In principio Bristol era trip-hop. La sacra triade Massive Attack-Portishead-Tricky a decretare un primato di un sobborgo cupo. E denigrato dagli stessi inglesi. Poi arrivarono i Goldfrapp, prima a dipingerla con la loro montagna incantata, poi ad addobarla con lustrini e pailettes. Di rilevante la cittadina inglese ha però offerto negli ultimi cinque anni un gruppo, i Fuck Buttons appunto, che ha intercettato un pubblico estremamente eterogeneo e che va a inserirsi in quella sottile linea di demarcazione tra il mondo underground e quello indie.
Sono abbastanza noise da risultare indigesti alle fan dei Camera Obscura, abbastanza cassofili da piacere anche a un afecionado di Regis, e sufficentemente melodici da piacere quasi a tutti. Insomma, vanno a intercettare un pubblico assolutamente misto. E le radici della loro musica sono quanto di più variegato si possa trovare, tanto che definirli una creatura unica nel panorama musicale non sembra affatto un'eresia. Recuperano la vena kosmiche-ambient degli anni 70-80, l'elettronica sinuosa di Jean-Michel Jarre, gli Underworld e la loro techno sui generis, ma anche Black Dice, i Growing e i loro spasticismi electro. Se c'è una qualità costante è sicuramente la sensazione di avere a che fare con un farsi della musica. Pare ti stiano quasi raccontando una storia. E il racconto scorre in maniera armonica e coesa. In un moto di coerenza estremamente definito.
Il marchio Mogwai poi parla per loro. Dopo l'esplosivo singolo "Bright Tomorrow" targato 2007, su Atp Recordings, partono in tour. E proprio con gli scozzesi e l'etichetta Rock Action debuttano, in uno split. In realtà il duo già portava in giro il loro manifesto artistico, la mezz'ora di "Let's See If There Any Ghosts In Here", distribuita su Cd-r ai loro primi concerti, un trip spaziale di distorsione elettronica polverizzante e lamenti grotteschi che implode in avaria, rinasce come mostro d'energia malefica, si trasfigura in un rituale di ominidi elettronici, entra in estasi e infine danza a passo carioca trascinandosi dietro tutto il cosmo.
Ma è il 2008 l'anno di grazia per Andrew Hung e Benjamin John Power. Droni, melodie, harsh-noise, loop circolari, voci brutalmente filtrate: tutto in questo Street Horrrsing, primordiale e onirico esordio sulla lunga distanza, volto al raggiungimento di un’estasi sempre ambigua, sempre in bilico sul dirupo di un suono che, nonostante le apparenze, denota una freschezza pop. Man mano che il suono diventa più impenetrabile e fisico, cresce, così, il valore ipnotico dei brividi melodici, tanto che la lunga agonia harsh di “Race You To My Bedroom/ Spirit Rising” finisce per trasmettere uno strano, inquietante senso di pace interiore. Misteri di una sintesi musicale che ha proprio in quest’ambigua “raffigurazione” emozionale il suo punto forte.
Muove, del resto, ogni pannello verso un incrocio di linee e di forme che è possibile raggiungere solo attraverso un percorso di ascesa/ascesi. Nel capolavoro “Sweet Love For Planet Earth”, quindi, saranno grappoli di note e frequenze montanti (ma anche le stesse voci deformi) a rendere immediatamente percettibile il senso di una lenta, placida peregrinazione (si veda anche “Okay, Let’s Talk About Magic”, con la sua calibrata saturazione).
Altrove, su di un terreno meno battuto, forse veramente “personale”, la tavolozza offre percussioni, svolazzi vocali, (“Ribs Out”) e magma cosmico (“Colours Move”), inseguendo un’armonia tra l'istinto più cazzone e quello più quadrato e definito del suono.
L'esordio è un successo immediato. Per un disco del genere, è un mezzo miracolo.
Tempo un anno e se l'oroscopo dei Fuck Buttons avesse loro preannunciato l'incisione di un disco da addicted to dance, forse, non ci avrebbero creduto nemmeno loro. Ma proprio quel raggio presente in "Bright Tomorrow" pare averli illuminati verso nuovi orizzonti. Il fil rouge che lega le opere c'è ed è ben visibile. E, non bastasse, Tarot Sport li conferma come ciò che di più nuovo e sorprendente abbia prodotto il mondo elettronico degli ultimi anni.
Smessa la veste da noiser tout court, Andrew Hung e Benjamin John Power ne indossano una completamente nuova: un abito lussuoso ma essenziale, brillante, colorato, tribale. Il duo anglosassone, aiutato nella produzione da Andrew Weatherall, mette a fuoco in maniera convinta e consapevole le intuizioni dell'esordio, amalgamandole con una nuova direzione. Sulla scorta degli ultimi lavori di gruppi quali Black Dice e Growing, i Fuck Buttons abbozzano la scomposizione della forma in un gioco dai tratti picassiani, plasmando una creatura che a ragione si può inscrivere in quell'approccio al noise che si lancia alla ricerca del beat. Senza più le voci (meglio così?) e con un approccio ultratecnico che si riflette nel costante ricorso all'effettistica e in un imponente lavoro di missaggio.
Le lame rotanti di "Surf Solar" fendono l'aria fin da subito, scagliando l'ascoltatore in un universo parallelo, alienante. Un trip di dieci minuti prima ossessivo e freddo, che si dischiude gradualmente verso una melodia grezza e purissima, che procede a ondate che cambiano direzioni a intervalli regolari. A coronare il perfetto climax giunge una maestosa esplosione che sprigiona l'energia e l'imponenza sonica dei droni sparati a mille, che poi si spegono lentamente.
Il leit-motiv del lavoro può essere inoltre rintracciato in brani quali "Rough Steez" o "Phantom Limb", strambi episodi sintetici dal gusto dadaista che richiamano alla memoria le partiture sghembe di "Ribs Out". E se "The Lisbon Maru", ricalcando lo schema della traccia d'apertura, accentua ulteriormente l'elemento tribale e geometrico, "Olympians", con un'intro dal sapore vagamente dance, spinge sull'acceleratore risultando superlativa nel suo svolgersi esagerato e smodato.
Ma è probabilmente con le ultime due canzoni che i Fuck Buttons raggiungono l'apice. "Space Mountain" vive due vite parallele: una nella sezione ritmica incessante che, senza eccedere, percorre sotterraneamente la colonna vertebrale del brano, l'altra nelle strutture kraute che si muovono simmetricamente. La conclusiva "Flight Of The Feathered Serpent" vola altissimo, sfiorando le vette dei Field, fra tribalismi dance e overdose di droni.
Aggiornando la lezione dream-techno degli anni Novanta al tempo del noise e del drone e muovendosi con innata naturalezza tra andamenti krauti, aperture trionfali à-la Jean-Michel Jarre ed evoluzioni soniche al limite del progressive, i Fuck Buttons hanno costruito un'opera di difficile inquadramento, un "Guernica" dei nostri tempi.
I tour si susseguono, i fan aumentano. E il duo pare volersi prendere una pausa. Non certo un caso quindi il progetto parallelo di Benjamin, con l'alias Blanck Mass, che nel 2011 pubblica un self-titled su Rock Action. Sicuramente l'influenza basica del suono del duo qui rimane, però sottratta al beat serrato dell'ultimo Lp. In mezzo? Bordoni di droni cosmici, ambient celeste che si schiude e totalità in fieri. Etichettarlo come il solito disco dream-ambient un po' così, uguale a se stesso in tutto il suo svolgersi, non sarebbe neppure tanto sbagliato (a parte rare incursioni di tiepido noise) non fosse altro che, seppure di album simili ne escano a pacchi (pensiamo all'ultima scialba prova di Bvdub), solo alcuni riescono davvero a catturare lo spirito di una totalità cosmica, spesso solamente abbozzata e che difficilmente si plasma in forma davvero compiuta.
Il cristallino avanzare areiforme di "Sifted Gold" ondeggia schiumoso fra rivoli in loop dal bignami Fuck Buttons, "Sundowner" aperta da quiete vibrazioni svolge la sua scia boreale in otto minuti di pura placidità. Ma la varietà di riferimenti si allunga: "Chernobyl" ricalca le orme del Fennesz di "Vacuum", "Raw Deal" si apre a glitch e field recordings, il pullulare subacqueo di "Sub Serious" parla la lingua degli Emeralds frenati nell'impeto, "Land Disasters" cita ancora il l'austriaco di "Black Sea", fra cortine di droni epici ed estatici, "Fuckers" è purezza new age cesellata da scie e voci ovattate, mentre "What You Know" riprende il verbo cosmico.
Pulito, semplice, non pretenzioso. Si gioca su questi aspetti l'esordio di Power. Svestite le camicie canadesi, riesce a giocare di fino, amalgamando musica cosmica, field, ambient in un disco che fa dell'evocatività il suo punto di forza.
Lancette al 2013 ed è ora di un qualcosa di nuovo. Andrew Hung e Benjamin John Power si elevano come non mai in Slow Focus, sfoderando il classico terzo disco che incontra e sintetizza ciò che sono stati e aprendo le porte a nuove prospettive. Il viaggio del duo, tanto profondo e caotico all'esordio quanto tribale e acido in Tarot Sport, si solleva in maniera definitiva.
Si parlava di radici, quelle che ancorano "Brainfreeze" a terra, traccia ancora saldissima nel suo incedere con sezione ritmica sincopata di stampo quasi ebm (vi dice niente l'ultimo lavoro di Prurient su Blackest Ever Black?). Il moto è realmente marziale, seriale. Una guerra lanciata che trova una tregua negli splendidi bollori analogici di "Year Of The Dog", esperimento sonoro non così diverso concettualmente - al pari di "Prince's Prize" - da "Quantum Jelly" a firma Lorenzo Senni su eMego.
Accade così che quello teorizzato dai Fuck Buttons altro non sia che un viaggio dalla terra verso mondi altri, e che coinvolge, nel suo dematerializzarsi, anche le opere precedenti. Un processo di astrazione dalla realtà che trova nel singolo "The Red Wing" i primi corposi synth astrali, ricoperti d'una vena acid in climax progressivo. La danza tribale per zombie di "Sentients" tira dritto nel suo andirivieni in ascesa, fino a infrangere ogni barriera grazie a sinistri synth, ad ampliarne la portata dirompente e carpenteriana. Ma la grandeur di "Stalker", ideale contraltare liofilizzato e denso di glucosio a "Sweet Love For Planet Earth", spinge la mente verso un paradiso immacolato. Il mood è realmente aggressivo e quasi brutale, fatte salve le stratificazione dreamy, quasi à-la Blanck Mass.
Verrete investiti d'una luce bianchissima, un nirvana potentissimo in fieri che vede nella finale "Hidden Xs" la definitiva illuminazione. Bordoni di droni celesti a indicare nuove albe. Una civiltà che, differentemente dall'universo post-atomico del contemporaneo "Tomorrow's Harvest" dei Boards Of Canada, riprende se stessa in una dimensione che non è più terrena. La batteria ovattata a macinare sin da principio e dolcissimi drones in elevazione. Poi un momento di stasi e lo stop&go è servito per una delle più clamorose accelerazioni soniche che ricordi: si rincorrono come cavalli i synth, galoppano verso le stelle in un moto commovente per potenza e definizione. E' un universo la cui grandezza è smisurata, ma si fa geometrico nel suo espandersi. E con la stessa forza con la quale tutta questa maestosità si innalzava, così poi si spegne dolcemente in un rivolo di loop color pastello.
Così s'abbandona la mente a questi suoni, a questa grandiosità. Fine a se stessa? Probabilmente sì. Ma, lungi dall'essere un difetto, fa semplicemente sognare. Così il sogno tanto è effimero, tanto è breve. Di tutto il resto poco importa. Giocano a livelli altissimi, i Fuck Buttons, fondono gli elementi, li ribaltano e ne ottengono output chirurgici. "Slow Focus" è il tentativo di concepire musica per la mente. Col risultato d'aver ottenuto forse altro. Né più né meno che musica per allargare lo spazio.
Power dà un seguito al suo progetto con Dumb Flesh (2015), con cui si arrende senza troppi compromessi a un'estetica massimalista che sembra intenzionata a catapultarci verso una trance immediata: loop incalzanti, quasi sempre imbastiti su percussioni sfacciatamente ballabili e giri di synth che richiamano le incursioni più cupe di iamamiwhoami (“Atrophies”, “Double Cross”). Le uniche note sinistre sono le voci deformate, inumane che emergono dai densi flussi delle tracce. Solo con la conclusiva “Detritus” ritroviamo la matrice rumorista di Power, con un soundscape corrosivo che deborda in una cavalcata implacabile – episodio che avrebbe senz'altro potuto figurare nella tracklist di “Slow Focus”. Un'esperienza auditiva esaltante, che nel rimando tematico dell'artwork soddisfa l'idea di una corporeità caotica ma tangibile, come quella di un dancefloor umido e palpitante. A ben guardare, però, gli espedienti adottati sono fin troppo comodi: Power non si prende il disturbo di costruire atmosfere montanti, andando dritto al punto con attacchi stordenti da dj-set e privandoci così di un abbandono graduale e profondo, più efficace perché realmente sviluppato sulla lunga durata. In poche parole, “Dumb Flesh” si ferma alla sensazione epidermica, per quanto allettante nella sua libera e subitanea manifestazione.
L'altra metà del cielo, Andrew Hung, debutta con i due Ep Rave Cave Level 1 (2015) e Rave Cave Level 2 (2015) e poi con la colonna sonora per The Greasy Strangler (2016), in buona sostanza una raccolta di sketch bambineschi techno-pop e hip-hop a base d'elettronica cheap e filtro vocale all'elio.
A distanza di "soli" due anni, ritroviamo il buon Benjamin in forma smagliante, e ancora una volta tra i nomi di punta della label newyorchese, ma con un nuovo, intrigante traguardo da raggiungere: stravolgere tutto, o quasi. World Eater terzo Lp in sei anni, è innanzitutto ribaltamento. Un vero e proprio assalto frontale, come da ringhio in copertina, il cui intento primario è quello di stravolgere la proverbiale pacatezza di un producer dal sound elettronico mediamente teso al raggiungimento di un’estasi sensoriale limpida e celeste, appannaggio di un'insolita collera, evidentemente fin troppo trattenuta negli episodi precedenti. L’album si presenta come un vero e proprio concept sul destino dell’umanità visto attraverso le manopole di sintetizzatori in preda ad una delirante astrazione, una sorta di horror cinematico stracolmo di bordate industrial (“Rhesus Negative”), cavalcate electro sudicie e assassine (“The Rat”). Ci sono le sassate, le pause chilly, le decostruzioni armoniche da contrasto al climax disturbato. Certo, resta il contesto folle da cui inizialmente è davvero difficile venirne a capo. Ma dopo un paio di ascolti tutto comincia ad assumere una sua compattezza, una propria direzione.
Benjamin John Power ha dunque cercato di esporre per la prima volta nella sua carriera solista qualcosa di estremamente "intimo" e indecifrabile, qualcosa a metà strada tra la collera e il sogno, l'ira e la quiete, l'istinto e il cuore. E ascoltando le sette tracce di questo suo incredibile terzo album, non possiamo che confermare l’eccellente resa di tale scopo.
Riposti i panni dell’agitatore e del provocatore kitsch con il trascurabile Animated Violence Mild, uscito nel 2019, Benjamin John Power nel 2021 prova ad immergersi nel cosmo con un concept da due suite intitolato In Ferneaux, fino a raggiungere una dimensione trascendente, finendo per risultare, magari inconsapevolmente, ora Reinhard Lakomy, ora un campionatore di suoni ambientali di un’etichetta nerd a caso alla ricerca del proprio io. Un mix sulla carta insolito, in cui il musicista inglese mira a "gestire la miseria sulla via della benedizione", come dichiarato in sede di presentazione. E per farlo individua due fasi da 20 minuti circa: “Phase I” e “Phase II”. La prima metà che di fatto costituisce l’opera è proprio quanto esposto poc’anzi: fuga in scia progressive electronic alternata a rumori cosmici di fondo che mirano al raggiungimento di una realtà parallela. Qualcosa a metà strada tra, appunto, l’inferno e il paradiso.
L’altra metà del piatto, “Phase II”, scorre invece via tra una partitura new age e un improvviso tonfo metallico. Squarci sonici che si aprono all’improvviso, in un saliscendi repentino tra cielo e terra. E' un andirivieni di sensazioni contrapposte che muta in tribalismo nella terza parte, tra urla a caso e lamenti assortiti, prima di rielaborare musicalmente il proprio immaginario stracolmo di effetti contrastanti.
“La miseria e la benedizione sono una cosa sola” chiosa Power. Un messaggio antico che il producer traduce alla propria maniera, con risultati a tratti altalenanti, in un concept album intimo e sfuggente. In Ferneaux è in definitiva un'immersione sonora tra il mondo dei demoni e quello degli angeli a monte ambiziosa e solo in parte pienamente riuscita a valle.
*contributi di Michele Palozzo ("Dumb Flesh"), Giuliano Delli Paoli e Angelo Molaro ("World Eater", "In Ferneaux")
FUCK BUTTONS | ||
Let's See If There Are Any Ghosts (Ep, self, 2006) | 7 | |
Street Horrrsing (Atp, 2008) | 7.5 | |
Tarot Sport (Atp, 2009) | 7,5 | |
Slow Focus (Atp, 2013) | 8 | |
BLANCK MASS | ||
Blanck Mass (Rock Action, 2011) | 7 | |
Dumb Flesh (Sacred Bones, 2015) | 6,5 | |
World Eater (Sacred Bones, 2017) | 8 | |
Animated Violence Mild(Sacred Bones, 2019) | ||
In Ferneaux (Sacred Bones, 2021) | 6,5 | |
ANDREW HUNG | ||
The Greasy Strangler (Death Waltz Recording Company, 2016) | 5 |
Bright Tomorrow (singolo tratto da Street Horrising) | |
The Red Wing (singolo tratto da Slow Focus) |
Sito ufficiale | ||