Alla faccia di americhe weird, brutalismi noise e depressioni black-metal!
In un universo musicale che non sa più a quale stranezza votarsi, la risposta più intelligente (e molto meno pretestuosa e sensazionalista di quanto questo incipit lasci dedurre) giunge direttamente dall’alto Medioevo e dalla cupa e tutta "latina" austerità del canto gregoriano.
Il medium dell’operazione si chiama Eyvind Kang, compositore e violinista coreano-canadese non nuovo a simili, inattualissime e quindi preziose riesumazioni. A forza di colonne sonore, frequentazioni di primo piano (Sun City Girls, John Zorn, Ruins, Bill Frisell e molti altri) e dischi memorabili (su tutti gli ottimi Theatre of Mineral NADEs e The Story of Iceland, entrambi Tzadik), il nostro è riuscito a entrare a tutti gli effetti nel mondo della classica-contemporanea che conta. E per giunta in Italia!
Commissionato dai festival di Angelica e Altro Suono, e registrato dal vivo nel maggio del 2006 all’interno del Teatro Comunale di Modena, “Athlantis” è la personale trascrizione musicale che Kang ha voluto dare al "Cantus Circaeus" di Giordano Bruno, opera incentrata in parte sull’Ars Memoriae (tecnica mnemonica sviluppata da Lullo in epoca romana e poi perfezionata da Bruno, tra gli altri) e in parte su un ribaltamento del mito della maga Circe, al quale vengono interpolati un paio di passaggi di opere dello scrittore medievale francese Marbod di Rennes.
L’opera si evolve per una quarantina di minuti di epica e oppressiva narrazione di miti antichi, affidandosi all’accompagnamento dell’Ensemble degli Ottoni di Modena e dal Coro da Camera di Bologna, diretti da Aldo Sisillo e, soprattutto, arricchiti da due voci eccezionali come quelle di Jessika Kenney (vecchia collaboratrice di Kang, già anche con Raz Mesinai) e di Mike Patton, che per quanto trasformista non avete davvero mai sentito cantare così.
Dopo una doppia intro affidata prima agli ottoni e poi al coro, si svela il tema (corale) portante dell’intero lavoro, "Andegavenses", che avanza profonda ed epica su un semplice accompagnamento d’acustica finché le voci femminili non si dispiegano a tratteggiare foschie dalle quali divampano squarci di luce improvvisi. "Rabianara" è, invece, molto più astratta, fatta solo di percussioni incerte, fiati che si innalzano dal nulla, tappeto corale bassissimo e una voce storpiata ed empia che nascostamente recita le parole di Bruno. "Inquisitio", una lunga elencazione salmodica di animali da bestiario medievale, rimane impressa per l’incredibile, e del tutto "moderna", nonostante il contesto, dizione gregoriana di Patton. La Kenney trova invece il suo momento più alto nella successiva "Ros Vespertinus", cantico di sublime purezza e per nulla stucchevole. E si prosegue così, tra fanfare ("Concilator"), antiche ballate dal sapore popolare con il sitar ("Lamentatio") e spettri vocali tanto perfetti da trasformarsi in vibranti droni ("Athlantis").
Quanto mai arduo dare una valutazione circostanziata a un disco come questo. Di certo non è roba che si ascolta tutti i giorni.
02/10/2007