In realtà, basterebbe ascoltare la voce dimessa, estatica, fuori dal tempo di Jesse Sykes nella ballata "The Sinking Belle", il racconto della pecora blu, per innalzare questo nuovo parto a firma Sunn O))) (con la maliziosa collaborazioni dei nipponici Boris e di altri illustri ospiti) al rango di piccolo capolavoro; un’alchimia psicotica e iperrealista che, al pari di un gorgo schiumoso, mulina imponente e paurosa al centro dell’universo. Da questo mistero impenetrabile, figurato dall’evocativo artwork boscoso, il suono prodotto da O’Malley e Anderson - reduci da un’altra immersione nell’incubo ("Black One", Southern Lord, 2005) - non può che trasudare misticismo, apprensione, oscura devozione a un dio fenomenico e vasto che si nutre esclusivamente dei malsani frutti della palude. Un mostro informe, come l’abnorme creatura di Miyazaki, dall’andatura lenta, possente, che una sparuta torma di accoliti idolatra intonando stravaganti canti sacrileghi. Una setta che di anno in anno, oltre ad abbracciare nuovi seguaci, perfeziona i propri empi rituali con dosi sempre maggiori di inquietudine e terrore, proprio come nei più sordidi sogni di zio Tibia.
I Sunn O))) (o semplicemente Sunn) nascono nel 1995 per volontà dei chitarristi californiani Stephen O’Malley (Thorr’s Hammer, Goatsnake e Burning Witch) e Gregory Anderson (Goatsnake e Thorr’s Hammer) come band tributo degli Earth (il duo allora si chiamava Mars). In breve, dopo una raccolta di demo ("The Grimm Robe Demos", 1998 – ripubblicato dalla Southern Lord nel 2000) e un’altra di brani rivisitati ("00 Void", 2000), entrambi edite dalla HydraHead, il marchio Sunn O))) si consolida negli ambienti underground statunitensi tanto da spingere la Southern Lord a mettere sotto contratto la band. Nel 2002 esce quindi l’album "Flight Of The Behemoth", arrangiato e co-prodotto dal leggendario Masami Akita (Merzbow), cui fanno seguito i due volumi di "White" ("White1", 2003, e "White2", 2004) e "Black One", in un crescendo di droni ultraterreni, omaggi ai Melvins e cupe discese nell’ ambient più dark e cinematografico (con la presenza di artisti del calibro di Dale Crover e Attila Csihar).
La parabola dei Boris s’intreccia con quella dei Sunn O))) già dal nome del gruppo ("Boris" è una canzone di "Bullhead", storico disco dei Melvins uscito nel 1991), dal grande amore dei tre giapponesi (la chitarrista Wata, il bassista Takeshi e il batterista/cantante Atsuo) per gli Earth, e per l’amicizia in comune con i Merzbow Oneman (autori, assieme a Keiji Heino, del fenomenale concept album "Flood", distribuito dalla Midi Creative). A questo punto, la prima collaborazione tra i Sunn O))) e i Boris, i due pesi massimi della Southern Lord (che - puntualizza una nota stampa - non è uno split ma una vera e propria compartecipazione), non poteva che essere all’insegna delle tenebre e dell’estrema sperimentazione. E se le ultime prove del combo giapponese apparivano slegate dal periodo più "empirico" e forse più felice del gruppo ("Flood" del 2000 e lo straordinario "Heavy Rocks" del 2002), l’incontro con il Duca e Soma ricolloca Atsuo e soci nella giusta direzione: un sentiero che pulsa di folk apocalittico, di industrial, a tratti di noise , dove i Sunn O))) preparano l’atmosfera e i Boris introducono i personaggi, spesso degli outsider dissonanti. Un maelstrom imponente e magnifico ("Etna") squarciato da strali di orrore puro che, come bagliori verdi, riverberano arcani sulla smerlata pelle dell’essere sconosciuto che vive nella foresta. I droni subodorano di malvagio (i riferimenti a "Black One" e, in particolare, a "Orthodox Caveman", sono espliciti), mentre le chitarre, distanti, occulte, tracciano le sparute sagome di annerite querce nodose. In questo greve incedere, pigro ma inesorabile come una colata lavica (appunto), una batteria stoner spezza dapprima gli equilibri per poi precipitare intenzionalmente giù, nel fiume magmatico. Il senso di panico cresce aumentando il volume: come banshee, le chitarre ci fluttuano attorno urlando maledizioni. Eppure il finale ci suggerisce immobilità, stasi, assenza di qualsiasi movimento: la massa lavica attraversa il sottosuolo, gorgoglia negli abissi marini, laddove esistono regni incomprensibili. Una solennità di chitarre che la sezione ritmica cerca di investigare, alla maniera di altri enigmatici indagatori dell’incubo (Justin Broadrick, Dale Crover, Steve Von Till).
Siamo solo all’inizio, ma l’ansia è già altissima. Le vibrazioni industriali di "N.L.T." (forse una continuazione del brano/acronimo "F.W.T.B.T." contenuto nel terzo disco del duo, "Flight Of The Behemoth") non stemperano il clima di oppressione e decadenza disegnato da "Etna". Tutt’altro. Le spirali robotiche, a folate, invadono quello che sembra essere un tunnel cosparso di cadaveri alla fine del quale, finalmente, un po’ come in quel gigantesco romanzo di King, la luce di un’inaspettata speranza irradia i superstiti. Questa luce è "The Sinking Belle", una lunga e intensa nenia post-folk sussurrata da Jesse Sykes (frontman dei Jesse Sykes and the Sweet Hereafter), che lacera con il suo ottimismo (anche se il termine più appropriato sarebbe rassegnazione) i quattordici minuti di dolore e nervosismo delle tracce precedenti. Uno spartiacque inatteso e struggente, un po’ Sìgur Rós e un po’ Earth, diametralmente opposto alle urla laceranti esplose da Malefic in "Black One". Sorprende la presenza di un brano come questo in un’opera che produce essenzialmente tensione; merito forse della presenza di artisti eclettici come Joe Preston (Earth, Thrones, Melvins, High On Fire) o Tos Niewenhuizen (Beaver, GOD), capaci di supportare i Sunn e i Boris nella loro sfrenata voglia di cambiare, anche totalmente come in "The Sinking Belle", la propria natura.
Oltrepassato il momento psicologicamente più critico, l’indole tutt’altro che ilare del quintetto ritorna a sfornare droni tiratissimi ("Akuma No Kuma", con la voce sepolcrale di Preston) che si trascinano disturbati e disturbanti (l’intensa "Fried Eagle Mind") verso la logica conclusione con "Blood Swamp" (con Kim Thayil dei Soundgarden), l’ultima liturgia prima che la notte ingoi l’altare e i suoi accoliti. "Altar", e la musica dei Sunn O))) in generale (per i Boris sarebbe necessario un discorso a parte), ammorbidisce ulteriormente l’oscura tematica di fondo inclinando la lancetta verso un sound più godibile nell’immediato, sintetizzando gli umori neri di "Black One" e la visionarietà di "White2" in un progetto estremamente meno metal dei precedenti lavori e tuttavia perfettamente coerente con il passato. In attesa della prossima covata (malefica).
10/12/2006