Scorrere il parterre di alcuni degli ospiti del loro nuovo lavoro basterebbe a insinuare il dubbio che, in un modo o nell'altro, Stephen O' Malley e Greg Anderson abbiano qualcosa di nuovo da raccontarci (non rilevarlo, significa davvero falsificare la realtà dei fatti): Oren Ambarchi (chitarra), Dylan Carlson (chitarra), Julian Priester (trombone), l'ormai abituale Attila Csihar (voce), Stuart Dempster (tromba), il Viennese Female Choir e, last but not least, Eyvind Kang, che oltre a prestare la sua viola ha collaborato anche in fase di arrangiamento.
Ebbene, con l'aiuto di cotanta bella gente, il nuovo parto della minacciosa coppia americana continua, nel solco del precedente "Dømkirke" (che vantava, vista la dimensione "live" - fu registrato, infatti, nella cattedrale di Bergen in Norvegia - una certa propensione "improvvisativa"), l'operazione di disgregazione del suo tetragono drone-doom metal, destabilizzandolo per il tramite di un sinfonismo fosco e opprimente, ma che, nondimeno, sa essere in più di un momento anche intensamente celestiale. Lontani dalle asfissianti, spesso sfiancanti colate di distorsioni degli esordi, con "Monoliths & Dimensions" i Sunn O))) hanno registrato il loro capolavoro, operando una sintesi tra magniloquenza strutturale ed esoterica spiritualità. Una sintesi che si staglia come un punto fermo per quanti, d'ora in avanti, vorranno confrontarsi con le possibilità davvero "infinite" del drone di ascendenza metallica.
Il maestoso, funereo reticolo di basse frequenze che discende e sale come una mareggiata oscura ed impenetrabile; la baritonale declamazione-zombie di Csihar, i guizzi striduli della viola, gli spietati rintocchi di piano (che squarciano il velo nero-fumo delle distorsioni con tonfi dissonanti), il crepitare raccapricciante delle zone d'ombra intorno cui la musica finisce per attorcigliarsi come filo spinato arrugginito: "Aghartha" (trangugiando illuminazioni Davis-iane, altezza 1975, e illusioni di mondi sotterranei, dove il Re del Mondo regna su torme di iniziati devoti), ci precipita in una dimensione parallela, dove risuonano, strambe e deformi, le trombe del Giudizio Universale e cori ultraterreni agitano emozioni ambigue, mentre gli archi bisticciano striduli (Penderecki?) come torme di uccelli inferociti dinanzi a un'unica briciola di pane. È una musica, questa, che dolorosamente e asimmetricamente prosciuga se stessa, fino al rumore dell'acqua e del vento che accompagnano il solitario blaterare del mostro. In fondo non siamo lontani dalle atmosfere sinistre di una colonna sonora di un film dell'orrore. Ma, invece che decapitazioni, sangue a fiotti e corpi in decomposizione, l'operazione qui manifesta, tramite un'amplificazione esponenziale, il terrore di una quotidianità sinistra e sfuggente.
Il coro polifonico guidato da Jessika Kenney apre i cancelli dell'inferno "paradisiaco" di "Big Church [megszentségteleníthetetlenségeskedéseitekért]", emblematica commistione di sacro e profano, dove la ricerca metafisica sonora degli Earth, a contatto con il pathos cristallino ma minaccioso di quelle instabili estasi vocali, viene elevata a pura voluttà sovrannaturale (e forse non sono lontane certe intuizioni dei primissimi Harvey Milk). Si tratta di un brano in cui è palese il cambio di prospettiva: un movimento delle masse sonore ben più dinamico, in nome di una ricerca che, per l'appunto, lascia collidere "monoliti" di riff magmatici e "dimensioni" di alterità scandagliate con tormentata passionalità. La somma delle parti restituisce, grazie alle cicliche ripetizioni, la sensazione di essere al cospetto di un rituale di iniziazione. Non più, allora, un'ostinata progressione di minimalismi sconfinati, ma un periodico salto nelle cavità dell'anima (qui sottolineato dal rosario di formule arcane che, di volta in volta, il cerimoniere proveniente dai Mayhem, recita, in trance, dentro il vento che spazza terre inesplorate).
L'impatto di "Hunting & Gathering (Cydonia)", invece, è quello di un brano black-metal rallentato e riconvertito su coordinate sludge: ennesimo piano-sequenza che, in definitiva, brama la trasfigurazione della disintegrazione "mentale" di un pazzo. Una panoramica dai toni grandiosi, da seguire ad occhi chiusi, in balia di titaniche volute orchestrali (che si espandono fino a lambire incubi kosmische-jazz) oltre cui fluttuano sinusoidi aereiformi di Moog e vocalizzi aurorali. È l'epica della paura. Ma di una paura che rimedia alle contraddizioni di cui si nutre il dolore.
Eppure, proprio sull'orlo del baratro, questo buco nero nasconde uno spiraglio di luce. Lo contiene il capolavoro "Alice", il momento di massimo distacco da tutto ciò che i Sunn O))) sono stati fino a questo momento. Prendendo le mosse dagli ultimi miraggi desertici di Mr. Carlson, O' Malley e Anderson, sotto la supervisione di Kang, sondano variazioni jazz-cameristiche. Dal contrasto tra lo sfondo assediato dall'ostile dilatarsi del silenzio, il rimbombo cupissimo del basso e una figura chitarristica che si ripete come un mantra della desolazione, tracciando i margini di un'ascesa a mo' di fanfara indolente (eppur fiera e solenne, come il Richard Strauss in prestito alla fantascienza filosofica di "2001: Odissea nello spazio"), scaturiscono segni che rimandano a possibili, terreni giardini delle delizie: tappeti smorzati di fiati, un'arpa a scivolare leggiadra in coda, l'oscillatore che simula polimorfe correnti gravitazionali, tra nebulose e nitori di galassie tacite, e il trombone che, raggomitolandosi lentamente su se stesso, finisce per rivelare un profondissimo sentimento di speranza, un respiro assoluto fatto di brividi smorzati come fiammelle, carezze scambiate sotto l'immobile struggersi delle stelle, sguardi intimiditi che seguono il sole spegnersi lentamente dietro la linea delle montagne più lontane.
Austero, nostalgico stupore. Come se anche Bernard Hermann, oltre all'Alice Coltrane più romanticamente mistica, c'avesse messo lo zampino, ignaro di avere a che fare con dei maledetti capelloni capaci di tanta poesia. Come a dire, ancora, che alle distanze mentali appartiene tutto il mistero del progredire inesorabile del tempo. E tutto ciò che resta non è altro che un eterno rumore di fondo. Un drone, per l'appunto.
01/06/2009