Fennesz

Fennesz

Il tramonto della disfunzione

L'austriaco Christian Fennesz è stato, assieme ad altri musicisti legati all'etichetta Mego, tra i massimi esponenti dell'universo glitch, prima della sua progressiva conversione ad un ambient music elettroacustica dai caratteri incredibilmente personali. Ripercorriamo la sua rivoluzione elettronica attraverso tutti i suoi progetti

di Matteo Meda

Premessa: L'estetica della disfunzione

Quella che può essere definita la rivoluzione post-noise si caratterizza per la nascita di una vera e propria estetica nell'applicazione e trattazione dell'elemento rumoristico nella musica elettronica: dallo strabordare prepotente e quasi cacofonico di tale elemento nel cosiddetto harsh-noise, esso muta forma ereditando il carattere enoiano della simbiosi ambientale e applicandolo, anziché tra musica e concetto, all'interno della musica stessa, passando da assoluto protagonista e indiscusso perno a elegante e lussuoso corredo di strutture cicliche, devote invece alla corrente minimalista. Il genere che ne deriva prende il nome di glitch, ovvero un termine del linguaggio elettronico che si riferisce a un certo tipo di suono emesso da un ente lavorante e provocato da un errore imprevisto. Tale termine si ricollega a una delle principali fonti di generazione del rumore: esso è infatti volutamente causato da erronei utilizzi di software di produzione, interventi volti a "sporcare" anziché migliorare la qualità sonora, giungendo alle volte persino alla distruzione della strumentazione utilizzata.
È anch'essa una forma di musica concettuale, nella sua concezione come anche nella sua esecuzione: pulire con lo sporco, lavorare per modulare frequenze sonore provenienti da malfunzionamenti, riconsiderare questi malfunzionamenti con un'accezione diversa, ovvero quella di una maniera differente di sfruttare il mezzo, anziché quella di sfruttarlo in maniera erronea. Una ricerca all'interno della quale si nasconde uno scopo: tentare di concepire quello che viene considerato come il lato erroneo di uno strumento di produzione semplicemente come il suo lato nascosto, incomprensibile se generato casualmente ma con egual peso quando cercato.
Questo il concetto fondante della glitch-music, il cui manifesto può essere senza dubbio considerato l'album "Wohnton" dei tedeschi Oval; questa la base della sua estetica, che si svilupperà poi nel creare con i suddetti elementi qualcosa che risulti elegante, lussureggiante. È in quest'ambito che si muove la ricerca sonora di Christian Fennesz, che, dopo aver contribuito a dare vita al glitch ed esserne divenuto alfiere, ha proseguito il suo viaggio all'insegna di un progressivo abbandono dell'estetica rumoristica, culminato, in tempi recenti, in un ricongiungimento tra la sua stessa creazione e una delle sue principali fonti d'ispirazione, ovvero l'ambient music.


Capitolo 1: The dark side of the guitar

Christian FenneszA differenza della maggior parte dei suoi colleghi, contemporanei e predecessori, l'austriaco Christian Fennesz è, in primis, musicista e artista dal training classico: dall'età di otto anni ha studiato in conservatorio, diplomandosi in quello che diverrà il suo strumento, la chitarra. A ciò, nel suo personale bagaglio si aggiunge la frequentazione dell'accademia di Belle Arti. Le sue prime esperienze musicali sono, a dire il vero, quasi tutte in performance live, a sostegno di altri musicisti: a incrociare la sua strada fu inizialmente il duo Peter Rehberg-Jim O' Rourke, rispettivamente uno dei più impegnati sperimentatori del sottobosco austriaco (che lo "traghetterà" presso la label Mego, di sua proprietà) e un autentico guru dell'underground americano. Con questi, Fennesz formerà poi un trio, i Fenn O'Berg, impegnati nel fondere i loro stili in un pastiche d'avanguardia elettronica improvvisata, di cui si tratta nell'ultimo paragrafo. Quest'intensa attività lo porterà a produrre, in parallelo ai suoi lavori, una miriade di album in collaborazione con alcuni tra i maggiori esponenti della scena musicale attuale e passata.


Ma Fennesz, come già detto, è innanzitutto un chitarrista. Per meglio dire, il più atipico dei chitarristi. Da quello che può essere considerato lo strumento d'eccellenza in ambito rock, l'austriaco estrae l'anima più oscura e nascosta, munendosi per quest'operazione di una strumentazione interamente digitale, composta da campionatori, processori, programmi di produzione sonora: il tutto conservato e compattato comodamente nel suo laptop. Ascoltando i suoi lavori, specialmente quelli della prima parte della sua carriera, è quasi impossibile riconoscere suoni che assomiglino anche lontanamente a una chitarra: il concetto è proprio questo, estrarre e proporre una nuova visione di uno strumento la cui estensione più radicale ricevuta in precedenza era quella dell'applicazione in ambito noise, con annessi metodi (ad esempio, le "passeggiate" di Kim Gordon).

Il debutto di Fennesz sulla scena avviene con l'Ep Instrument del 1995, uscito in edizione limitata e in solo formato vinile. Ancora distanti dall'aggregarsi definitivamente a uno stile, gli esperimenti di questo breve lavoro mostrano perlopiù le variegate forme d'ispirazione dell'austriaco: l'ambient-techno di Aphex Twin e Autechre nell'iniziale "1", i rumorismi su ritmi drum'n'bass à-la-808 State di "2" e di nuovo Aphex Twin, stavolta quello acid in "3". La conclusiva "4" è invece un inchino in contemporanea ai guru dell'ambient music, il Brian Eno più "concreto" in primis (quello di "On Land") e all'avanguardia colta (un campionamento alla Stockhausen invade e "stupra" ciclicamente il fondale sonoro mistico).

Passano due anni e arriva l'opera prima sulla lunga durata: Hotel Paral.lel è un album fondamentale per la coniazione, la diffusione e lo sviluppo del glitch. Lavoro angusto, di difficile digestione fin dai titoli (nei quali l'utilizzo quasi totale della lingua tedesca contribuisce notevolmente alla resa dell'immagine di un disco "duro"), è l'applicazione all'elettronica di quel che, anni prima, Russolo aveva importato nella musica colta.
L'apertura di "Sz" è uno strappo ad Alva Noto: analoghe onde sonore basiche vengono distrutte a suon di distorsioni e trattamenti. "Nebenraum" propone invece a modello un drone kosmische, sul quale si riversa occasionalmente con impeto ridotto un germoglio di disfunzione sonora. Seguono poi "Blok M", vicino a un pezzo di Lfo trattato fino a divenire pura contorsione di onde, i tribali gorgogli di "Santora", l'acquarello dark-ambient di "Dheli Plaza" e l'apogeo del guitar-processing fennesziano, ovvero "Fa", forse unico brano musicalmente "convenzionale" dell'intero lavoro e premonitore delle sonorità che caratterizzeranno la seconda parte della carriera dell'austriaco.
Dopo un canto funebre per congegni elettronici ("Traxdata"), nella sua seconda metà l'album si ferma su sonorità maggiormente contemplative e ambientali, anch'esse influenze nello stile del Fennesz del futuro prossimo: la breve "GR-500", "Uds", "Aus" (questo un vero possibile outtake del futuro Endless Summer) e "5" rientrano in questa categoria, debitori di un carico di nuovi suoni fuoriuscenti direttamente dalla chitarra dell'austriaco, con la fondamentale partecipazione del suo laptop e dei procurati guasti di quest'ultimo. Nel mezzo di questi acquarelli trovano spazio due brani di puro rumore, bianco e ritmato in "Sazoo", rosa e unico protagonista in "Super Feedbacker", cronaca di un guasto a un impianto Midi.
Tassello fondante per la formalizzazione delle idee precedentemente originate dai vari artisti, Mego e non (Oval, General Magic e Farmers Manual in primis), Hotel Paral.lel, benché non propriamente il manifesto del glitch come genere né il suo capostipite, può essere considerato uno dei migliori lavori dell'intero movimento, nonché il primo a compattare le intuizioni di coloro che in precedenza avevano già dato vita al genere senza però applicarne quella che diverrà poi l'estetica caratteristica.

Tra il 1997 e il 99 vedono la luce due Ep, il non pervenuto Il Libro Mio e Fennesz Plays (nel quale si diverte a violentare due capisaldi dei Rolling Stones e dei Beach Boys) e un album che contiene le composizioni utilizzate in un'installazione audio-visiva dell'artista e musicista tedesco Georg Huber, in arte Zeitlom, dal titolo Music For An Isolation Tank. Si tratta di una raccolta di collage molto più vicini alla forma musicale delle field recordings che alla rumoristica visione glitch, con occasionali sprazzi ambientali a disegnare architetture sonore complesse e intricate, composte ed eseguite con sample di origine "naturale". Da notare però il legame indissolubile che probabilmente c'era tra musica ed espressione visiva, dove era senza dubbio la seconda a dover fungere da cornice per la prima.

Capitolo2: L'astrazione concettuale

Christian FenneszNel 1999 arriva invece il secondo lavoro dell'austriaco. Primo album pubblicato con la Touch, non una casa discografica ma una vera e propria associazione impegnata nel promuovere la modernità nelle più svariate forme d'arte (fotografia, arte visiva, multimediale, musica), Plus Forty Seven Degrees 56' 37" Minus Sixteen Degrees 51' 08" segna anche il temporaneo matrimonio con il rumore allo stato puro. L'influsso del poco noto lavoro con Huber è fortissimo: registrato in un giardino allestito a mo' di studio, l'album è un primo avvicinamento al mondo delle pure field recordings nonché l'estremizzazione più corposa del glitch.
Un processo sottrattivo paragonabile a quello che mosse le invettive del primo Ryoji Ikeda si applica ora alla musica di Fennesz, e ciò si converte in una scomparsa quasi totale dell'elemento ambientale e in un'instaurazione prepotente e preponderante di ovattati sample rumoristici, trattati allo sfinimento, tanto da divenire protagonisti ancor più della chitarra dell'austriaco.
È la natura che supera la musica, l'astratto che oltrepassa il concreto, la fantasia oltre il gusto: così nascono dipinti che ritraggono la natura nella ottica soggettiva di ciascuno, come "010"; aggiornamenti delle intuizioni della coppia Eno-Byrne in "013"; le distese abissali di "014", capolavoro dell'album, dove pare di ritrovarsi davanti a un'immensa cascata o nelle profondità di un mare infinito; rimandi a un quasi-passato (quello glitch) e a un futuro che arriverà nella conclusiva "018"; ma anche puri sample di rumore, come la tempesta di vento e pioggia di "016", o la leggera brezza cristallina di "012", che fa da preambolo a una catarsi che sopraggiunge a metà brano.
Lontano da tutto e da tutti, da ogni logica e razionalità, Plus Forty Seven Degrees 56' 37" Minus Sixteen Degrees 51' 08" è l'album più sperimentale e audace di Fennesz, il più sorprendente ma anche il più "difficile": situato in una dimensione metafisica, senza la possibilità di assomigliare a niente e a nessuno, paga forse solo il prezzo del suo stesso essere "oltre tutto", ovvero di una complessità tale da portare all'isolamento.
Nel complesso, l'album risulta imparagonabile sia al debutto dell'austriaco che ai lavori che succederanno, è senza dubbio la vetta più alta della ricerca concettuale di Fennesz, anche se non di quella musicale.

I 15 minuti dell'Ep Live At Revolver riprendono gran parte delle sonorità di Hotel Paral.lel, con pochi rimandi al secondo album limitati all'utilizzo di numerosi sample. È di nuovo la chitarra l'indiscussa protagonista di questo mini-concerto, quasi ad annunciare la svolta di Endless Summer.

Altri due album in condivisione caratterizzano il 2000: il primo è un Ep live con Rosy Parlane, una delle tante punte di diamante scovate dalla Touch, artista audio-visivo neozelandese legato principalmente alla scuola ambient-dub di Biosphere e alle increspature oscure di BJNilsen, lo scopritore della terra di mezzo tra ambient e industrial.
L'Ep, oggi non più reperibile, raccoglie due brani di un'esibizione live dei due, che poco aggiungono alle rispettive carriere: fondali sonori ambientali freddi e desolati di Parlane su cui Fennesz incede con elementi glitch e l'uso della chitarra trattata.
Il secondo lavoro, intitolato Afternoon Tea, vede riuniti insieme cinque tra gli artisti più influenti del panorama sperimentale di sempre: oltre all'austriaco, collaborano un altro protagonista dell'underground come Oren Ambarchi, lo sperimentatore australiano e "allievo" di Alva Noto Pimmon, il "solito" Peter Rehberg e un vero e proprio mostro sacro della free improvisation come Keith Rowe. Una formazione con il potenziale necessario per partorire una pietra miliare del genere: due grandi promesse, due artisti affermati per le loro innovazioni e un guru che dell'innovazione stessa ha fatto il mestiere della sua vita.
Ma il risultato della collaborazione è invece piuttosto deludente, almeno rispetto alle attese: i cinque si dividono i compiti in maniera quasi perfetta, con Rowe intento a pizzicare con leggerezza la sua chitarra nel vuoto sonoro dell'iniziale "Afternoon Tea 1", Pimmon al laptop negli sporchi droni minimali di "Afternoon Tea 2", Ambarchi e i suoi glaciali soundscape protagonisti in "No Title", Rehberg a incedere nell'ambient-noise (peraltro piuttosto borderline) di "Live Tea 1" e Fennesz a chiudere, idealmente, nell'invero ottimo "Live Tea 2", ennesimo ponte tra le cavalcate glitch di Hotel Paral.lel e le distese droniche delle sue produzioni future.
Le singole prove dei musicisti non sfigurano di certo, quel che manca e che si sarebbe voluto da quest'album è la collaborazione tra le menti e gli stili dei cinque, che invece non avviene mai: forse i soli Fennesz e Ambarchi si scambiano qualche dritta nei rispettivi spazi, ma niente che vada nemmeno a lambire l'ombra di un'esecuzione condivisa. Afternoon Tea figura quindi come una semplice raccolta di cinque inediti dei rispettivi autori, che buttano all'aria la possibilità di dar vita a un trattato elettronico destinato a durare negli anni, preferendo una comoda spartizione degli spazi.

Capitolo 3: La rivoluzione estetico-musicale

Christian FenneszIl terzo album di Fennesz, Endless Summer, è una vera rivoluzione. Rivoluzione nella sua carriera e nella storia della musica elettronica. Messe alle spalle le esperienze con il glitch originario, che pure aveva aiutato non poco a coniare, Fennesz volta pagina. Ciò che prima era il fine, lo scopo (l'estetica) diviene il mezzo, lo strumento. Al suo posto, il nuovo scopo è, semplicemente, quello di qualsiasi musicista al di fuori dell'avanguardia concettuale: fare musica. Nell'accezione sia teorica che pratica della formula. Non più raggiungere un'estetica concettuale mediante un connubio tra la musica e l'anti-musica, né tantomeno la formula di parità ontologica tra errore e produzione sonora con il raggiungimento di tale estetica come elemento sostanziale; piuttosto, la musica come sostanza e tutto il resto (strumenti, software, errori, disfunzioni, rumore, melodia, ritmo) come elementi caratterizzanti, addirittura accidenti della sostanza stessa. In poche parole: l'ascesi e trasformazione di un fenomeno di pura avanguardia a verbo pop, suggellato nel riferimento a quello che Fennesz dichiarerà poi essere uno dei suoi ispiratori principali: Brian Wilson.
L'iniziale "Made In Hong Kong" è già indicativa della nuova dimensione sonora dell'austriaco: una cascata intermittente di accordi melodici di chitarra, "disturbati" alla tipica maniera del Fennesz-processing, quindi con ancora, nonostante tutto, una matrice di tipo glitch. Ma è con la title track che Fennesz scopre del tutto le carte della sua rivoluzione: un brano per sola chitarra trattata, dalle innumerevoli sovraincisioni digitali, ognuna con una diversa sfaccettatura sonora; in molte di esse, peraltro, è chiaramente distinguibile il suono puro della chitarra elettrica come mai accaduto prima. In "A Year In A Minute" i serpentoni disturbati glitch tornano d'attualità, ma con un utilizzo ancora una volta "atmosferico" e trattati in modo tale da fungere da soundscape e non più da main line. Della stessa pasta le ancestrali architetture di "Got To Move On" e i dieci minuti di certosina catarsi cosmico-melodica di "Happy Audio", mentre "Caecilia" gioca su liquidi cambi di tempo in un emozionante e toccante caleidoscopio cibernetico: è la prima volta che le sensazioni oltrepassano il concetto, e questo è un altro manifesto del cambiamento attuato da Fennesz alla sua musica.
"Shisheido" riprende lo stile della title track ed è forse la miglior composizione per chitarra trattata mai udita, un brano intimo, melodico, ancora una volta mirante all'emozione anziché al concetto, mentre "Before I Live" prima di chiudere si inchina a un minimalismo sintetico vintage e totalmente privo di elementi rumoristici. Il tutto funge da ipotetica presa di posizione di Fennesz riguardo il suo distanziamento dall'estetica dei suoi primi lavori, nonché da inchino verso il filone di compositori capeggiato da Ryuichi Sakamoto, con cui l'austriaco intratterrà una proficua collaborazione.
Colonna portante nello sdoganamento dell'intera estetica glitch, Endless Summer è il capolavoro di Fennesz e il manifesto indiscusso di un'intera generazione di sperimentatori. Il numero di personalità travolte dall'estate infinita del glitch riesce addirittura a sconfinare dal mondo della musica elettronica, come dimostrato dall'inattesa metamorfosi di un big come David Sylvian, passato dalle suadenti ed eleganti partiture dal sapore new age di "Dead Bees On A Cake" a un puro mix di elettroacustica (con tanto di collaborazione con lo stesso Fennesz), improvvisazione e cantautorato in "Blemish".

La scossa assestata da Endless Summer al panorama musicale elettronico resta tutt'altro che inosservata, e così Fennesz inizia a divenire uno dei più richiesti musicisti della scena Zero, tanto da collaborare con personalità tra loro incredibilmente diverse, non sempre con risultati all'altezza delle sue opere soliste. La prima di queste avviene in un'esibizione live dell'austriaco con Mika Vainio, la metà più sperimentale dei Pan Sonic e influente personalità nello sviluppo della scena elettronica in vari ambiti (ognuno delineato da uno pseudonimo diverso), pubblicata poi su disco in Invisible Architechture. I tempi in cui anche Vainio si ciberà delle derive del lavoro di Fennesz deve ancora arrivare e il risultato della collaborazione tra i due è uno show all'insegna di una ambient-noise più appartenente all'austriaco che al finlandese, ma distante dallo stile di ambedue e condensato su un'ambient music acida e spigolosa.
I due lunghi set (un quarto d'ora il primo, mezz'ora il secondo) sono un'ottima portata per gli appassionati, ma falliscono nello scopo di rappresentare al meglio l'arte dei due. Un'altra occasione forse sprecata per fondere le proprie potenzialità mediante la collaborazione, ma considerando il contesto live in cui essa si è sviluppata, l'opera ne esce positivamente anche come interessante divagazione delle carriere di entrambi (specialmente quella di Vainio).

Nello stesso anno arriva Wrapped Island, l'album in collaborazione con i Polwechsel, fra i protagonisti della "nuova free improvisation" inaugurata dai Necks. L'album, però, risente poco della presenza di Fennesz, e pare piuttosto essere un lavoro del gruppo per conto proprio, con il musicista austriaco intento a unirsi al coro di laptop e strumenti virtuali senza però contribuire con il proprio stile, né con la propria chitarra (non ve n'è traccia per tutto l'album).

La raccolta Field Recordings (2002) riunisce insieme un paio di inediti con brani composti per colonne sonore di film, installazioni audio-visive, il meglio delle collaborazioni e delle ospitate in album di altri artisti e l'intero Ep Instrument: un ottimo documento sul lato meno noto della prima parte di carriera dell'austriaco.
A chiudere un 2002 all'insegna delle collaborazioni arriva anche Split#15, un Ep con Main, ormai creatura a suffragio del solo Robert Hampson. Il sound di questa seconda incarnazione del fu duo (Scott Dawson, originariamente al timone con Hampson, lasciò nel 1996) non è rimasto indifferente alla rivoluzione fennesziana nei suoi soundscape isolazionisti, molti dei quali composti con l'utilizzo del guitar-processing, "disturbati" da occasionali e soffusi elementi glitch. L'Ep però, com'era avvenuto già per Light, è una "condivisione" (due facciate a testa): le composizioni di Fennesz sono tre outtake di Endless Summer (di ottimo livello, ma nel complesso inferiori a qualsiasi traccia dell'album), mentre le tre di Main non aggiungono nulla alla storia del marchio. Un'operazione evitabile, probabilmente promossa con uno scopo simile a quella del già citato Light.

Passano due anni, durante i quali l'austriaco collabora con vari artisti nella produzione di album (il risultato più notevole si ha con "Blemish" di David Sylvian con il duetto tra i due di "A Fire In The Forest" che ambisce al titolo di capolavoro dell'album), e nel 2004 viene pubblicata su cd, con il titolo Live At The LU, la registrazione di una performance di quaranta minuti, risalente al 2002 e tenutasi a Nantes, in Francia, di Fennesz e Keith Rowe.
Per la seconda volta i due incrociano le loro strade, e questa volta in maniera decisamente migliore rispetto a quanto avvenuto nell'album Afternoon Tea con il supergruppo di cinque elementi. Per quaranta minuti Rowe continua ininterrottamente a produrre suoni tra cavalcate chitarristiche, distese eteree di droni e impazziti sample che distruggono periodicamente l'unità musicale. Il tutto, prima di fuoriuscire dalle casse, passa dal laptop gestito da Fennesz, che interviene sul suono con le sue classiche tecniche di processing, sfruttando la chitarra come main line e "sporcandone" l'unità sonora, rendendo i candidi ed eterei droni mescolati a intermezzi silenziosi occasionali e allentando, restringendo e abbreviando i campioni per meglio adattarli al contesto. Il tutto senza però apportare sostanziali modifiche ai loro tipici cliché, in particolare a quelli dell'austriaco. Ciò nonostante, una collaborazione questa volta riuscita anche nel fondere, benché nella maniera più "logica" e asciutta possibile, gli elementi stilistici dei due.

Sempre nel 2003 esce anche un altro disco live, stavolta del solo Fennesz (l'edizione in vinile era già stata pubblicata un anno prima) di un concerto tenutosi in Giappone nel 2003, e intitolato Live In Japan.
Anche qui si tratta di quaranta minuti filati senza sosta di pura improvvisazione di chitarra e laptop, e il risultato questa volta è stratosferico. Un flusso sonoro continuo, in alcuni casi sognante, in altri più rumoroso: una vera e propria summa delle strade battute da Fennesz nella sua carriera, tra rimandi al glitch dei tempi che furono, escursioni estreme quasi memori di Plus Forty Seven Degrees e rilassate aperture elettro-acustiche, dove la chitarra diviene indiscussa protagonista.
In realtà, a un ascolto attento è possibile notare come a prevalere siano queste ultime, anche nei momenti maggiormente glitch: quando non è suonata direttamente, la chitarra è comunque sempre presente via sample, e il flusso sonoro, nonostante più di un rimando nostalgico al glitch della prima era, si mantiene comunque stabilmente su ovattate atmosfere melodiche e oniriche, sulla stessa strada di Endless Summer.
Live in Japan è la testimonianza di un artista efficacissimo anche nel riproporre dal vivo la sua musica, un manifesto che ripercorre la carriera di Fennesz e anche un indizio finale (Venice uscirà pochi mesi dopo) verso il progressivo allontanamento dell'austriaco dalla glitch-music.

Prima del nuovo album, c'è spazio per una nuova collaborazione con Mika Vainio, stavolta alla corte di un vero e proprio guru della storia musicale sperimentale: Christian Zànesi, attuale direttore artistico del mai defunto GRM. L'originale trio dà vita ad una GRM Experience che è interpretazione digitale e moderna della musica concreta e nel quale l'austriaco dona un assaggio di quelle sonorità pronte a ripresentarsi nel futuro prossimo. Elementi base di queste ultime sono l'eliminazione pressoché totale del puro rumore in favore di un protagonismo della chitarra trattata, incisa prima in un sottobosco atmosferico, poi anche nel disegnare linee melodiche, con l'ausilio marginale e sempre meno marcato di qualche elemento di "disturbo sonoro". Vainio aggiunge un'atmosfera minimal tipica della sua carriera solista, udibile soprattutto nel soundscape ritmico dei brani, il tutto sotto l'occhio vigile di Zànesi, il cui contributo è maggiore in fase di produzione che di esecuzione. Le porzioni di musique concrète si uniscono ai rimasugli glitch a comporre il fondale sonoro su cui si intrecciano i ritmi minimal del finlandese e le distese guitar-processed dell'austriaco.
Riuscito in maniera impeccabile, questa volta anche nel fondere le tendenze artistiche dei tre partecipanti, GRM Experience funge da ottima e sostanziale anticipazione per il successivo capitolo della carriera principale di Fennesz..

Capitolo 4: Say our goodbye to glitch

Christian FenneszLa continua evoluzione che ha caratterizzato la carriera di Fennesz prosegue anche nel suo quarto lavoro, intitolato Venice. La sua musica non è più estetica, non è più nemmeno glitch com'era ancora fino a quel momento: protagonista assoluta e indiscussa è ora la chitarra, che fino a prima era solo un mezzo, uno strumento al pari del laptop o dei samples. Ora sono questi ultimi ad adattarsi, a stravolgersi e stravolgere l'elemento centrale, ovvero le ancestrali aperture, ora ambientali, lente e profonde, "marine", ora più "terrene", sfaccettate, disturbate, ma da sonorità sempre più sensuali, dimesse e semplici, e sempre meno rumorose e spigolose.
L'iniziale "Rivers Of Sand" è già manifesto dell'ennesimo, nuovo volto dell'austriaco: una distesa armonica eterea e sognante di treated-guitar domina la scena, crescendo fino ad implodere. Sulla stessa strada prosegue il cammino di "Chateau Rouge", sorta di dolce carillon chitarristico circondato da un landscape ovattato e compatto nelle sue profondità, "disturbato" ma solo in superficie. "City Of Light" accentua i toni oscuri mantenendo costante e intatto il flusso sonoro, questa volta maggiormente colpito da lussureggianti smagliature rumoristiche: è la quiete introspettiva del mare notturno a contrastare le scialbe luci della città.
I venti secondi di tappeti distorti di "Onsra" aprono le porte al muro di vibrazioni da pelle d'oca del capolavoro "Circassian": un vulcano in eruzione irrefrenabile che anticipa di fatto le costruzioni monumentali del Tim Hecker di "Ravedeath, 1972". "Onsay" è un breve gioiello, un drone solitario dilatato in tutte le sue più intime velleità, mentre "The Other Face" riprende dove "City Of Light" aveva lasciato. "Transit" è l'elemento a sé stante, la voce fuori dal coro. Il protagonista qui è David Sylvian, che offre la sua voce calda e profonda a una base elettronica soffusa e quasi silenziosa, inframezzata da rarefatti interventi "concreti", che esplode prepotentemente durante il ritornello, avvolgendo l'ugola dell'inglese, per poi tornare a inabissarsi. È la musica che s'inchina alla poesia, di due musicisti all'apice della loro creatività, e ad essa si fonde in maniera eccezionale. È la prima "canzone" di Fennesz, formato a cui si riavvicinerà solo dieci anni dopo a livello strumentale. "The Point Of It All", a sua volta, procede sulla stessa linea d'onda di "Circassian", mentre "Laguna" è un pezzo per chitarra pura, per la primissima volta quasi priva di trattamenti, solare, nostalgico, pittoresco. "Asusu", altro intermezzo concreto, spezza il ritmo prima della conclusiva "The Stone Of Independence", che chiude il cerchio all'insegna di un temporaneo e ben poco nostalgico ritorno al sound del passato, tra cambi di tempo, rumorismi in convivenza volutamente forzata con la melodia e un tenore claustrofobico di fondo.
Al quarto album, Fennesz sforna l'album della maturità sonora ed emozionale, il primo, vero dipinto dopo le astratte architetture degli esordi e l'iperbole post-contemporanea di Endless Summer.

Dopo il secondo exploit della carriera, il compositore austriaco riprende l'ormai abituale filone di collaborazioni esibendosi dal vivo con uno dei suoi mentori nell'evoluzione dronico-ambientale, Ryuichi Sakamoto. Il risultato è l'Ep Sala Santa Cecilia, uscito nel 2005, un anno dopo l'esibizione e contenente il breve live set al completo nei suoi venti minuti. I due, impegnati esclusivamente ai laptop, danno vita a un crescendo di flussi sonori dilatati ed eterei, mai scontati ma nemmeno "nuovi". Nel complesso, 20 minuti di altissima classe musicale, ma nessuna particolare aggiunta rispetto agli abituali cliché dei due artisti.

Nello stesso anno l'austriaco si ricongiunge all'amico Oren Ambarchi, all'insaziabile Keith Rowe e al guru giapponese Toshimaru Nakamura per una performance culminata nell'album Cloud, a nome Four Gentlemen Of The Guitar. Finalmente la fusione di stili e percorsi artistici riesce quasi alla perfezione: Fennesz e Ambarchi dialogano con i propri laptop riuscendo a modificare le cavalcate di Nakamura, spezzate anche dagli spigolosi interventi di Rowe. Il miglior risultato arriva nell'ora di improvvisazione denominata "Yellow Cloud", in cui le lente tessiture dei due musicisti e le partiture chitarristiche dei guru si compattano dando vita a un set equilibrato anche se forse un po' povero di guizzi.
Di nuovo niente di innovativo, ma una performance di altissimo livello e l'emozione, invero piuttosto comune nell'elettronica dei 2000, di vedere due punte di diamante del panorama moderno duettare con due dei loro maestri.

Nemmeno il tempo di rifiatare che la "solita" Erstwhile riunisce invece un quartetto di rappresentanza dell'intera scena sperimentale elettronica dei giorni nostri: due per il Sol Levante (Sachiko M e l'ex Ground Zero Otomo Yoshihide) e due per l'Austria (il Nostro e il "solito" Pita). Di nuovo un'esibizione dal vivo, registrata e pubblicata con il titolo di Erstlive 005, con Fennesz questa volta nella parte di chitarrista assieme a Yoshihide, Sachiko e Pita ai laptop. Di nuovo, niente di rivoluzionario per nessuno dei quattro, se non l'occasione, finalmente, di vedere l'austriaco alle prese esclusivamente con il suo strumento: ma a far da padroni sono, le onde sonore minimalie gli "stupri" chitarristici dei due giapponesi.

Due anni trascorrono prima che Fennesz re-incroci la sua strada con Ryuichi Sakamoto, per comporre il primo album in studio in collaborazione tra i due. Cendre prosegue con lo stesso stile mostrato nel breve Sala Santa Cecilia, ovvero una musica ambient-drone di matrtice minimalista, fluttuante e atmosferica, in parte già presentata in Venice. Se, però, nell'esibizione live l'improvvisazione poteva rendere tale stile apprezzabile, nel debutto in studio dei due era lecito attendersi un tocco di personalità superiore visti e considerati i rispettivi trascorsi. Il risultato è quindi un buon disco di atmosfere dilatate, lontano però anni luce dalle vette raggiunte dai due nelle rispettive carriere.

Capitolo 5: La (ri)conciliazione ambientale

Christian FenneszIl 2007 si conclude all'insegna di una release esclusivamente in download digitale di un brano, intitolato "A Desolate Shore A Shadow Passes By", proveniente da una session in studio avvenuta l'anno precedente. Un anno dopo, la composizione viene divisa in due parti e pubblicata in un Ep, Transition.
Quella della "maturità" fennesziana è una ricerca, come già esposto in precedenza, molto più emozionale che concettuale, ma non certo una forma di negazione del suo passato: il percorso seguito è una strada battuta totalmente all'insegna del rinnovamento, della perenne ricerca di elementi in grado di produrre nuovi stimoli, il rifiuto totale di mantenere un cliché fisso o di sposare un unico aspetto per più tempo. Una ricerca sempre in movimento, in grado di garantire ad ogni uscita qualcosa di nuovo, senza mai buttare via nulla di quanto appreso in precedenza. Il "nuovo" Fennesz è un pittore di ritratti ambientali, onirici ed evocativi, ed è soprattutto un chitarrista prima ancora che un produttore.

Prima di dare sfogo al nuovo lavoro, per l'austriaco c'è ancora il tempo di produrre un Ep con l'ennesima collaborazione, dopo quelle con Rosy Parlane e Oren Ambarchi, con un alfiere del catalogo Touch: si tratta di Philip Jeck, artista poliedrico attivo come coreografo, illusionista, attore di teatro, visual artist e autore di acquarelli a cavallo tra droni e psichedelia. Ancora una volta, però, i due non incrociano le loro strade in una collaborazione, né tantomeno nella pubblicazione di materiale inedito: Amoroso è infatti uno split in cui i due eseguono due brani del compositore Charles Matthews dedicati al capostipite del minimalismo sacro, Arvo Pärt e situabili dalle parti dell'estremizzazione drone teorizzata da Phill Niblock.

Il quinto album di Fennesz esce a metà 2008 a quattro anni dal suo predecessore e già dal nome, oltre che dalle avvisaglie dei lavori che lo hanno preceduto, si può intuire dove il disco vada a scavare. Se Venice era il raggiungimento di un punto d'incontro tra la terraferma e il mare, Black Sea è un'immersione totale negli abissi più profondi. È l'abbraccio totale dell'austriaco all'ambient elettroacustica e alle stratificazioni sonore. L'apertura della title track è eloquente: gridi di gabbiani, poi, trattati elettronicamente ma riconoscibilissimi, uno scroscio di pioggia, tuoni, fulmini e improvvisamente, l'abbraccio caldo di una coltre acquatica: l'immersione è avvenuta. Una distesa distorta di tastiere eteree, prima sporcate da campionamenti fields, poi abbandonata nel suo incedere, finché a metà brano non si spegne tutto, lasciando spazio a una chitarra e ai suoi dolci arpeggi. Poi ancora cavalcate, ricadute, il tutto in un'atmosfera di pace dei sensi.
"The Colour Of Three" prosegue variando il tema con l'incedere di treated-guitar a riempire una base dronica soffusa ed evocativa: siamo negli abissi più profondi. "In Perfume For Winter" il duetto chitarra-tastiere compone un acquarello che raggiunge vette emozionali elevatissime, per nulla pensabili ai tempi di Hotel Paral.lel. La chitarra ritrova una dimensione di assoluta protagonista in "Grey Scale", accompagnata da un pianoforte digitale e da una silenziosa cornice di distorsioni che fa capolino occasionalmente, giusto per rafforzare lo scheletro melodico.
Nei dieci minuti di "Glide" un drone si interfaccia con un ritmo quasi inudibile e una nebbia cosmica di lievi distorsioni, prima che la melodia torni nuovamente, soave e sensuale, a colorare il tutto: la presenza di Rosy Parlane si sente proprio nella "nebbia soffusa", ma anch'egli pare qui doversi adattare al nuovo cameo di Fennesz, con il risultato di assomigliare più di tutti a Biosphere. "Vacuum" è invece una parentesi di nuovo quasi interamente acustica, lo spazio è esclusivamente per la melodia in un ennesimo duetto tra tastiere e chitarra e "Glass Ceiling" è un altro ritratto di ambient acustica, con l'elettronica limitata allo sfondo. La conclusione di "Saffron Revolution", con il suo inchino al Robert Rich di "Geometry" e le sue fluide distese catartiche, culla per gli ultimi cinque minuti, trasportando in un universo parallelo, prima di concludersi sulle note di una chitarra acustica.
Ennesimo prodotto di incredibile caratura, Black Sea completa la trasfigurazione di Fennesz. Album di ambient music in tutto e per tutto, senza la minima traccia di tutto ciò che v'era prima, è il prodotto più umano, intimista e personale di un musicista in continuo movimento.

Prima della fine dell'anno, l'austriaco collabora di nuovo con metà dei Polwechesel, ovvero Martin Brandlmayr e Werner Dafaldecker, per Till The Old World's Blown Up And A New One Is Created. Benché possa apparire incredibile, tre punte di diamante della scena elettronica producono un lavoro intimo e prevalentemente acustico, di nuovo adagiato su strutture ambientali. Fennesz, in particolare, lavora quasi esclusivamente in veste di chitarrista, mentre a Dafaldecker sono affidate le aperture sintetiche e il corposo fondale di baso e a Brandlmayr sporadici interventi alla batteriai.
Nel suo piccolo, un lavoro riuscitissimo, seppur non certo innovativo, e ricco di sfaccettature, ad ennesima conferma dello stato di grazia sia dell'austriaco che degli altri due musicisti.

Un anno più tardi arriva per Fennesz la prima collaborazione al di fuori dell'ambito elettronico. I partner, questa volta, sono il compianto Mark Linkous e i suoi Sparklehorse, fra i nomi di punta del panorama lo-fi americano e la cui storia si concluderà tragicamente con il suicidio del leader l'anno successivo. Il secondo incontro fra i due dopo quello per l'intervento su "Dreamt For Light Years In The Belly Of A Mountain" partorisce il quindicesimo capitolo della saga In The Fishtank, un lavoro atipico per entrambi, originalissimo e di difficilissima inquadratura. Le catarsi ambientali e droniche dell'ultimo Fennesz si trasformano a tratti in architetture orchestrali quasi à-la-Sigur Ros, in altri si avvicinano a forme tipiche della musica da camera. Linkous, dal canto suo, si alterna tra chitarra, pianoforte, violino e parti vocali, alle volte trattate elettronicamente e quasi impercettibili ("Goodnight Sweetheart"), altrove protagoniste della scena (la ballata acustica post-rock "If My Heart", anch'essa pervasa da echi degli islandesi).
Ogni brano presenta caratteristiche diverse dall'altro, a formare un lavoro eclettico e variopinto, che proprio della varietà stilistica fa il suo punto di forza: senza alcun dubbio la miglior collaborazione nella carriera di Fennesz.

Il 2010 si caratterizza per l'uscita di Knoxville, che vede il compositore austriaco circondarsi nuovamente di altri due nomi chiave dell'improvvisazione sonora: David Daniell, figura d'importanza centrale nella scena sperimentale elettroacustica americana, e Tony Buck, alfiere australiano del free-jazz nonché membro dei Necks. Resoconto di una performance (manco a dirlo) totalmente improvvisata, l'Ep è una stratosferica testimonianza della fusione degli stili dei tre, più vicino ai lavori del trio Fenn O'Berg che a quanto partorito dai tre protagonisti nelle rispettive carriere. Un ibrido d'avanguardia, dove le chitarre di Fennesz e Daniell s'interfacciano a meraviglia con il ritmo dettato da Buck, in grado di variare continuamente.
Nei suoi momenti più ambientali ("Antonia"), in quelli più mutevoli ("Unüberwindbare Wände") ma anche nella matematica cacofonia della conclusiva "Diamond Mind", la performance si mantiene su livelli altissimi.

Christian FenneszNel 2011 Fennesz torna a distanza di tre anni dall'ultima uscita solista con un Ep, Seven Stars, una prosecuzione della ricerca stilistica iniziata con Black Sea. L'elemento nuovo nelle sue quattro tracce è l'utilizzo di melodie per la prima volta orecchiabili: dove quest'ultimo s'immergeva in un abisso profondo, "Seven Stars" si stabilizza in un universo etereo e solare, eliminando quasi totalmente gli elementi dark presenti nel precedente album, in favore di uno sviluppo delle trame più vivaci e positiviste. La culla di archi sintetici di "Liminal" rappresenta senza dubbio il brano più solare della carriera di Fennesz, "July" si delinea come un viaggio tra le stelle spaziali con qualche debito ai corrieri cosmici, "Shift" è di nuovo una fluttuante distesa ambientale, mentre la title track è una vera e propria song elettronica, con tanto di ritmo in 4/4 a battere il tempo.
Seven Stars
semplifica (pur senza banalizzarlo) al massimo lo stile del "secondo Fennesz" portandolo a sfiorare i confini del post-rock e suggerendo un nuovo interesse verso il pop, già coltivato in Endless Summer e pronto a ripresentarsi nel giro di quattro anni.

Verso la fine dell'anno, quasi a sorpresa, per la terza volta vede la luce un lavoro a quattro mani con Ryuichi Sakamoto. Flumina prosegue di nuovo nel medesimo stile che già aveva caratterizzato le due precedenti uscite, senza apportare cambiamento alcuno, ma alzando notevolmente il livello di trasmissione emotiva dei suoi brani. Il protagonista indiscusso, e unico vero elemento "nuovo", è il pianoforte del giapponese, mentre le trame elettroniche intrise di droni dell'austriaco sono pennellate nel landscape sonoro. Di nuovo i due dimostrano la loro perfetta intesa e il pianoforte di Sakamoto riesce a penetrare in maniera diretta e sublime anche nell'ascoltatore meno attento. Se le due precedenti collaborazioni avevano dato vita a due album di musica ambient-dronica che pareva trasmettere poco, Flumina, pur non portando nessuna evoluzione nello stile di entrambi, riesce nell'intento di condurre l'ambient a dimensioni di spiritualità ed evocazione nuove forse per entrambi, configurandosi senza dubbio come il migliore tra i tre dischi composti assieme.

Prima dell'arrivo del suo sesto lavoro, Fennesz apre il 2012 con una chicca riservata ai fan: una composizione risalente al 2001, intitolata Liquid Music, scritta in occasione di un'installazione multimediale di Jon Wozencroft (fondatore della Touch Music) ma non utilizzata né tantomeno commercializzata sino ad oggi. La pubblicazione avviene su chiavetta Usb, un nuovo formato di diffusione che la Touch aveva già in precedenza sperimentato con altri suoi artisti. Musicalmente, la composizione rispecchia appieno il Fennesz del 2001, ovvero quello di Endless Summer: una partitura di chitarra trattata (quasi dronica) "sporcata" dal periodico ingresso di effetti glitch diversi e ritmata mediante le tecniche di modifica dell'amplificatore sonoro.

E pochi mesi più tardi, dopo una sosta di ben quattro anni, l'austriaco torna a pubblicare un disco solista sulla lunga distanza. Si tratta della colonna sonora di AUN - The Beginning And The End Of All Things, film del regista Edgar Honetschläger. Nell'album, che risente in maniera decisiva della sua particolare natura, Fennesz si focalizza su un'ambient fluida e melodica, ricca di interventi acustici e che fa di una sublime delicatezza il suo punto focale. La cura dell'estetica è ancora elemento di prim'ordine: le rarissime macchie di rumore vengono iniettate strategicamente e con minuzia ad amalgamarsi con il silenzio, prima di venire sommerse dall'incedere degli strumenti.
Ne nascono gioielli che condensano in pochi minuti un'intensità stratosferica, come l'ouverture di "Kae" (che riprende esattamente dove "Seven Stars" aveva lasciato), le gocce di resina chitarristica di "Sekai", l'astratto ciclo minimal di "Mori", l'apertura paradisiaca di "Nemuru", l'acustica e struggente "Nympha" e la quieta livrea candida di "Himitsu", un inchino ai flussi silenziosi di Pan American. Negli episodi più estesi il Nostro si abbandona invece a partiture sconfinate, come nel viaggio nel cosmo di "Euclides", nell'ovattata e stratificata evocazione obmaniana di "Sasazuka", nel ridondante scorreredi "Shinu", smorzato qua e là da glitcherie mai così dolci e trattenute, e nella conclusiva e trascinante "Hikari". Un discorso a parte lo meritano la lunga e multiforme "AUN40", che parte limpida per poi sporcarsi e lanciarsi nello spazio, e la più breve e sperimentale "AUN80", mentre le tre collaborazioni con Ryuichi Sakamoto provengono tutte da Cendre, risalente al 2007. Trattasi di un'interpretazione deliziosa di un ambient music dalla classe sopraffina.

Preannunciato nel 2013 da un curioso remix di Fa, il fantomatico frammento di chitarra trattata nascosto fra i muri di disfunzioni di Hotel Paral.lel, il settimo album in studio di Fennesz segna il suo sorprendente ritorno su Editions Mego. Si tratta curiosamente anche del suo disco meno chiacchierato, sebbene pure del più atteso, considerata la distanza di ben sei anni da Black Sea. Dedicato alla città natale, Bécs è sempre Fennesz, non è il nuovo Endless Summer (come annunciato in pompa magna dalle cartelle stampa) né una svolta profonda e vigorosa come fu il suo predecessore. Si tratta, semmai, di un lavoro da ascoltare col cuore e senza troppa fatica, un viaggio fatto di immagini e suoni docili, quelli sì effettivamente più vicini al pop strumentale post-moderno che nell'Estate Infinita del 2001 aveva fissato i parametri più evoluti e poliglotti dell'estetica glitch. Di disfunzioni, però, ce ne sono di nuovo poche, iniettate col contagocce e sempre al servizio della chitarra, anch'essa privata quasi ovunque dei trattamenti, libera di inscenare praterie melodiche. La più soleggiata di queste è quella che su “Static Kings” è chiamata ad aprire le danze ricamando su origami elettronici e colorando così il basso inconfondibile di Werner Dafeldecker e le ritmiche spezzate di Martin Brandlmayr, primi due tornati a far da spalle all'austriaco dopo l'esperienza congiunta di Till The World... La stagione che meglio rappresenta le atmosfere del disco è però la primavera: mai così intensa come sul capolavoro “Liminality” rielaborato dall'ouverture di "Seven Stars", passeggiata di dieci minuti che attraversa una spiaggia selvaggia sotto la guida degli arpeggi, embrionali nell'inscenare uno schizzo quasi orecchiabile (!) prima e dispiegati all'inverosimile, in dialogo con la soffusa ritmica di Tony Buck e sciami di dolce rumore poi. Quest'ultimo si fa protagonista pure nel quadretto della title track, fotografia sbiadita dai graffi dove a svettare è un pizzicato tutto nuovo, preambolo ad un fondale di archi sintetici quasi cinematografico per una sorta di “Circassian” limata e sorridente. L'intensa e sofisticata “The Liar” si classifica come l'unico episodio dall'atmosfera notturna e in grado di richiamare il passato glitch, seppure diluito in un solco più simile ad un post-rock sporco e granuloso. L'altro mezzo richiamo al passato è “Sav”, gioiello costruito sulle architetture analogiche di Cédric Stevens che torna ad immergersi nelle profondità abissali di “Black Sea”. La sinfonia sintetica di “Pallas Athene” è il perfetto contraltare a garanzia dell'equlibrio, levigato e morbido concentrato di pura ambient music che rassimila Helios e le sue esplorazioni più fini, andando a fare il paio con la chiusura bucolica e romantica, quasi folk di “Paroles”.
A quasi quindici anni dal capolavoro che sentenziò come anche il glitch potesse essere pop, Bécs non è altro se non il “disco pop” di Fennesz, stavolta per davvero. L'ultimo approdo di un musicista il cui percorso prosegue nell'evolversi senza interruzioni né, ad oggi, passi falsi.

Prima di fine anno, l'artista austriaco trova il tempo di portare a compimento un altro progetto "minore" che curiosamente riesce a guadagnare ben più visibilità del meritevole Bécs. Trattasi di un Ep intitolato Mahler Remixed, cui oggetto sono appunto alcuni samples presi da sinfonie del compositore ceco riutilizzati come tasselli attorno a cui Fennesz ricama con la chitarra. Nonostante la scarsa fedeltà all'intento iniziale, il risultato sono quattro suite dilatate che si candidano senza mezzi termini a frutti più ambient dell'intera carriera dell'artista. Il crescendo della prima, articolato su flussi di droni nei primi dieci minuti e su un'evanescente ingresso della chitarra trattata nei restanti nove, traccia sostanzialmente un bilancio dell'arte di Fennesz da Venice in poi, laddove il Nostro si è specializzato sempre più nel suggellare immagini, sensazioni e paesaggi interiori ed esteriori attraverso il binomio chitarra-laptop. Più votato alla ricerca dell'etereo e all'oscillazione pieno-vuoto, il secondo movimento ripropone magistralmente quelle stratificazioni di droni e rumore divenute trademark del suo gergo sonoro. I due movimenti conclusivi, infine, viaggiano diretti verso l'isolazionismo intrecciando le proprie traiettorie con l'asse organico di casa 12k: un approdo per certi versi naturale, quasi ovvio, ma non per questo privo di fascino. Decisamente meno riuscita, invece, la partecipazione al compendio discografico firmato David Sylvian del tour di inizio anno a nome Kilowatt Hour, assieme anche a Stephan Mathieu. L'album, intitolato There's A Light That Enters Houses With No Other House In Sight non fa che trasporre gli esiti di un progetto deludente in ogni sua parte privo di una reale identità sonora, in cui flussi spenti e svogliati di droni glaciali e plastici fanno da sfondo ai fastidiosi spoken ad opera del poeta Franz Wright.

Sono altre due collaborazioni a comporre il contributo discografico al 2015 musicale dell'artista viennese. La prima lo vede rientrare nell'ambizioso progetto AirEffect del duo torinese OZmotic, che con queste parole descrive l'operazione: "si tratta di una sonorizzazione astratta. Un lavoro che mira a riprodurre un'ipotetica scatola nera in grado di immergere l’ascoltatore nell’era antropocenica, ovvero quella in cui viviamo ora e nella quale all’uomo e alla sua attività sono attribuite le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche". Il risultato è un curioso comeback ai suoni dell'elettronica viennese di fine Novanta, quella stessa celebrata da Mego qualche mese dopo con la reissue completa di "Fridge Trax". Si ritorna dunque a quell'elettronica algida e concreta costruita via trasfigurazioni al laptop di campioni sonori e field recordings che ha fatto da base alla (ri)conversione del laptop e dei suoni informatici e meccanici da esso prodotti in mezzi espressivo, sostanzialmente la radice prima del glitch. Il disco regge bene l'impatto concettuale ma manca proprio laddove la vera rivoluzione Mego si consumò nei Novanta, ovvero nella capacità di sussistenza autonoma della materia sonora, qui totalmente asettica e priva di una particolare forza espressiva se estrapolata dal contesto formale.

La seconda collaborazione vede invece Fennesz intrecciare i King Midas Sound in un incontro sulla carta azzardato e tanto affascinante quanto, senza dubbio, rischioso. In Edition 1, disco congiunto dei quattro, tale componente di rischio sia stata di fatto aggirata, via un ripiego su formula piuttosto sicura e un'iniezione col contaggocce dei contributi del maestro viennese, che si limitano sostanzialmente a qualche ronzio di chitarra qua e la'. Si tratta sostanzialmente di un disco dei King Midas Sound con Fennesz chiamato a fornire una serie di contributi neanche troppo decisivi. Alla prova dell'ascolto, di per sé, il disco se la cava egregiamente, caratterizzandosi rispetto alla produzione passata di Kevin "The Bug" Martin e Roger Robinson per una generale tendenza al beatless e un ulteriore incupimento delle atmosfere di tipica marca KMS. L'inquietudine spezzata e dilatata del passato lascia spazio nel primo singolo "Waves" ad un incubo concreto, fatto di immagini e visioni mai così definite. L'alone di mistero che aveva avvolto costantemente il sound del trio si dirada anche nella sospensione onirica di “Lighthouse”, il cui arpeggio in loop rappresenta una delle poche tracce della presenza di Fennesz. I passaggi più tendenti alla memoria di Bristol, corrispondenti alle ottime “On My Mind” (vedi alla voce Bowery Electric) e “Loving Or Leaving” (da autentica “Pre-Millenium Tension”) rappresentano a conti fatti quanto di meglio il disco ha da offrire. A discapito persino del terzetto conclusivo, che si addentra nei meandri dell'incubo oltrepassandone i connotati sinistri: dall'elegantissima “Above Water” al finale squisitamente dark-ambient di “Our Love” passando per la decostruzione pop di “We Walk Together”, dove Kiki sembra davvero ricalcare le orme di Inga Copeland. Assume così un senso a posteriori anche l'introduzione tra silenzi, armonie sottovoce ed accenni concreti di “Mysteries”. Un pezzo che se se in partenza poteva apparire come l'ultimo baluardo di congiunzione con l'arcano sonoro trademark del passato recente targato KMS (merito anche del titolo, indubbiamente), ad ascolto concluso risulta forse ancor più facile da afferrare con mano e decifrare. Un disco nel complesso valido che però ha due difetti sostanziali e importanti: lo svelare, di colpo e senza preavviso, tutti gli ingredienti della ricetta di Martin e Robinson, e l'annunciare una collaborazione che di fatto, sul pratico, non esiste.

Il 2015 segna anche il ventennale dall'uscita di Hotel Paral.lel, occasione irrinunciabile per tracciare un bilancio della carriera di un artista che non ha mai davvero smesso di correre alla ricerca di nuovi stimoli creativi. Nel suo poliedrico e mutevole percorso, che lo ha portato da profeta del (post)-glitch a caposcuola di una generazione tutta, la parabola centrale di Fennesz (ovvero quella legata ai suoi lavori propriamente detti) continua oggi a brillare come una delle più intense, straordinarie e decisive per la storia contemporanea della ricerca musicale elettronica.

A cinque anni di distanza da Bécs, pur confermandone le coordinate espressive, i quattro brani coerentemente raccolti in Agora nascono da condizioni simili a quelle degli esordi sperimentali dell’artista austriaco. Ritrovatosi per qualche tempo senza il suo regolare studio, Fennesz ha dovuto trasferire la strumentazione nella sua abitazione viennese e, una volta allestito l’essenziale, ha registrato alcune tracce nel completo isolamento delle sue cuffie. È un’immagine intima e fortemente legata all’essenza del fare artistico, pratica eminentemente privata di immaginazione e susseguente messa in atto, avulsa dalla percezione e dall’attenzione di altri soggetti.
Quel che ne risulta è uno tra i viaggi più immersivi sinora prodotti, tanto elementare quanto evocativo nel suo fulgido espressionismo sonoro. Come delicate stratificazioni cromatiche di una superficie affrescata, egli quasi sempre giustappone linee armoniche ad altre più aspre e incolori: sono le due anime della sua chitarra elettrica, la cui ombra si trascina dietro il pizzicato delle corde al pari di una spuma evanescente.
Oggi lo stupore esperienziale di Agora potrebbe sembrare quasi ordinario o addirittura vagamente inattuale, ma soltanto perché il suo stesso fautore ha indicato per primo, sin dagli anni novanta, le coordinate della musica atmosferica a venire, della quale torna immancabilmente a offrire un mirabile saggio.

Nel 2023, a otto anni da AirEffect, viene pubblicata una nuova collaborazione con gli Ozmoticche sintetizza in una formula parzialmente rinnovata l’affinità  di vedute con il duo torinese. Stimolato da un confronto sulla percezione variabile dello scorrere del tempo, sulla comune esigenza di contraddire la frenesia contemporanea a favore di un agire ponderato, l’album ha trovato ulteriore linfa dal momento storico in cui è stato messo a punto, divenendo a tutti gli effetti un prodotto del periodo pandemico.
Armonie sintetiche di ampio respiro, immerse in un incessante coagulo di interferenze e risonanze percussive, disegnano movimenti melodici sinuosi squarciati dall’azione corrosiva della chitarra, le cui partiture taglienti spingono il suono verso quelle ascese di grande intensità spesso messe in scena dal seminale compositore austriaco. E se AirEffect risultava fin troppo asettico, è proprio la capacità di innescare moti emozionali tracimanti, alternati a stati di quiete straniante, a rappresentare l’elemento di maggiore pregio di Senzatempo.
A prescindere dalla costruzione e dall’esito formale di ogni singolo itinerario, a dominare è una complessità compositiva curata fin nel singolo dettaglio, frutto di due approcci distintivi fusi in un insieme altamente evocativo e coinvolgente.



Postilla: Fenn O'Berg e l'avanguardia del caos calmo

Fenn O'Berg - Fennesz, Peter Rehberg e Jim O' RourkeIl trio Fenn O'Berg, già citato all'inizio, vede riuniti assieme Fennesz, lo sperimentatore austriaco e boss di Mego (prima, assieme ai Farmers Manual) e Editions Mego (poi, in solitaria) Peter Rehberg e il guru newyorkese Jim O'Rourke. I tre, incontratisi per la prima volta nei primi 90, iniziano ben presto a collaborare nei reciproci show, fino a fondare, nel 1999 in via ufficiale, il trio, impegnato in performance di carattere live e sempre legate all'improvvisazione. La fusione dei loro stili e il variare degli stessi nel tempo hanno dato vita a quattro album (quelli finora all'attivo del gruppo) di matrice comune, ma sempre tendenti verso una concezione sonora più avanzata.

Il primo parto su album, intitolato The Magic Sound Of Fenn O' Berg ed edito nel 1999, raccoglie le performance eseguite tra Vienna, Berlino, Amburgo, Parigi e Tokyo. Trattasi di collage di field recordings che affondano le loro radici in profondità nell'estetica glitch, come dimostrato dai catartici filoni delle due metà di "Shinjuku Baby", dalle deliranti reminescenze cosmiche di "Gurtel Eins" e dalla languida e ritirata melodia di "Horst und Snail mit Markus". L'apoteosi del sound dei tre si ha però nella conclusiva "Fenn O'Berg Theme", dieci minuti dove la concezione ambientale di Brian Eno viene adattata a una misuratissima dose di pura claustrofobia.

Tre anni più tardi, The Return Of Fenn O'Berg consolida questo stile, fondendo al meglio le velleità dei tre in un marasma di sequenze sonore in quattro parti: una breve introduzione, "Floating My Boat", antecedente a tre suite magniloquenti e strabordanti di germogli sonori. In "Riding Again" la chitarra di O' Rourke viene filtrata e scomposta ai minimi termini dai due austriaci, partorendo languori metallici e taglienti; "A Viennese Tragedy" è duetto tra Fennesz e Pita, che si scambiano sussurri silenziosi e urli catastrofici a intermittenza, mentre la più breve "We Will Diffuse You" è a quasi totale suffragio di Fenensz e delle sue limpide e accennate partiture elettro-acustiche.

Il consolidamento del trio avviene a ben otto anni di distanza dai primi passi, durante i quali i sentieri di tutti e tre i musicisti si sono evoluti verso nuovi orizzonti: l'ambient elettroacustico per Fennesz, la sperimentazione post-glitch per O'Rourke e la gestione in solitaria di Editions Mego per Rehberg. In Stereo è un live in studio che si qualifica come vero apice formale e musicale dell'applicazione dell'elemento ambientale al rumore. L'apertura di "Part III", tra l'iniziale gelida desolazione in progressiva conversione verso un calore ambientale, lascia spazio ai gorgogli glitch di Rehberg in "Part IV", mentre il metafisico equilibrio tra astrazione verso il vuoto e follia cosmica della "Part V" può attribuirsi in buona parte a O'Rourke e al lato elettronico delle sue più recenti esplorazioni sonore.
"Part I" procede quasi nel nulla sonoro, è l'estremizzazione del concetto di adattamento della musica all'ambiente, è quest'ultimo a prevalere e a sovrastare la prima, come anche nelle pure architetture concrete a firma Rehberg della "Part VII". La conclusione è affidata alla gelida drone della "Part VI", un ritorno al verbo classico della disfunzione tra fruscii ingenerati e taglienti riverberi di rumore.
Pur disunendo stilisticamente le sonorità dei tre rispetto alle session precedenti, in quanto in ogni brano pare essere idealmente guidato dal canone sonoro dettato da uno su cui gli altri due adattano i loro interventi, In Stereo si figura come un vero e proprio trattato di simbiotica e armoniosa fusione tra glitch, ambient e avanguardia, all'insegna di un caos generato su matrice ambientale, viaggiante su un terreno dove nemmeno lo stesso Fennesz aveva transitato in precedenza.

L'attività del trio proseguirà poi con l'uscita di due Lp rigorosamente in formato vinile contenenti estratti di alcune performance tenutesi nel 2009 in Giappone. Stesso formato e stessa location caratterizzano, due anni dopo In Hell, che raccoglie estratti da concerti facenti parte del tour successivo all'uscita di In Stereo. La natura live è chiaramente decisiva nel tracciare le linee differenziali tra il nuovo lavoro e il suo predecessore. Se quest'ultimo infatti pareva essere, come già specificato sopra, un focus sul lato più concettuale e concreto della ricerca dei tre, le nuove improvvisazioni si concentrano sulle architetture sonore più astratte e naturali, proponendosi non più come un trattato al pari del precedente, ma come una raccolta di appunti, piccole gemme tra di loro non troppo imparentate e ciascuna nata sotto un tetto diverso. Ciò è riscontrabile nel quarto d'ora di rumorose field recordings di "Christian Rocks", in grado di evocare svariati scenari in base all'interpretazione di chi ascolta, così come nelle brevi pennellate ambient-drone "Omuta Elegy" e "Concrete Onions", la prima notturno intermezzo ambient di puro stampo fennesziano, in grado di cullare profondamente prima che la seconda lasci sorgere il sole. Le lunghe distese, rispettivamente di avanguardia dronica e algidi tappeti robotici, di "Vampires Of Hondori" e "It Came From Nyagoya" mostrano invece il lato più freddo e astratto dei tre, in grado di essere riscaldato solo dagli occasionali interventi di una limpida coltre ambientale.
Dopo due ottimi album live e un vero e proprio capolavoro, Fenn O'Berg confermano la loro abilità nel dar vita, specie dal vivo, a improvvisazioni di straordinaria caratura tecnica e musicale. Pur non vantando la stessa magniloquente e unitaria importanza del fratello maggiore In Stereo, In Hell ne eredita le coordinate sonore sviluppandole sotto un altro punto di vista, di sicuro meno innovativo e debordante, ma in grado di evidenziare nuovamente l'incredibile creatività e la versatilità del trio nel rinnovarsi a ogni esibizione, senza cadere mai nella staticità o risultare ripetitivo.

Nelle loro improvvisazioni matematiche e calcolate, Fenn O'Berg danno vita a esibizioni di altissima caratura e sempre in grado di mutare forma. Ulteriore avventura all'insegna di un livello sempre elevatissimo, il progetto dimostra la capacità e il genio di Fennesz nel saper proporre spunti sonori innovativi e mai fini a se stessi anche dal vivo e nel riuscire a fonderli con quelli appartenenti a due artisti di caratura altrettanto importante.

Fennesz

Discografia

FENNESZ
CD & LP
Hotel Paral.lel (Mego, 1995)
Plus Forty Seven Degrees 56' 37" Minus Sixteen Degrees 51' 08" (Touch, 1999)
Endless Summer (Mego, 2001)
Field Recordings: 1995-2002 (antologia, Touch, 2002)
Live In Japan (live, Headz, 2004)
Venice (Touch, 2004)
Black Sea (Touch, 2008)
AUN - The Beginning And The End Of All Things (OST, Ash/Touch, 2012)
Bécs (Editions Mego, 2014)
Agora(Touch, 2019)
EP & 12''
Instrument (Mego, 1994)
Il Libro Mio - Recherchen Zum Manierismus (Tanz*Music, 1998)
Fennesz Plays (Mego, 1998)
Live At Revolver, Melbourne 03_02_00 (live, Touch, 2000)
Transition (Touch, 2008)
Seven Stars (Touch, 2011)
Fa (Editions Mego, 2013)
Mahler Remixed (Autoprodotto, 2014)
Altro
Szampler (sampler, Takeworm, 2010)
Liquid Music (Usb, Touch, 2012)
COLLABORAZIONI
CD & LP
Music For An Isolation Tank (with Zeitblom & Ranthasa, Rhiz, 1997)
Afternoon Tea (with Oren Ambarchi, Pimmon, Peter Rehberg & Keith Rowe, Ritornell, 2000)
Invisible Architechture (live, with Mika Vainio, Atmosphere, 2002)
Wrapped Islands (with Polwechsel, Erstwhile, 2002)
Live At The LU (with Keith Rowe, Erstwhile, 2004)
GRM Experience (with Mika Vainio & Christian Zànesi, Signature, 2004)
Cloud (live, with K. Rowe, T. Nakamura & O. Ambarchi as Four Gentlemen Of The Guitar, Erstwhile, 2005)
Erstlive 004 (live, with Sachiko M, Otomo Yoshihide & Peter Rehberg, Erstwhile, 2005)
Cendre (with Ryuichi Sakamoto, Touch, 2007)
Till The Old World's Blown Up And A New One Is Created (with Martin Brandlmayr & Werner Dafeldecker, Mosz, 2008)
In The Fishthank 15 (with Sparklehorse, In The Fishthank, 2009)
Knoxville (with David Daniell & Tony Buck, Thrill Jockey, 2010)
Flumina (with Ryuichi Sakamoto, Touch, 2011)
There's A Light That Enters Houses With No Other House In Sight (with David Sylvian & Stephan Mathieu, Samadhisound, 2014)
AirEffect (with Ozmotic, Folk Wisdom, 2015)
Edition 1 (with King Midas Sound, Ninja Tune, 2015)
Senzatempo(with Ozmotic, Touch, 2023)
EP, 12'', Split
Live @ Synaesthesia (live, with Rosy Parlane, Synaesthesia, 2000)
Light (with Hazard & Biosphere, Touch, 2001)
Split #15 (with Main, Fat Cat, 2002)
Sala Santa Cecilia (live, with Ryuichi Sakamoto, Touch, 2005)
Amoroso (with Philip Jeck & Charles Matthews, Touch, 2008)

FENN O' BERG (with Peter Rehberg & Jim O' Rourke)

Lp

The Magic Sound Of Fenn O' Berg (live, Mego, 1999)
The Return Of Fenn O' Berg (live, Mego, 2002)
Magic & Return (antologia, Editions Mego, 2009)
In Stereo (Editions Mego, 2010)
Live In Japan Part One (live, Editions Mego, 2010)
Live In Japan Part Two (live, Editions Mego, 2010)
In Hell (live, Editions Mego, 2012)
Pietra miliare
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