Chi, come noi, ha seguito fin dall’inizio l’emozionante parabola di Marissa Nadler non può non compiacersi del livello di notorietà raggiunto dalla cantautrice di Washington. Un’artista dalla statura internazionale ormai riconosciuta, come testimoniano l’attenzione delle principali testate del globo, la serie di collaborazioni prestigiose e, non ultimo, il doppio sigillo discografico sul suo nuovo lavoro: Sacred Bones (la label di Crystal Stilts, Zola Jesus e Case Studies) per gli Stati Uniti e un'istituzione del songwriting come la Bella Union per l'Europa. Semmai, a destare qualche preoccupazione erano state le sporadiche cadute di tono di un'affascinante quanto prolifica esperienza musicale, giunta ormai al settimo album in dieci anni. Timori prontamente fugati dal penultimo Lp, l'ottimo “The Sister”, che, abbandonate alcune velleità sperimentali e dream-pop dei dischi precedenti, aveva finalmente ridestato la magia primigenia del suo folk, fatto di melodie fatate e vocalizzi mesmerici in una cornice spoglia, costruita quasi solo sulla grazia innaturale del suo fingerpicking.
In “July”, paradossalmente, avviene il contrario. Se infatti in “The Sister” Marissa era apparsa quasi costretta a ritrovare la semplicità e l'umiltà per far rinascere la sua magia”, nel suo nuovo album, grazie anche alla produzione del doomer Randall Dunn (Earth, Sunn O))), Wolves In The Throne Room), sono proprio i brani dagli arrangiamenti più ricchi a spiccare. A cominciare dallo splendido singolo “Dead City Emily”, con il sinistro sciabordio dei synth di Steve Moore a fondersi con gli echi della chitarra elettrica, in un'atmosfera spettrale e soffocante, in cui i tipici vocalizzi riverberati della Nadler finiscono quasi inghiottiti nel mixer. È come se la potenza magniloquente dei paesaggi metallici dei Sunn O))) si fosse dissolta in un pulviscolo di fragili tessiture armoniche, come quelle dell'altra prodezza del disco, la struggente “Was It A Dream”, in cui una smarrita Nadler si interroga sulla fine di una relazione (“It’s true that I lost a year, stumbling from room to room, hoping I’d wake up… somehow next to you”), mentre gli archi gonfiano il pathos e una lacerante chitarra elettrica sfregia una melodia tenerissima. Una rinnovata poliedricità d'arrangiamenti che impreziosisce anche l'interludio pianistico di “I've Got Your Name” e la susseguente “Desire”, dove una chitarra ossessiva e il canto trasognato di Marissa si insinuano nel flusso delle tastiere, per una nuova, appassionata romance di amori e rivendicazioni (“I could fall for you, and you had eyes for me”). Così com'è accorata, e diafana al contempo, la cantilena di “Anyone Else”, poggiata su un insistito drone, in un gioco di luci e ombre acuito dall'intensità dei cori.
Laddove osa, insomma, la Nadler non perde la bussola, a differenza di quanto accadeva, per esempio, nei numeri più audaci di “Songs 3: Bird On The Water” (2007). Ma il suo resta un impianto folk classico e tradizionale, che ha nei suoi tipici bozzetti invernali il marchio di fabbrica. Ecco allora riaffacciarsi i fantasmi tra gli scheletri di alberi spogli e raggelati in “1923”, numero da camera, con il fremito degli archi di Eyvind Kang, la chitarra trattata di Phil Wandscher e qualche tamburo in lontananza a sostenere una litania persa nel vento. E si torna ad assaporare la delizia di un fingerpicking mai banale, sponda naturale per le armonizzazioni vocali della Nadler, ora quasi bisbigliate in un atipico spoken world (“Holiday In”), ora assistite da eleganti arrangiamenti per organo e pedal-steel guitar, come nell'iniziale “Drive”, crogiolo doloroso di ricordi e sensazioni (“Nothing like the way it feels to drive/ Still remember all the words/ To every song you ever heard”). Sono acrobazie giocate su un filo sottilissimo, che non sempre si rivelano pienamente riuscite (la celebrazione delle estati e degli “Independence Day” a suon di country in “Firecrackers”, la nenia un po' telefonata di “We Are Coming Back”, il dimesso commiato al piano di “Nothing In My Heart”). Ma resta sempre quella piacevole sensazione di smarrimento che irretisce, come il canto delle sirene, chi naviga tra i solchi della discografia nadleriana.
Le delizie melodiche del capolavoro “The Saga Of Mayflower May” restano un traguardo forse irripetibile, ma “July” offre l'ennesima conferma di un talento purissimo, che con la maturità di un’esperienza ormai decennale sembra anche in grado di affrontare nuove, e più spericolate, rotte musicali.
29/01/2014