Quando un artista del calibro di Christian Fennesz torna a incidere è quasi sempre perché ha qualcosa di importante da dire, un altro tassello da aggiungere in un percorso artistico ormai duraturo e costellato di spunti evolutivi. Simili premesse sono ancora più valide in questo caso se si considera che, ad eccezione del non riuscitissimo tentativo di ibridazione ambientale racchiuso nella collaborazione dello scorso anno con Ryuichi Sakamoto ("Cendre"), il quarantaseienne austriaco non licenziava un lavoro interamente a suo nome da "Venice", risalente a ben oltre quattro anni fa.
Proprio dalla linea tracciata dall'album precedente Fennesz trae spunto per il nuovo "Black Sea", e lo fa alla sua maniera, ovvero introducendo ulteriori quanto graduali elementi di discontinuità nella sua musica, come sempre curatissima e pullulante di vitalità. Se già "Venice" aveva segnato un passo importante verso l'abbandono del glitch,in favore di sonorità più orchestrali e cinematiche, "Black Sea" sembra preludere a un definitivo orientamento verso derive di chiara matrice ambientale, tutt'altro che improntate a una statica environmental music, ma proiettate verso variazioni continue, prodotte da un'instancabile manipolazione sonora, che contempla frammenti sintetici, chitarre processate, retaggi rumoristici e anche rilevanti inserti acustici.
Come evocato dal titolo, l'album è un'immersione lenta ma inesorabile nelle profondità di una marea densa, oscura, scossa da moti incessanti, esemplificati a dovere già dalla title track d'apertura, lungo i cui dieci minuti increspature rumoriste si sposano con iterazioni acustiche sospese su frequenze modulate, che ora scolorano in placidità ambientali, ora si innalzano in drone appena distorti e sciabordii lievemente dissonanti.
In coerenza con la monolitica traccia iniziale, l'album scorre come un flusso cangiante, nel quale Fennesz sembra divertirsi a inserire un'incredibile varietà di elementi, filtrandoli, frammentandoli e riassemblandoli in forme sempre nuove, fino a trasformarne la stessa essenza, tanto che non sempre risulta intuitivo discernere l'origine dei suoni. Lavorio chitarristico e fragili arpeggi acustici, organo e prepared piano si rincorrono infatti in un impianto sonoro in continua trasformazione che, ormai spogliato di ogni enfasi percussiva, demanda a rade distorsioni sintetiche i pochi passaggi ruvidi dell'album. Anzi, proprio nella parte centrale e in quella conclusiva del lavoro, Fennesz dimostra una spiccata propensione alla ricerca di un equilibrio ambientale a prevalenza elettroacustica, che rideclina la definizione stessa del genere, sfociando in cammei acustici mai così pronunciati ("Grey Scale", "Glass Ceiling") e in una sorta di "ambient orchestrale", plasmato nei solitari rilanci armonici che disegnano il vuoto inafferrabile di "Vacuum" e articolato con maestria nella romantica sinfonia "Glide". Quest'ultima - che vede anche la partecipazione dello sperimentatore neozelandese Rosy Parlane - può esser considerata la composizione più rappresentativa di tutto il lavoro, col suo dipanarsi per oltre nove minuti, lungo i quali sottili distorsioni prendono a tratti il sopravvento su un substrato di toni e rumori, prima di dissolversi in un crescendo rilucente, che coniuga alla perfezione incedere magmatico e rapimento onirico.
Complesso e raffinato, ma niente affatto inaccessibile, "Black Sea" è anzi un lavoro con tutte le carte in regola per avvicinare nuovi proseliti alle infinite esplorazioni dell'artista austriaco, delle quali contribuisce ad ampliare ulteriormente gli orizzonti, sancendo al contempo un significativo sviluppo tanto in termini di fisionomia sonora che di modalità compositive.
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01/12/2008