strada inaugurata con Songs III: Bird On The Water e abbandonata la carovana polverosa del folk-revival, su Little Hells, quarto album in cinque anni, la cantautrice di Washington volge lo sguardo verso i lidi placidi e trasognati del dream-pop e di un pop psichedelico à-la Mazzy Star, ma senza tagliare le sue radici, ben salde alle pendici dei monti Appalacchi.
Per l'occasione, si riunisce un supercast, sotto l'egida della nuova etichetta, la newyorkese Kemado. In cabina di regia, Chris Coady (Cat Power, Tv On The Radio, Blonde Redhead, !!!) e “Farmer” Dave Scher (collaboratore di Elvis Costello e Interpol), mentre Simone Pace, batterista dei Blonde Redhead, affianca il fido Myles Baer aka Black Hole Infinity. Ne scaturiscono arrangiamenti più ricchi, innervati dall’elettronica e da una sezione ritmica più robusta. Niente di posticcio, comunque: il nuovo sound funziona, anche se a volte finisce col sacrificare un po' quel fingerpicking in cui Marissa notoriamente eccelle.
Approdo estremo di questo new deal è la vorticosa "Mary Comes Alive", dove un pattern di drum machine detta una cadenza ossessiva, su cui si innestano una ostinata progressione di chitarra e una linea di synth. Una cornice così spessa non mina, però, l'interpretazione della Nadler, alle prese con un'altra commossa riflessione sulle stagioni dell'amore e della vita. Anche il singolo "River Of Dirt" poggia su una sezione ritmica tirata a lucido, con il drumming potente e un incalzante riff di basso a irrobustire le tonalità eteree del canto, mentre la conclusiva "Mistress" suona quasi allegra, nel suo incedere country.
Marissa soffia parole di vetro nel carillon-thrilling di "Heart Paper Lover", si strugge nella ninnananna diafana di "Brittle Crushed And Torn" e tiene in bilico su due note di piano il requiem di "The Whole Is Wide". La sua voce resta lo strumento principe, capace di cambiare faccia ai brani con un solo sospiro. E allora a volte può bastare anche il minimo degli orpelli, come nella title track, ritratto di un cuore in frantumi su tela dream-country, o nell'arpeggio ostinato di "Ghosts And Lovers", sconsolata litania col cuore in gola.
Le qualità "atmosferiche" del sound della Nadler riemergono soprattutto dal vortice di "Loner", dove è un organo sepolcrale a reggere il gioco.
Dovendo però individuare un brano che condensi al meglio tutte queste intuizioni, la scelta cadrebbe su "Rosary", un valzer di seducente bellezza, cullato nei riverberi di una slide guitar e su fatate melodie vocali.
Marissa Nadler ha ormai ampliato il suo spettro sonoro, affinando il suo songwriting all'insegna di una sofisticata eleganza, che solo a tratti compromette la nuda visceralità del suo approccio, sebbene il traguardo formale ed emozionale di The Saga Of Mayflower May resti distante. Conferma, poi, tutto il suo valore lo storytelling di questa poetessa dal gusto noir, influenzata da Edgar Allan Poe Poe e dai risvolti più foschi dell'età Vittoriana.Nel 2011 la cantautrice di Washington torna con un disco autoprodotto e in larga parte finanziato dai propri fan, l'omonimo Marissa Nadler. La Nostra coglie l'occasione per "spogliarsi", almeno in parte, di alcune delle sue caratteristiche fondanti, dal suo costante, contrappuntato fingerpicking al respiro mitologico, fortemente allegorico dei suoi testi.
Marissa si prende così il non trascurabile rischio di scontentare proprio i fan di lunga data, quelli che l'hanno sostenuta nella produzione di questo lavoro, che la stessa artista riconosce come un'evoluzione del proprio stile. Proprio per questo, forse, Marissa Nadler è l'album che ha richiesto un tempo di composizione e produzione più importante, nella carriera della Nostra.
Già con Little Hells qualcosa si era avvertito di questa necessità, per l'artista americana, di arricchire la propria espressività. Nel disco del 2009 si trovavano già alcune delle variazioni presentate qui, ma sopravviveva probabilmente quell'inquietante fascino gotico, il sogno di fantasmi in amore che attraeva gli ascoltatori della Nadler.
In Marissa Nadler svaniscono invece le asperità in favore di pezzi di levigato country-pop dai titoli (fin troppo) esplicativi ("The Sun Always Reminds Of You", "Puppet Master", "In A Magazine"), arrivando a sconfinare nell'onirico melò sentimentale della Julee Cruise di "Baby, I Will Leave You In The Morning" o nel valzer psichedelico dello sposalizio cimiteriale di "Wedding" (ripreso in veste più spoglia in "Alabaster Queen").
Si potranno però consolare i numerosi ammiratori nella Nostra nel ritrovare, aldilà delle numerose tracce che conservano il marchio di fabbrica della Nadler (la bella "In Your Lair, Bear", "Little King", il reprise da "The Saga Of Mayflower May" di "Mr John Lee Revisited", "Wind Up Doll"), intatta la classe della Nostra, soprattutto nell'ormai conosciuto esercizio vocale, forse in grado di nobilitare autonomamente il non sempre brillantissimo tessuto compositivo di "Marissa Nadler".
Insomma non v'è troppo da temere, nell'ascolto, ma neanche troppo di cui servirsi, in un disco in cui la fiction, non solo nei testi, non pare essere più il punto focale dell'espressione artistica di Marissa Nadler.
Gettate alle ortiche le confuse velleità sperimentali e gli arrangiamenti più stratificati dei dischi recenti, in The Sister (2012), la cantautrice di Washington torna a fare quello che sa fare meglio. E il risultato è un incanto ridestato dal buio dei boschi ghiacciati e spettrali, dove la sua musica ha sempre vissuto. Vocalizzi mesmerici, assolutamente irresistibili, sposati quasi solo alla grazia innaturale del suo fingerpicking. E, finalmente, nuove melodie di razza, di quelle che le sgorgano fluide e inarrestabili, quasi fosse in trance, posseduta da un'ancestrale, inquietante musa.
Niente più orpelli sintetici, come nel precedente omonimo e in Little Hells, quasi sempre l'unica compagnia è quella della sua voce persa nel vento e quasi innaturale, con le sue sfumature spettrali e gotiche. Un incantesimo che comincia già dall'iniziale, struggente "The Wrecking Ball Company" e prosegue nella raggelata, stupenda melodia di "Love Again, There Is A Fire", cesellata attorno a cori onirici e alla malia ipnotica della voce della Nadler. Basta pochissimo per sprigionare la magia, come tra i sentieri ombrosi di "Christine", altra litania scheletrica, appena ispessita da vocals maschili a supporto. Se "Apostle" mette in mostra soprattutto l'ormai considerevole abilità di Marissa nell'arte del fingerpicking, la parabola di "Constantine", l'ex-rockstar devastata dalla codeina, veste ancora i panni di una ballata senza tempo, fatta di languori e dolori sospesi.
Il lieve calo della parte finale non compromette l'esito di un disco prezioso, probabilmente il migliore composto dalla Nadler dai tempi della saga di Mayflower May, a testimonianza di un talento che le ultime prove minori avevano solo momentaneamente offuscato.
Come una sirena incatenata a un sortilegio, Marissa è costretta a ritrovare la semplicità e l'umiltà per far rinascere la sua magia.Il tempo, in ogni caso, è galantuomo e Marissa Nadler inizia finalmente a ottenere i riconoscimenti che ha sempre meritato. A metà del decennio Dieci, è ormai un’artista dalla statura internazionale ormai riconosciuta, come testimoniano l’attenzione delle principali testate del globo, la serie di collaborazioni prestigiose e, non ultimo, il doppio sigillo discografico sul suo nuovo album, July (2014): Sacred Bones (la label di Crystal Stilts, Zola Jesus e Case Studies) per gli Stati Uniti e un'istituzione del songwriting come la Bella Union per l'Europa.
Se nel precedente lavoro Marissa era apparsa quasi costretta a ritrovare la semplicità e l'umiltà per far rinascere la sua magia”, nel suo nuovo disco, grazie anche alla produzione del doomer Randall Dunn (Earth, Sunn O))), Wolves In The Throne Room), sono proprio i brani dagli arrangiamenti più ricchi a spiccare. A cominciare dallo splendido singolo “Dead City Emily”, con il sinistro sciabordio dei synth di Steve Moore a fondersi con gli echi della chitarra elettrica, in un'atmosfera spettrale e soffocante, in cui i tipici vocalizzi riverberati della Nadler finiscono quasi inghiottiti nel mixer.
È come se la potenza magniloquente dei paesaggi metallici dei Sunn O))) si fosse dissolta in un pulviscolo di fragili tessiture armoniche, come quelle dell'altra prodezza del disco, la struggente “Was It A Dream”, in cui una smarrita Nadler si interroga sulla fine di una relazione, mentre gli archi gonfiano il pathos e una lacerante chitarra elettrica sfregia una melodia tenerissima. Una rinnovata poliedricità d'arrangiamenti che impreziosisce anche l'interludio pianistico di “I've Got Your Name” e la susseguente “Desire”, dove una chitarra ossessiva e il canto mesmerico di Marissa si insinuano nel flusso delle tastiere, per una nuova romance di amori e rivendicazioni. Così com'è accorata, e diafana al contempo, la cantilena di “Anyone Else”, poggiata su un insistito drone, in un gioco di luci e ombre acuito dall'intensità dei cori.
Laddove osa, insomma, la Nadler non perde la bussola. Ma il suo resta un impianto folk classico e tradizionale, che ha nei suoi tipici bozzetti invernali il marchio di fabbrica. Ecco allora riaffacciarsi i fantasmi tra gli scheletri di alberi spogli e raggelati in “1923”, numero da camera, con il fremito degli archi di Eyvind Kang, la chitarra trattata di Phil Wandscher e qualche tamburo in lontananza a sostenere una litania persa nel vento. E si torna ad assaporare la delizia di un fingerpicking mai banale, sponda naturale per le armonizzazioni vocali della Nadler, ora quasi bisbigliate in un atipico spoken world (“Holiday In”), ora assistite da eleganti arrangiamenti per organo e pedal-steel guitar, come nell'iniziale “Drive”, crogiolo doloroso di ricordi e sensazioni. Sono acrobazie giocate su un filo sottilissimo, che non sempre si rivelano pienamente riuscite (la celebrazione delle estati e degli “Independence Day” a suon di country in “Firecrackers”, la nenia un po' telefonata di “We Are Coming Back”, il dimesso commiato al piano di “Nothing In My Heart”). Ma resta sempre quella piacevole sensazione di smarrimento che irretisce, come il canto delle sirene, chi naviga tra i solchi della discografia nadleriana.Squadra che vince non si cambia. Così Marissa Nadler ribadisce il suo sodalizio, apparentemente innaturale, con Dunn su Strangers (2016), il suo ottavo album in 12 anni. Un lavoro che osa ancor più, immergendo il mezzosoprano cristallino della Nadler in un magma ribollente di chitarre processate e riverberi, e intensificando il ricorso al drumming. Al punto che in alcuni casi – e forse per la prima volta nella sua carriera – si finisce col prestare più attenzione ai suoni che alle melodie. Prendiamo la marcia solenne di “Hungry Is The Ghost”, con una chitarra a sferragliare e un'altra a pulsare ritmo, e con l'aggiunta graduale di synth, pedal steel e piano ad addolcire il fragore delle distorsioni. Oppure l'orchestra-fantasma di “Katie I Know” - uno degli arrangiamenti più stratificati e suggestivi del disco - dove un ritmo robusto si contrappone ai ricami della chitarra e alle soffici atmosfere dream-pop pennellate da organo, synth e archi, mentre la voce celestiale di Marissa racconta la fine di una relazione morbosa.
Anche gli episodi più pastorali appaiono meno diafani di un tempo, attraversati comunque da una tensione sottile ma palpabile: dal crescendo di giri acustici di “Skyscraper” ai fiati funerei di “Waking” fino al twang quasi western che sfregia la malinconia di “Nothing Feels The Same”. Fa eccezione forse la sola elegia finale di “Dissolve”, l’episodio più vicino al fingerpicking spoglio degli esordi. Ma ad ampliarsi è anche la gamma dei testi, che dall’autobiografismo muovono verso tematiche più universali, quali la solitudine e la disperazione, con pieghe anche apocalittiche e surreali. Le sconosciute a cui fa riferimento il titolo - ferite, disilluse e sole - forse non sono altro che la proiezione esterna dell’inconscio e dei demoni della loro amorevole creatrice.
Un album che nel complesso suona anche più orecchiabile di molti predecessori. E se potesse mai spuntare una hit a nome Marissa Nadler, la maggiore indiziata sarebbe proprio “Janie In Love”, naturale singolo dell'album: un'altra lullaby persa nel vento, con le chitarre riverberate e i violini dissonanti a incrinare il rapimento estatico della sua melodia, mentre la voce della Nadler sfuma su tonalità più basse prima dell'esplosione del chorus, puntellata da un beat mai così possente. Ma la maggior ricchezza dell'impianto sonoro non soffoca la vocalità magnetica della Nadler, lieve come brezza marina tra i rintocchi di piano e i cori di “Divers In The Dust”, più noir e spettrale tra i languori country della title track (con chitarra elettrica e pedal steel sugli scudi), né comprime il suo talento melodico, pronto a risbocciare nell'ode “All The Colors Of The Dark”, che condensa davvero tutte le sfumature della sua palette espressiva, di una grazia fatata che non è di questo mondo: “This is not your world anymore”, proclama - e sembra quasi rivolgersi a se stessa – in una ipnotica cornice di archi e tastiere.
Se è vero che il vigore delle chitarre e l’uso più intenso di echi e riverberi amplia il pathos, appare invece fuorviante il paragone tentato da alcuni con la Lana Del Rey di “Ultraviolence” e dintorni: manca del tutto quella carnalità da diva erotic-noir, quell’uso lascivo e surreale del formato torch-song.
Marissa non ammicca al pop, resta fedele ai rigidi canoni della folksinger e alla visione gotica del suo mondo ancestrale. L’apporto di Dunn alla console, però, la sta gradualmente facendo uscire dal bozzolo della sua timidezza. E chissà che, dopo i tanti gioielli sfornati in questa dozzina d’anni, non sia davvero giunto per lei il momento di agguantare il successo.
Due anni dopo, con For My Crimes (2018), la cantautrice americana ripristina il folk spettrale dei primi album, quello che resta invece costante è la galleria di personaggi femminili che popolano le undici tracce, protagoniste di storie ricche di romanticismo e nostalgia, sulle quali aleggia lo spettro delle violenze domestiche. Ed è qui che la scrittura di Marissa Nadler mette in mostra quella sottile evoluzione che ha fatto sì che da racconti immaginari l’artista passasse a raccontare storie quotidiane (“Dream Dream Big In The Sky”), concentrando questa volta l’attenzione sulla difficoltà dei rapporti tra uomo e donna (“You're Only Harmless When You Sleep”).
Facendo fede al titolo, For My Crimes esplora tematiche sonore country-gothic-noir che a volte rimandano a Laura Fraser e i suoi Tarnation (“Are You Really Gonna Move To The South?”), ma anche a Hope Sandoval (“All Out Of Catastrophes”) e ai Cowboy Junkies (“Flamethrower”), mentre la lunga lista di collaboratrici (tra le altre Janel Leppin, Mary Lattimore, Eva Gardner, Patty Schemel) aggiunge qualche piccola novità nel canzoniere dell’autrice.
Difficile non notare la leggera rivoluzione armonica che Angel Olsen opera sulla deliziosa title track, o la perfetta sinergia con Sharon Von Etten in “Lover Release Me”, e soprattutto l’imprevista virata verso il folk elettrificato di “Blue Vapor”, frutto della collaborazione con la cantante delle Dum Dum Girls, Kristen Kontrol, e della preziosa presenza del sax di Dana Colley dei Morphine: unica presenza maschile dell’intero disco. La presenza di un trittico di canzoni nettamente al di sopra degli standard, conferma la bontà della scelta della Nadler di ritornare su quel folk aspro e dolente dei primi album: il candore poetico e l’energia lirica di “I Can't Listen To Gene Clark Anymore”, scomoda paragoni illustri (Bob Dylan), il tenebroso tono degli accordi e del canto di “Interlocking” agita perfino lo spettro dei This Mortal Coil, e, last but not least, il gentile e delicato profilo dell’autobiografica “Said Goodbye To That Car” azzarda una melodia tanto semplice quanto efficace al punto da evocare i Beatles di “Blackbird”.Dopo due album innovativi come July e Strangers, il nuovo progetto di Marissa Nadler apparirà a molti come un disco privo di sorprese , o forse la vera sorpresa è proprio nella naturale e istintiva freschezza di undici canzoni tanto ordinarie e semplici da arrivare direttamente al cuore dell’ascoltatore, non senza aver prima lasciato qualche lieve graffio sulla pelle.
E sono graffi ancor più profondi quelli che Nadler mette a punto nel progetto con Stephen Brodsky (Cave In, Mutoid Man, New Idea Society e Old Man Gloom), pubblicato nel 2019 nonostante fosse stato progettato anni prima. Droneflower mette a dura prova i confini artistici dei due protagonisti, sviluppando idiomi espressivi in parte inediti, il punto d’incontro tra il canto cristallino e da mezzo soprano della Nadler e il bagaglio metal, hardcore e progressive-rock di Brodsky, giace nell’oscurità e nel sempre affascinante mondo del gothic-folk. E’ un disco frutto di continue mutazioni progettuali, concepito in origine come una potenziale colonna sonora di un film horror, di questa idea primigenia resta solo l’intensità delle immagini che la musica riesce ad evocare.
Sembra quasi che le dieci canzoni fossero già state create in un universo parallelo, in attesa solo di esser catturate e rivelate ai comuni mortali, come quando un pittore cattura la poesia di un tramonto svelandone sfumature inedite, così le istantanee sonore lievemente dissonanti dei due musicisti, rinnovano stupore e meraviglia.
Una cover di “Estranged” dei Guns & Roses fa bella mostra di sé al centro della sequenza dell’album, dando vita a uno dei momenti più epici e suggestivi, ma a far da leit-motiv per le atmosfere di Droneflower sono le minimali e cinematiche “Space Ghost I” e “Space Ghost II”. Ed è in questi spazi oscuri che Brodsky architetta alcune delle più interessanti e intriganti incursioni musicali, prima con una serie di accordi agrodolci di chitarra elettrica in “Watch The Time”, poi con ruvidi e spettrali accordi mutanti che confondono la percezione delle evoluzioni vocali, spostandosi da atmosfere eteree e vellutate verso toni più cupi e ancestrali. Una spiritualità più ruvida e malvagia s’impossessa di “For The Sun”, con i due musicisti che danzano su agili accordi elettrici e ululati sonori, restando abilmente in bilico tra sogno e incubo. Una sinergia che si ripete in parte nell’altra cover del disco ovvero “In Spite Of Me” dei Morphine (con Dana Colely al sax).
Quello che sembrava un’estemporanea destinata solo ai fan più curiosi di Marissa Nadler si rivela invece un piccolo scrigno di preziose gemme, con l’aiuto di Brodsky la cantautrice ha scoperto un altro lato oscuro della sua complessa dimensione artistica.
Dopo la pubblicazione dell'album di cover in edizione limitata Instead Of Dreaming (2021) capace di spaziare con sorprendente disinvoltura dai King Crimson ai Bee Gees, da Bob Dylan agli America, Marissa Nadler si chiude in casa nella sua nuova dimora di Nashville dove vive un peculiare lockdown, ossessivamente attratta dalle puntate della docuserie “The Unsolved Mysteries”, rielaborazione a firma Netflix di un vecchio format tv che, a quanto pare, da bambina aveva divorato. Proprio da quell'isolamento forzato e da quello spunto narrativo nasce il nuovo album The Path Of The Clouds (2021), in cui per la prima volta compone la maggior parte dei brani al pianoforte anziché alla chitarra, attorniata da una interessante pattuglia di ospiti: dall’arpista Mary Lattimore al pluristrumentista Jesse Chandler (Mercury Rev, Midlake), suo insegnante di piano, dalla cantautrice Emma Ruth Rundle e Amber Webber dei Black Mountain all’ex-Cocteau Twins Simon Raymonde. Il risultato è un disco ambizioso, complesso, anche se non sempre melodicamente ispirato come i predecessori. La folksinger americana ha trovato in quei “misteri irrisolti” la linfa per nuove ossessive noir ballad, sospese ancora una volta tra realtà e fantasia, passato e presente. E se l’impressione è che stavolta l’accento sia stato posto più sulle storie che sulle canzoni, è proprio in questo crinale nebbioso e sfocato che risiede il fascino del disco: abbandonarsi alle sue dissolvenze oppiacee senza opporre resistenza sarà senz’altro la modalità di fruizione ideale per apprezzarlo appieno.
Ci si ritroverà così traghettati dalla sirena-Nadler lungo le rapide del fiume Colorado dentro il Grand Canyon, nel 1928, sulle tracce di Glen e Bessie Hyde, novelli sposi-avventurieri in luna di miele con la loro canoa, sullo sciabordio di un delicato arpeggio di chitarra acustica puntellato dal basso sintetico, prima che il ritornello si dispieghi su un muro di ronzii di tastiera, corni e piano, interrogandosi sulla loro sparizione con quel ripetuto “Ce l’hai fatta?” ("Bessie, Did You Make It", che rinnova il vezzo del vocativo di “Katie, I Know”). E ci si perderà nel “sentiero delle nuvole” di D.B. Cooper, che il 24 novembre 1971 dirottò un Boeing 727 e, con in tasca un riscatto di 200mila dollari, si paracadutò scomparendo nel nulla con il suo bottino: l’occasione per una riflessione su cosa significhi prendere in mano il proprio destino che permea la raffinata title track, tra gli episodi migliori del lotto, con i suoi strati di basso e gli sparuti accenni di clavicembalo sposati al flauto e a chitarre distorte. Oppure ci si immergerà nelle acque gelide dell’oceano per seguire col respiro mozzato la sorte degli evasi dal carcere di Alcatraz nel 1966 tra i languori blues di “Well Sometimes You Just Can’t Stay”. E che questa della serie sui misteri irrisolti sia la vera ossessione del disco ce lo conferma la citazione del defunto attore Robert Stack, conduttore della versione originaria del programma, tra le opalescenze sognanti di “From Vapor To Stardust”.
Abbandonandosi alla malia di questi suoni vaporosi, equorei, si ha a volte proprio l’impressione di “respirare sott’acqua” ("If I Could Breath Underwater", con una intrigante linea di basso, l'arpa di Lattimore, la batteria svolazzante e i sospiri dei cori ad assecondare una nuova litania mesmerica della Nadler sui poteri soprannaturali), di perdersi in un incantesimo che ha le movenze del valzer scintillante di "And I Dream Of Running", condotto in tandem con Rundle così come “Turned Into Air” (con punture elettriche a insidiare l’estasi del fingerpicking), della scarna, disperata preghiera di "Storm", della quieta devastazione di "Elegy" (con l’arpa metafisica di Lattimore, synth e fiati in evidenza) e della solennità blues di "Couldn't Have Done The Killing", murder ballad in cui la protagonista si difende da un’accusa di omicidio e che - a dispetto dell’impostazione pianistica del disco - svela come siano soprattutto delle (belle) chitarre a emergere dai gorghi acquatici degli arrangiamenti, spalleggiata, in questa speciale missione, da “Well Sometime You Just Can’t Stay”.
Con il tepore degli archi tintinnanti ad avvolgere una ninnananna amorosa, "Lemon Queen" chiude l'album in chiave cinematografica e lugubre: "Più alto e più alto/ Sopra di te", sibila il mezzosoprano di Marissa, lasciando in sospeso l’ennesimo mistero, ovvero se la persona con cui sta parlando sia ancora in grado di ascoltare.
“It’s always midnight in my heart”, confessa una disarmata Nadler in “Elegy”. Ed è forse per questo che non si può non amarla, sempre e comunque. Anche quando, come in “The Path Of The Clouds”, sfida il pubblico a tentare – più che un ascolto – un completo transfert psicologico ed emozionale. Riuscirvi non è alla portata di tutti, ma potrà regalare nuovi, sconosciuti piaceri. Perché anche la musica, in fondo, resta sempre un mistero irrisolto.
Contributi di Lorenzo Righetto ("Marissa Nadler"), Gianfranco Marmoro ("For My Crimes", "Droneflower")
Ballads Of Living And Dying (Eclipse, 2004) | 7 | |
The Saga Of Mayflower May (Eclipse, 2005) | 8 | |
Songs III: Bird On The Water (Peacefrog, 2007) | 6,5 | |
Little Hells (Kemado, 2009) | 7 | |
Marissa Nadler (Box Of Cedar, 2011) | 6 | |
The Sister (Box Of Cedar, 2012) | 7,5 | |
July (Sacred Bones/Bella Union, 2014) | 8 | |
Strangers (Sacred Bones/Bella Union, 2016) | 7,5 | |
For My Crimes(Sacred Bones/Bella Union, 2018) | 7,5 | |
Droneflower (con Stephen Brodsky, Sacred Bones/Bella Union, 2019) | 7,5 | |
Instead Of Dreaming (Sacred Bones, 2021) | 6 | |
The Path Of The Clouds (Sacred Bones/Bella Union, 2021) | 7,5 |
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