Nei venti anni abbondanti in cui l'umanità non ha avuto una band rilevante chiamata Earth, sono successe molte cose nell'heavy-metal. Dai tempi dei Black Sabbath questo stile musicale duro e assordante è diventato un'istituzione degli anni 70, ha raccolto gli spunti del punk ed è mutato in nuovi stili, sempre più veloci ed estremi, nel corso degli anni 80 e primi anni 90. Affiancate a questa linea evolutiva, però, ne esistono almeno altre due: quella della commercializzazione pop-metal e quella, lenta e pesante, del doom-metal. Noi ci concentreremo proprio su quest'ultima, se non altro perché è la più trascurata emanazione dell'heavy-metal anni 80, prediligendo però una prospettiva atipica.
Nel 1992 i Melvins superano anche questo vertice di lentezza e pesantezza con l'album omonimo, meglio conosciuto come "Lysol", e brani come "Hung Bunny", un colosso di 11 minuti dominato dal fiume magmatico delle chitarre distorte, con un'esilissima struttura ritmica che si sveglia solo dopo 8 minuti. Il tempo quasi si ferma, il suono fluttua nello spazio e assorbe l'ascoltatore. Ogni nota è un rituale sonoro, tanto è sacrale l'attesa per la prossima plettrata.
Dicevamo del nome Earth, scartato dai Black Sabbath perché condiviso da una band conterranea. Quando Dylan Carlson, un chitarrista di Washington, fonda la sua band nel 1989 sceglie proprio quel nome essenziale. Il capolavoro "Earth 2: Special Low Frequency Version" (1993) è la versione estrema dei Melvins più lenti e pesanti. Tre brani in 73 minuti, uno sfora persino i 30 minuti. Tutto strumentale, con la quasi totale assenza di strumenti ritmici. All'epoca Carlson lo chiama ambient-metal, oggi lo chiamiamo drone-metal. Il drone - in italiano a volte si usa bordone - è una nota sostenuta per molto tempo, a volte per interi minuti. Il drone-metal usa la chitarra per produrre suoni sconfinati e psichedelici che mutano a suon di feedback, echi e distorsioni.
Nei preistorici The Grimmrobe Demos (1999), 500 copie poi ristampate nel 2005 a uso e consumo dei completisti, i Sunn O))) fanno di tutto per omaggiare gli Earth: uno dei tre brani dell'edizione originale si chiama, testualmente, "Dylan Carlson". Ma questi demo, nonostante i prestiti dai fondatori del drone-metal, sono comunque spaventosi per le orecchie e l'anima. Tre brani, 55 minuti. Il primo, "Black Wedding" (19 minuti), emerge dalle tenebre e scopre visioni psichedeliche aliene mentre si porta avanti un riff di chitarra assordante e cupo, frutto di un'accordatura tanto ribassata da ridicolizzare quella storica di Iommi. "Defeating: Earth's Gravity" (15 minuti) toglie anche le bave psichedeliche concentrandosi sull'effetto stordente dei fendenti di chitarra, anche se dopo dieci minuti emerge una sorta di assolo doom-metal e nel finale il suono si rischiara, acquietandosi infine in vibrazioni galattiche. La già citata "Dylan Carlson" è una composizione di 21 minuti che macina un lentissimo riff di chitarra per qualche minuto solo per aprire a un'atmosfera di tensione insostenibile e lanciarsi nel successivo riff, ritrovando nel finale un barlume di umanità nei lamenti chitarristici.
La versione del 2005 aggiunge i 17 minuti di "Grimm & Bear It", aperta da un incendio di distorsioni insolitamente acute per il loro registro ma comunque dominata dai riff lugubri e conclusa da una lunga coda allucinogena.
Apre "Richard", ed è già un altro mondo rispetto ai demo: domina la coppia assordante di chitarre, ma intorno al nono minuto la vibrazione devastante del drone contrasta con radiazioni chitarristiche più acute, tanto gelide da richiamare l'estetica black-metal. Sul finale proprio questa radiazione prende il sopravvento, in un tripudio dissonante che ricorda più l'avanguardia classica che "Earth 2". "NN O)))" a metà interrompe l'assalto ai timpani, facendo intravedere l'angosciante solitudine che si nasconde sotto la musica funebre del duo.
Vi ricordate che abbiamo parlato dei Melvins e della loro "Hung Bunny"? La terza traccia, "Rabbit's Revenge", è una fantasiosa reinterpretazione di un oscuro brano che la band di Washington suonava in sede live a inizio carriera. Il tributo è esplicitato, si fa per dire, da un campionamento dopo il quinto minuto. Non è, insomma, un coniglio qualsiasi. L'ultimo brano, "Ra At Dusk", prende il ritmo da una vibrazione distorta e fuori controllo, ricordando da vicino le escursioni cosmiche tedesche. È il brano più estremo in termini compositivi, una nube sonora dove il gesto musicale è spesso irriconoscibile: liberata la potenza della chitarra con la sua teoria di distorsioni ed effetti, i due si limitano a direzionarne il monologo assordante.
La coppia di "O))) Bow" è uno snodo fondamentale della carriera: la prima collaborazione con un importante artista esterno al duo è un'apertura a sonorità differenti e sperimentali, in dialogo con le avanguardie e il noise. Un traguardo estetico che è solo in parte ridimensionato dalla conclusiva "F.W.T.B.T.", tributo irriconoscibile a "For Whom The Bell Tolls" dei Metallica, che reintegra basso e batteria, riavvicinandosi agli amati Melvins.
White1 (2003) vede la partecipazione del poliedrico Julian Cope, che per l'occasione recita una poesia esoterica su "My Wall", la traccia d'apertura di 25 minuti. Le chitarre lasciano spazio alla voce, per la prima volta nella discografia. La recitazione è ben lontana dal suono degli esordi, affiancata da fischi e spettrali melodie che solo nella seconda metà sono sostituite da più corposi e assordanti droni. "The Gates Of Ballard" si apre con il canto di Runhild Gammelsæter, cantante già presente negli effimeri Thorr's Hammer, una formazione in cui militavano anche Anderson e O'Malley, ma che ha vissuto nella sua prima incarnazione una manciata di settimane. A seguito del contributo cantato arrivano basso e drum machine, destinati a lasciare spazio agli ormai familiari droni dopo circa 9 minuti, prima di tornare per il finale. Pur se suona quasi comico, è la traccia più ritmica che i Sunn O))) abbiano mai composto, nonostante non sembri portare avanti molte idee nei suoi 15 minuti abbondanti.
Terzo e ultimo brano, "A Shaving Of The Horn That Speared You" inizia con una chitarra che balugina nel buio con glissando sparuti, in un clima di attesa e tensione minaccioso ma più atmosferico che assordante. Muovendosi a ondate, lentissimamente, il brano fa emergere dettagli: un sospiro ectoplasmatico, una melodia deforme, una tessitura di dissonanze sparse nel desolante arrangiamento. Si arriva alla fine, ed è una notizia, per nulla storditi, magari angosciati da questo agghiacciante viaggio nell'impero del dolore.
Dietro il microfono della conclusiva "Decay2 [Nihils' Maw]" troviamo persino Attila Csihar, già in Mayhem e Aborym. Sono 25 minuti di tuffo nel buio più impenetrabile. L'apertura è un lugubre e sconfinato affresco cosmico in cui la voce arriva come un'allucinazione orrorifica, una mostruosa presenza subconscia, quando invece si poteva sperare in un pur flebile elemento umano. Poi le voci si moltiplicano in un coro ultraterreno e incomprensibile, fino a diventare un'opera lirica degna, per grandiosità e solennità, della morte dell'universo stesso. Solo superata questa prova annichilente si può ascoltare il coro alieno ripetersi, accompagnando la voce mostruosa, mentre i droni di diradano.
L'album nero lo è in molti sensi: funebre come sempre, ma anche legato a doppio filo con il black-metal, tanto da sembrarne una versione distillata e atmosferica. Il clima da tregenda dell'iniziale "Sin Nanna" serve a creare il giusto contesto per "It Took The Night To Believe", un riff gelido di black-metal doppiato dal drone terremotante classico della band. Dopo una manciata di secondi interviene la voce mostruosa di Wrest della band ambient-black-metal Leviathan, un lamento da moribondo che recita frasi inquietanti. È una psichedelia nerissima, un'allucinazione black-metal che non ha precedenti nella loro discografia e pochi termini di paragone in generale.
"Cursed Realms (Of The Winterdemons)", una cover degli Immortal, è urlata da Malefic, cantante degli Xasthur. Si tratta di dieci minuti di folate assordanti di noise ultraterreno e fendenti di chitarra annichilenti. Le più tradizionale, per i loro standard, "Orthodox Caveman" e "CandleGoat" fanno temere che la spinta sperimentale si sia esaurita, impressione che "Cry For The Weeper" fa vacillare con tastiere atmosferiche e rintocchi sinistri.
In chiusura, troviamo il possibile capolavoro dell'intera carriera, "Báthory Erzsébet". Il brano, omaggio ai Bathory e alla figura della contessa più amata del black-metal, sviluppa in 16 minuti un lento ritmo ai limiti dell'infrasuono, accostandolo a campane tubulari e poi, finalmente, facendo intervenire le solite chitarre distorte. Una liberazione dall'ottundente clima funebre, un balzo al cuore che poi è ingabbiato nell'angoscia più nera dalla voce di Malefic, che sembra provenire dall'oltretomba, come indicato nelle note del disco. Questo rituale spiritico, questa visione d'incubo dall'aldilà è il precipitato di trent'anni di black-metal e doom-metal, uno dei brani più agghiaccianti che il mondo metallico abbia mai partorito.
Più interessante per la storia della band l'album collaborativo Altar (2006), insieme ai campioni dell'avanguardia metal giapponese, i temibili Boris (che prendono il nome da un brano dei soliti Melvins, quando si dice essere un gruppo influente). La presenza della band dell'estremo Oriente conferisce un suono più vicino alla canonica formazione rock, che recupera la batteria, per quanto in funzione espressionista più che ritmica, e il basso. Le chitarre rimangono comunque padrone incontrastate, anche perché sono diventate ben quattro nell'iniziale "Etna". Decisamente più sorprendente "The Sinking Belle", ballata folk-rock rassegnata, sospirata dalla Jesse Sykes già attiva con gli Sweet Hereafter, una ballata nella penombra che nulla ha a che fare con la discografia delle due band titolari del disco.
La pausa è comunque del tutto temporanea: il drone galattico di "Akuma No Kuma", con vocoder, trombone, synth e moog arriva non lontano a dove approderanno i futuri Fuck Buttons. "Fried Eagle Mind" dirada la tensione in una lugubre ninna-nanna imbevuta di riverberi e sfregiata dal rumore più atroce, tanto c'è "Blood Swamp" a chiudere con la più angosciante delle stasi allucinate, un tormento dove fischi e lamenti delle chitarre formano un ultaterreno coro di dannati.
La versione limitata dell'album contiene anche "Her Lips Were Wet With Venom", 28 minuti in compagnia, fra gli altri, di Dylan Carlson. Si tratta di uno sconfinato mostro a più teste, vale a dire chitarre, dove il fondatore degli Earth riveste il ruolo del poeta del deserto che fa risuonare il proprio strumento in un paesaggio estraneo a ogni forma di vita.
L'Ep del 2007 Oracle contiene due sole composizioni, al solito, chilometriche. Sono entrambe legate a una collaborazione con la scultrice Banks Violette, che ha trasformato in statue la band per una mostra a Londra. La prima, "Belülrol Pusztít", è per martello pneumatico e voci mostruose, montate sui droni lugubri di sempre. "Orakulum", dopo qualche minuto introduttivo, scopre la sua natura di rituale oscuro, a metà fra canto tibetano, preghiere proibite e invocazioni agli dei esterni Lovecraft-iani.
Nell'edizione limitata, completa la tracklist la sconfinata "Helio)))sophist", di oltre 46 minuti: un collage di alcune esibizioni della band in Europa che sembra perfetta per i completisti.
L'album consta di un quartetto di brani con le solite proporzioni ciclopiche. "Aghartha" (17 minuti e mezzo) dà il tempo all'anima di abituarsi al buio, scendendo nel lago nerissimo delle distorsioni e dei droni. Arriva la voce lugubre di Attila Csihar a recitare la trenodia con impassibile spirito funereo, iniettando tensione col supporto dell'inedita strumentazione estesa. Al nono minuto è già una sinfonia sinistra e assordante, al decimo un insostenibile vespaio di archi angoscianti e fiati martoriati, all'undicesimo si aggiungono scricchiolii e rintocchi funebri, lasciando poi al pianoforte lo scettro del rituale, condotto a suon di lugubri tonfi. Scarnificata, questa musica liturgica riorganizza le proprie scorie mentre la voce, lenta e cavernosa, continua terrificante a recitare, avvolta dai fiati tormentati. Lentamente, molto lentamente, sorge dalla distruzione un rumore d'acqua e pian piano i tromboni modulano un om, prima di lasciare sola la voce nel vuoto più desolante.
"Big Church [Megszentségteleníthetetlenségeskedéseitekért]" (quasi 10 minuti) si apre con un coro femminile a introdurre i droni catacombali, destinati a unirsi in un ossimoro totale, quasi metafisico: il coro di voci umane vibranti d'emozione che combattono l'inumano ringhio sconfinato delle chitarre. A completare il già ricco quadro interviene una preghiera da invasati, recitata con ipnotica convinzione. Il brano funziona fino alla fine, alimentando questi avvicendamenti e queste sovrapposizioni, suggerendo una lettura filosofica: il tormento dell'anima (i cori femminili) interpreta la violenza della natura (i droni assordanti) per tramite di un rituale liturgico (le preghiere esoteriche da invasato). In ogni caso, è palese un'esaltazione dell'aspetto più ritualistico e spirituale, declinato con creatività rara.
"Hunting & Gathering (Cydonia)" recupera l'aura black-metal di Black One, questa volta con chitarre più dinamiche ad accompagnare il recitato mostruoso, poi si trasfigura in cori lugubri e soprattutto in un tripudio dei più spettrali fiati, raggiunti infine anche da cosmici inserti di sintetizzatore. Si chiude in om eterni lasciati fluttuare nel cosmo deflagrato.
A coronamento dell'opera, "Alice" (16 minuti), l'abbandono del drone assordante e ottudente per la plettrata riecheggiante, associabile proprio agli Earth di quel periodo, più umani e atmosferici. Una lentissima melodia di chitarra conferisce il senso del tempo, intervenendo nel silenzio appena disturbato dal basso tellurico, colorandosi di svolazzi orchestrali. Lentamente la composizione prende corpo, diventando persino epica nella sua lentezza maestosa: ottoni compaiono a rinforzo dell'ascensione al rallentatore, l'aria si rischiara fino a lambire un jazz orchestrale con arpa e sbuffi d'archi. Facile, in questo senso, capire il titolo dedicato ad Alice Coltrane e al suo spiritual-jazz, ma totalmente inaspettato è il percorso della composizione: "Alice" segna l'espiazione dal dolore sconfinato e dall'angoscia di un'intera discografia, l'approdo dolce nella speranza malinconica, la visione commovente del cielo stellato e luminoso dopo aver attraversato gli inferi dell'anima.
Già più sostanziosa la collaborazione con Nurse With Wound per The Iron Soul Of Nothing (2011), una sorta di rilettura di ØØVoid in chiave dark-ambient con "Ash On The Trees (The Sudden Ebb Of A Diatribe)" che si staglia come il loro doom più tradizionale, reso più creativo da rumori sinistri e un inaspettato momento di cacofonia e allucinazioni.
Per la collaborazione con gli sperimentali Ulver, intitolata Terrestrials (2014), le due band propongono tre improvvisazioni live. Il risultato vale molto meno della somma delle parti: l'apertura con "Let There Be Light", pur suggestiva con i suoi ottoni, sembra il prologo a un climax che, anche quando arriva, non stupisce né per intensità né per originalità. "Western Horn" introduce i droni tanto amati, sovrastati da una sinfonia tragica di archi strazianti, ma nei suoi 9 minuti abbondanti non riesce a togliere l'impressione che si tratti di un abbozzo. "Eternal Return", malinconica e cameristica, è invece una composizione che fonde il drone con il post-rock, capace con la voce dell'ottimo Kristoffer Rygg di elevarsi a canto vibrante d'emozione.
Sempre nel 2014 arriva la più inaspettata delle loro collaborazioni, quella con il cantautore sperimentale Scott Walker per Soused. Si alternano un canto accorato a miasmi dronici e spunti gothic-rock nell'iniziale "Brando". Circondato da musiche infernali ma anche piuttosto statiche, Walker sembra perdere forza espressiva in "Herod 2014" e "Lullaby", mentre in "Bull", ben più movimentata, la fusione con i sacerdoti neri del metal sembra sortire i risultati più peculiari, con una prima parte che destruttura il gothic-rock.
Pur essendo una fusione inedita, che trova qualche collegamento nella recente discografia del cantautore, l'album non sembra né un vertice per i Sunn O))) né per Walker.
Niente di tutto questo aggiunge qualcosa a quanto ascoltato in Monolith & Dimensions, sembra quasi un contentino per saziare gli appassionati dopo sei anni.
Ottavo album, anticipato per il Record Store Day il 13/4/19, e primo della formazione con Steve Albini in cabina di regia, arriva nel 2019 Life Metal. Tra i collaboratori figurano anche la compositrice Hildur Guðnadóttir, Tim Midyett e Anthony Pateras, che suona l’organo nel brano "Troubled Air". Creato esclusivamente in analogico, senza interventi digitali neanche in fase di post-produzione, sin dal titolo il disco evidenzia il principale cambiamento: nella coltre funebre di un tempo la "luce" arriva da ormai un decennio, con il capolavoro Monoliths & Dimensions, ma questa volta riveste un ruolo tutt'altro che secondario.
Dopo oltre vent'anni di sperimentazioni sul drone-metal, poco rimane alla formazione di Anderson e O'Malley per stupire gli ascoltatori. La scelta dell'analogico conferisce a quest'opera le caratteristiche di un documento della minacciosa potenza dal vivo della band, motivo ulteriore per ascoltarlo al volume più alto possibile. Le quattro composizioni, ciclopiche nelle dimensioni, hanno un'aura sinfonica e sviluppi tanto maestosi quanto affascinanti. "Between Sleipnir's Breaths" apre con magniloquenza, poi una voce flebile attraversa il nero minaccioso dell'arrangiamento. "Troubled Air" esplode all'inizio ma muta in una sinfonia onirica, benché assordante, come se notte e giorno, buio e luce fossero impegnati in un equilibrio instabile. Le conclusive "Aurora" e "Novae", rispettivamente 19 e 25 minuti, riaffermano l'idea di un drone-metal pieno di sfumature.
La prima cela una melodia al rallentatore e si schiarisce nel finale con un risultato commovente, un barlume di luce dopo la lunga notte polare. "Novae" si scopre da subito particolarmente movimentata, insolitamente ritmica per i loro standard. La tensione iniziale si stempera dopo quattro minuti ansiogeni e dopo 13 persino il volume assordante lascia il posto a una vibrazione bassa, il fantasma di un suono che conserva la sua componente inquietante senza l'apporto fisico dei decibel sovrabbondanti. Lentamente il mostro si rimette in piedi: arranca, si seda, riduce il ruggito a un sussurro, infine con un grido delle chitarre risorge, stentoreo e maestoso come sempre.
Ormai padroni di un drone-metal dinamico, che non disdegna aperture sinfoniche e composizioni avventurose, i Sunn O))) ritornano senza stravolgere la loro musica. I fan saranno entusiasti, perché sono vivi e vegeti, ma non sembra che possano ormai tracciare nuove strade per il futuro.
Più che un vero e proprio ritorno, il successivo Pyroclasts è il completamento di quanto già ascoltato su Life Metal. Stesse sessioni di registrazioni per una proposta monolitica: 4 lunghe composizioni di 11 minuti, distinguibili soprattutto per la tonalità differente indicata fra parentesi. Un quartetto di esercizi drone-metal improvvisato, utilizzato dai nostri per completare le varie giornate di lavoro. Ritornano le ormai prevedibili sfumature liturgiche e sovrumane, che macinano i timpani dell'ascoltatore elevandolo lentamente ed inesorabilmente verso una dimensione incorporea: si parte dalla iniziale "Frost (C)", si arriva all'opportunamente titolata "Ascension (A)", un maestoso momento di estasi distorta. Lungo il percorso l'ascoltatore propenso potrà meditare su se stesso, la vita, l'universo e magari anche sugli stessi Sunn O))), che evidentemente poco devono dimostrare ancora al loro pubblico di nicchia e sono liberi ormai di proporre i loro esercizi dronici, la loro routine assordante in sala registrazione, come un'opera da accompagnare al più appetitoso Life Metal.
Rinnovata la convinzione già maturata per il capitolo precedente: ormai la formazione ha raggiunto una solida, lodevole quanto probabilmente definitiva maturità. Difficile chiedere di più, da chi ha fondato quasi in autonomia un nuovo stile, portandolo a vette espressive irraggiungibili per molti. L'ascolto congiunto delle due opere, in ordine di pubblicazione, permette comunque di entrare a sbirciare il processo creativo che porta dalla jam assordante alla composizione fatta e finita, esaltando affinità e differenze fra le macinanti meditazioni distorte qui presentate e le più misurate composizioni che abbiamo già digerito qualche mese fa. Nemmeno queste attenuanti, comunque, permettono di considerare questo Pyroclasts più di un lavoro minore, destinato ai completisti.L'album è dedicato alla memoria di Ron Guardipee, Kerstin Daley e Scott Walker.