Impossibili da inquadrare, i Boris sono la scheggia impazzita del rock giapponese e hanno la grande capacità di mutare in modo imprevedibile senza per questo smettere di essere loro stessi: degli stravaganti, dissacranti estremisti di Tokyo sempre pronti a strappare un sorriso compiaciuto, lo stesso che riserviamo al vecchio amico buontempone che, ancora una volta, ci ha beffato.
Si può affiancarli alle divinità del drone Sunn O))), ma è un'operazione pretestuosa e in definitiva un'idea che non rispecchia la storia della formazione, nata nel 1992 e legata al rock più lento solo per una parte della propria lunga, travagliata, multiforme carriera.
Nascono come un quartetto, velocemente ridotto a trio: Atsuo Mizuno alla batteria, Takeshi Ohtani alla chitarra e il basso e Wata (Yoko Muzuno) alla chitarra, protagonista di un curioso culto personale che la accomuna a una donna divina. Nel tempo, tutti i membri sono stati attivi anche come cantanti, anche se poche parole sono state pronunciate in molti loro album. Quando nascono scelgono un nome che omaggia un brano dei Melvins, non a caso lento, distorto, assordante. Ma solo apparentemente si può ridurre a questo il loro stile iniziale, approssimativamente una convulsa, malvagia derivazione dello sludge-metal. I primi Boris sono infatti dei seguaci dei Melvins più nell'anima che nel sound, una formazione rock che unisce l'attitudine punk a quella metal, che adora piegare a proprio piacimento le regole della musica e che non manca di una certa dimensione teatrale nei suoi colpi di scena continui, che hanno portato nei decenni a frequentare territori psych-rock, post-metal, dream-pop, j-pop e tanti altri.
Come i Melvins, i Boris sono dei simpatici provocatori, che mettono in dubbio le convinzioni del loro stesso pubblico e ne ripagano gli sforzi unendo la loro dissacrante vena artistica con opere di grande creatività. Inoltre, nonostante il modestissimo successo in patria, alimentano il loro culto con una incessante, leggendaria, instancabile attività live, ergendosi come paladini di una sensibilità rock che pochi hanno saputo interpretare con tanta costanza, passione, tenacia.
Affrontare l'opera dei Boris è, per motivi diversi, impegnativo. Per prima cosa, la loro musica non ha coordinate chiaramente definite, tanto da apparire imprevedibile, sovente instabile o, volendo sforzarsi di mettere a fuoco il trio nipponico, costante solo nella sua mutazione incessante. L'opera dei Boris è impegnativa anche perché è insolitamente estesa: 26 album fra l'esordio del 1996 e il 2020 ma anche numerose collaborazioni, di cui ben 8 album con l'eroe del noise estremo giapponese Merzbow, al secolo Masami Akita. E poi ancora split album, Ep, demo e live. Si consideri anche che molte di queste opere sono album doppi o tripli, spesso a tiratura limitata, a volte distribuiti esclusivamente ai concerti. Terzo motivo di impegno, ascoltare i Boris significa affiancarsi alla cultura giapponese, alla lingua giapponese e ad alcune manifestazioni tipiche dell'universo nipponico. Infine, ascoltare buona parte della musica Boris non è possibile se non ad altissimo volume, per percepire al meglio la loro arte di costruzione del suono, fatta di amplificatori portati all'estremo, tessiture armoniche, suoni analogici.
Il trittico fondamentale: da Absolutego al capolavoro Flood.
Absolutego (1996) è un esordio senza compromessi, un unico mastodontico brano di 65 minuti che farà tremare la vostra cassa toracica, le casse, le pareti di casa e, dato il giusto impianto e dando per scontato il volume al massimo, anche i cuori dei vostri ignari vicini. Il suono imponente dei fendenti di chitarra è quanto di più totale il rock possa proporre, un mare di decibel in cui immergersi alla ricerca di una meditazione paradossale, naufragando nell’oceano sonoro. Questo inno alla potenza del suono è un incompromissorio manifesto per la formazione, l'affermazione stentorea di voler perseguire un'estetica che mira allo shock dell'ascoltatore. Si tratta di un esordio arrogante, sfrontato, violento, esagerato ed è per questo uno dei più fulgidi esempi di vitalità del rock, quando a posteriori del grunge era dato ormai per morto.
La loro venerazione della potenza sonora fa un passo avanti con Amplifier Worship (1998), opera divisa in cinque lunghi brani che trasforma l'estremismo monolitico dell'esordio in una grammatica dell'assordante, con l'allucinazione a fungere da collante e chiave di volta. Nell'iniziale "Huge" servono 5 minuti abbondanti perché la voce squarci l'arrangiamento, facendo sprofondare il tutto in una disperazione insostenibile, con richiami al mondo nerissimo dei Cathedral. Il meglio, però, arriva dopo, quando la band si allontana dai territori già esplorati. Riferimenti alle liturgie tibetane in "Ganbou-Ki", colosso da un quarto d'ora, ben dimostrano quanto sia in realtà ampio lo spettro stilistico della formazione, a suo agio anche nella lunga parentesi psych-rock in forma di jam che rapisce il brano.
Soprattutto, affiora uno spirito rock'n'roll, pur filtrato da una prospettiva allucinata e violentemente estrema, come fotografano "Hama", degna dei Fu Manchu, o "Kuruimizu", lungo brano dall'inizio esagitato e punk, poi mutato in un esercizio di lugubre doom-metal e dunque in struggente psych-rock. Chiude "Vomitself", 17 minuti lenti e fangosi, una lunga trenodia spaccatimpani, la versione lisergica del monolitico esordio.
Sempre più decisi a esplorare le varie declinazioni e possibilità della musica assordante, i Boris scrivono il loro capolavoro con Flood (2000). Quattro parti per 70 minuti e un attento, meditato esercizio di tensione e distensione, che questa volta attinge soprattutto alle dinamiche del post-rock, del post-metal e del minimalismo. L'approccio rimane tipicamente da Boris: estremo, capace di mettere a dura prova l'ascoltatore sprovveduto ma anche altamente soddisfacente per chi ha avuto la dedizione di rimanere in ascolto. Come a fare la selezione all'ingresso, i primi 10 minuti sono una ripetizione ipnotica di un breve riff di chitarra, sovrapposto in modo irregolare, con echi e riverberi, secondo la dottrina di un minimalismo ossessivo. Cresce una tensione, ben alimentata dai tonfi apocalittici delle percussioni, mai così ciclopiche, progressivamente più assordanti. Alla fine, coprono l'intero spettro sonoro con un rombo angosciante. Le vestigia di un brano più canonico, di un vero ritmo e di una flebile melodia di chitarra fanno sprofondare in una placida tensione, una poetica ode alla catastrofe che rimane ben lontana ma anche ineluttabile. Le splendide tessiture chitarristiche, pienamente post-rock, fanno scoprire il lato malinconico della formazione, capace di impennarsi in dolorosi lamenti melodici vicini alle commoventi divagazioni chitarristiche di Neil Young. Dopo mezz'ora la voce arriva a infondere ulteriore umanità al paesaggio sonoro, intonando una ninnananna poco prima dell'arrivo dell'alluvione di decibel, un'epica e fatale deflagrazione che si sviluppa a ondate e lascia dietro sé morte e distruzione. Rimane, nell'ultima parte della composizione, solo la meditazione sull'annunciata fine, rimirando le macerie e poi accogliendo il silenzio nel cuore.
Allegoria musicale di un travaglio interiore, visionaria esplorazione e commovente esperienza emotiva, Flood rappresenta un risultato spettacolare, dove convergono tanto l'irruenza dell'esordio quanto la spinta espansiva del più eterogeneo secondo album.
L'amore per il rock: da Heavy Rocks a At Last - Feedbacker.
Da imprevedibili per eccellenza, come i mitici Melvins, i Boris cambiano totalmente con Heavy Rocks (2002), album di stoner-metal corazzato proposto a suon di distorsioni sovrabbondanti, boogie a tripla velocità e la sguaiatezza propria più del punk che del rock'n'roll. C'è da divertirsi con bombe quali "Korusu", "Dyna-Sour", "Wareruraido", "Rattlesnake" e "1970", tutte idealmente versioni sotto anabolizzanti dei classici del blues-rock, talmente viscerali in queste alterazioni apocrife da sfociare spesso nel noise del rumore bianco, dei fischi, delle distorsioni totalizzanti.
La strada di un rock'n'roll muscolare, spaccatimpani e delirante prosegue anche su Akuma No Uta (2003), caratterizzato da una curiosa copertina che omaggia Nick Drake. Dopo 10 minuti di introduzione, quasi a voler far entrare progressivamente l'ascoltatore nella dimensione parallela della band con bave psichedeliche e fendenti lugubri di chitarra, "Ibitsu" e "Free" suonano tanto assordanti da far sembrare timida l'opera precedente. Tutto è appiattito sul fortissimo, secondo una esasperazione scioccante che porta il rock'n'roll verso un vicolo cieco di rumore esaltante, vitalistico, ipercinetico.
La malinconica "Naki Kyoku (Crying Song)" divide in due l'album offrendo uno show chitarristico in forma di jam lisergica, prima che l'ultra-rock'n'roll riprenda, agitato e spaccatimpani, culminante in "Akuma No Uta (The Devil's Song)", uno dei vertici della carriera: partenza da infarto con il vorticare della batteria, quindi un colloso, fangoso midtempo doom-metal e quindi l'inarrestabile accelerazione, l'indiavolata e pazzoide mattanza finale a suon di un blues-rock nucleare.
Consegnati questi due album incentrati, pur a modo loro, sulle forme tipiche della tradizione rock, ecco che i Boris si dimostrano degni della loro fama di inafferrabili e imprevedibili musicisti proponendo At Last - Feedbacker (2003), idealmente il seguito di Flood. Unica composizione divisa in 5 parti, 44 minuti totali. Se l'inizio è nel pieno dei droni, lentamente un substrato psichedelico si fa spazio, assieme a una dimensione epica. Ne nasce una sinfonia cosmica, stemperata in un pensoso rock della desolazione, come se i Calexico avessero collaborato con gli Earth. Lentamente un gorgo si dipana, minaccioso e angosciante, sembra inghiottire tutto ma poi arretra dinanzi a un lamento slo-core. È un colpo teatrale che rende ancora più devastante la successiva e tormentata sfida fra voce e chitarre, conclusa temporaneamente con una esplosione catastrofica. Un ipercinetico prog-metal vicino ai più deliranti Mars Volta ripropone la sfida con una miscela pirotecnica instabile, tanto che dopo rimane solo un fiume di noise assordante, miasmi di feedback malefici e vibrazioni radioattive. In coda una trenodia affranta, degno finale della più tragica delle loro opere.
Meno colossale di Flood, quest'album ripropone l'incredibile potenza di Heavy Rocks e Akuma No Uta in un contesto totalmente differente, fatto di dolore, sofferenza, agitazione e morte. La copertina, con Wata senza vita in una pozza di sangue, ben rappresenta la cupidigia del lavoro, che lascia senza scampo l'ascoltatore.
Variazioni sul tema: i droni, il doppio da ascoltare in contemporanea, colonne sonore immaginarie e archivi live.
Inizia nel 2004 anche la serie The Thing Which Solomon Overlooked, presentandosi con tre brani estesi, senza batteria e voce, in pieno drone. "Scene 2" (11 minuti) inanella un riff dopo l’altro di chitarra, con la solenne e maestosa lentezza degli Earth ma senza assordare, mentre "A Bao A Qu" (8 minuti) abbonda di fischi e feedback, fino a immergersi interamente in un gorgo rombante totale, dal quale emerge solo a tratti. I 20 minuti di "The Dead Angle Which It Continues Showing" appartengono ai rituali dronici dei Sunn O))), oscuri e metafisici.
Il secondo “volume” arriva nel 2006, anch’esso senza batteria e voce, ma con la notevole eccezione di “No One Grieve Part 2”, che comprende l’uso della batteria e si caratterizza per un dinamismo raro in questa “serie” di album. "Dual Effusion" (11 minuti) lambisce invece l’ambient e la psichedelia partendo dal drone, mentre “Merciless” (14 minuti e mezzo) fa turbinare le chitarre in una tensione costante, innalzando un muro sonoro spaventoso. Il sollievo dei timpani arriva solo con la breve e conclusiva “An Another After Image”.
Il terzo volume, sempre del 2006, mantiene le coordinate stilistiche, escludendo la voce, usando con parsimonia la batteria e puntando sul drone. Se “Leviathan” (17 minuti) sembra una rilettura di quanto ascoltato su Flood, con una frattura all’ottavo minuto che fa sobbalzare dalla sedia e introduce un’allucinata e liturgica seconda parte, la più breve "No Ones Grieve Part 1" torna a un più formulaico drone-metal. Si redimono, almeno in parte, con "Sola Stone" (13 minuti), una lenta torsione drone-doom-noise.
L’impressione è che il trittico The Thing Which Solomon Overlooked, inizialmente destinato ai collezionisti ma reso appena più accessibile da un box-set con alcuni extra del 2013, proponga una versione minimalista della musica della formazione, creata per sottrazione dal sound proposto sugli album, per così dire, canonici. L’esperienza, destinata agli appassionati e ai completisti, tende troppo spesso a evidenziare alcune monotonie e staticità, che sono compensate solo in parte dalla sempre spaventosa potenza sonora della band giapponese.
Sempre in gara con se stessi, con Dronevil (2005) i Boris si cimentano in un'opera dal formato atipico: due dischi da ascoltare contemporaneamente, come fu per il quadruplo Zaireeka dei Flaming Lips. Lentamente si è introdotti in un paesaggio sonoro spettrale, più ambient che rock, poi lentamente prende corpo una marcia affranta e quindi un epico assolo di Wata funge da ideale canto della disperazione. Il doom-metal stentoreo che segue è reso onirico dal substrato psichedelico, ma cela dietro di sé un panorama desolante, poi portato in secondo piano a tempesta trascorsa. Il nuovo attacco doom-metal diventa così un'orgia di fischi e rumore, da cui a fatica emerge una disperata melodia. Infine, la potenza elettrica sostiene un inno affranto, sconfinato pianto che riecheggia in eterno nei minuti e minuti di feedback finali, giungendo forse alla più struggente musica che hanno scritto nell'intera discografia.
Ascoltata con i brani sovrapposti, Dronevil appartiene alla stessa risma di Feedbacker e Flood, ma rimane il dubbio che la soluzione ben poco pratica del doppio album da ascoltare simultaneamente abbia rappresentato una superflua e autoinflitta limitazione della fruibilità. Ascoltati separatamente, i due dischi sono semplicemente incompleti, parziali e spesso tedianti, con lunghi silenzi e arrangiamenti frammentari.
Nonostante il titolo suggerisca l'esistenza di un film, Soundtrack From The Film Mabuta No Ura (2005) è in realtà uno strano concept-album ispirato a una pellicola semplicemente immaginata dai membri della band. Scritto seguendo la grammatica del post-rock, è un album che suggerisce senza svelare, abbozza senza arrivare a tratteggiare. All'ascoltatore è richiesto, quindi, di completare, magari lasciandosi ispirare dal materiale illustrativo delle edizioni limitate dell'album, il materiale musicale con la propria fantasia. Solo nella lunga "Space Behind Me" prevale la tendenza al drone e al noise, così da chiudere l'opera nel più psicotico degli scenari.
Sempre nel 2005, Boris Archive propone un triplo live in edizione limitata, col secondo disco suonato senza batteria. Sono 130 minuti abbondanti che forniscono un'idea dell'esperienza dal vivo, ma sembrano rivolgersi soprattutto ai fan.
Il ritorno al rock: Pink e Vein.
Per tornare a un più tradizionale album si deve aspettare Pink (2005), dove i giapponesi impastano post-rock, shoegaze, noise-rock ed entusiasmanti fiammate stoner-metal, hard-blues e rock'n'roll. Edito in vari formati, trionfa nel doppio vinile di 72 minuti totali. L'iniziale "Farewell" è un muro chitarristico su cui fluttua una malinconica melodia, come se una nube di amplificatori esplosi accompagnasse una triste confessione rock. Assai più rock'n'roll le successive "Pink", "Woman On The Screen", "Electric" e la devastante "Pseudo Bread", sullo stile assordante e convulso di Akuma No Uta.
La fantasia cosmico-chitarristica di "Blackout", un doom-noise-metal allucinato e spaccatimpani, serve a ricordare agli smemorati una delle tante anime che convivono, vive e creative, nella band. Chiude la lunghissima "Just Abandoned Myself", un'orgia di ultra-rock'n'roll a tripla velocità che dopo sette minuti si distende in un hard-blues ornato da feedback, prima di tracimare in un harsh-noise dronico con dettagli psichedelici: 18 minuti di esaltante intensità sonora, in cui perdersi, che chiudono un album capace idealmente di proseguire le loro "canzoni del diavolo", senza l’effetto sorpresa ma con ancora energia da vendere.
Pink segna per i Boris il momento di passaggio verso un culto che ormai attraversa l’intero panorama del rock alternativo. La riedizione negli Stati Uniti certifica il nuovo, crescente interesse per la musica della band giapponese.
Da bravi pazzoidi, per il successivo Vein (2006) propongono due album in uno: una versione “hardcore” e una “noise”; la prima verte sul crust-punk, l’hardcore e l’immancabile drone, mentre la seconda è decisamente più rumorosa; la prima versione contiene il cantato-urlato di Atsuo, la seconda è completamente strumentale. Neanche a dirlo, le due versioni sembrano non avere quasi nulla in comune, se non si sa cosa e come guardarlo. In più, per seguire un progetto estetico molto elaborato, la casa discografica ha dovuto rimandare più volte la pubblicazione, perdendo tempo in tentativi fallimentari e trasformando l’opera in una costosa quanto agognata ricompensa per i fan.
Tornando all’aspetto più strettamente musicale, ci troviamo davanti a brani senza titolo, numerosi e brevi per la versione “hardcore” e solo due, ma molto estesi, per quella “noise”. Nonostante l’etichetta scelta, anche la versione “hardcore” abbonda di pastosi rallentamenti doom e dosi di puro rumorismo, ma mantiene una qualche anima punk e rock nella sua follia spaccatimpani, con un finale di ben dieci minuti che ricorda le esplorazioni psichedeliche di Boredoms e Acid Mothers Temple rilette secondo la loro estetica. La versione “noise” è invece un tour de force per le orecchie, un tessuto di suoni denso e abbacinante che prende il rock per infliggere torture indicibili a questa musica, restituendone una versione lacerata e angosciante, di intensità parossistica, che richiama alla mente l’oltranzismo di Merzbow.
Non solo Merbow: le collaborazioni.
A proposito di quest’ultimo, cogliamo l’occasione per fare luce numerose sulle collaborazioni fra i Boris e altri artisti. Il punto di partenza è Black: Implication Flooding (1998), una collaborazione con l’artista sperimentale giapponese Keiji Haino che mette a dura prova la sanità mentale dell’ascoltatore attraverso composizioni estese, tormentate e rumorose registrate dal vivo. La principale collaborazione, quella che segnerà la storia della formazione, è però con Masami “Merzbow” Akita, e inizia con Megatone (2002), diviso in tre lunghissime composizioni: "It Continues Waiting For A Headronefish" (23 minuti) è una nebbia noise-drone inquietante che l’ascoltatore dovrà completare con le proprie immagini mentali; la più tesa "Encounter With The Inside Of The Wavemotion Of Great Water Fuzz" (quasi 21 minuti) impenna in spasmi psych-rock e folate rumorose, concludendo in una mareggiata devastante; "…And Texas Spaceship" (18 minuti) parte dal drone-doom lugubre per distillare una pulsazione cosmica che porta a un angosciante viaggio galattico, la versione Lovecraft-iana di “Interstellar Overdrive” dei Pink Floyd.
Se Megatone prova a unire le anime sperimentali dei titolari, 04092001 (2005), un documento live del 2001, sembra solo aggiungere caos al loro album Heavy Rocks (2002), del quale sono reinterpretati cinque brani. Più strutturato Sun Baked Snow Cave (2005), un colossale mostro di 62 minuti totali che porta alle estreme conseguenze quanto ascoltato in Megatone: questa volta si copre la distanza fra il più flebile, diradato, desolante e malinconico dei commiati funebri che si sviluppa nella prima parte e lo spaventoso misto di dark-ambient e drone-noise che segue, un incubo nerissimo e impenetrabile che scivola poi in una coda che suona come un requiem solenne e, sul finale, persino rasserenante.
Quest’album ha quella qualità trascendentale e meditativa delle migliore opere dei Boris e dei momenti più ispirati di Merzbow, una suggestiva vena immaginifica e una ammirevole capacità di gestire la tensione e svolgere la narrazione musicale. Rimane una proposta musicale per chi ha il gusto per l’estremismo e la pazienza che non tutti gli ascoltatori possono vantare. Non è né il più fruibile né il più originale dei loro lavori, ma si aggiunge degnamente ad altri capitoli della discografia quali At Last - Feedbacker e Flood.
Inevitabilmente, i Boris collaborano con i Sunn O))) su Altar (2006), sul quale fungono da contrappeso rock alle liturgie degli americani. Le chitarre rimangono padrone incontrastate, anche perché sono diventate ben quattro nell'iniziale "Etna". Decisamente più sorprendente "The Sinking Belle", ballata folk-rock rassegnata, sospirata dalla Jesse Sykes già attiva con gli Sweet Hereafter, in una penombra che nulla ha a che fare con la discografia delle due band titolari del disco. La pausa è comunque del tutto temporanea: il drone galattico di "Akuma No Kuma", con vocoder, trombone, synth e moog arriva non lontano a dove approderanno i futuri Fuck Buttons.
"Fried Eagle Mind" dirada la tensione in una lugubre ninnananna imbevuta di riverberi e sfregiata dal rumore più atroce, tanto c'è "Blood Swamp" a chiudere con la più angosciante delle stasi allucinate, un tormento dove fischi e lamenti delle chitarre formano un ultraterreno coro di dannati. La versione limitata dell'album contiene anche "Her Lips Were Wet With Venom", 28 minuti in compagnia, fra gli altri, di Dylan Carlson. Si tratta di uno sconfinato mostro a più teste, vale a dire chitarre, dove il fondatore degli Earth riveste il ruolo del poeta del deserto che fa risuonare il proprio strumento in un paesaggio estraneo a ogni forma di vita.
Sempre nel 2006 collaborano anche con il chitarrista Michio Kurihara, molto attivo con formazioni differenti e anche come solista, per Rainbow, un episodio decisamente più psichedelico dei loro standard. La maestosa allucinazione di “Rafflesia” detta la linea più morbida, introducendo la melodia come contraltare ai fendenti di chitarra, ma è “Rainbow” a sorprendere ancora di più: una flebile filastrocca cantata da Wata con un filo di voce e resa più acida solo dalla chitarra elettrica distorta. Questa linea psych-rock prende saltuariamente anche toni blues, hendrix-iani, come nella magmatica “Sweet N°1”, uno show chitarristico d’eccezione. Un discorso a parte lo meritano le due lunghe composizioni presenti nell’edizione limitata edita da Inoxia nel 2007: si tratta di tracce di drone ambientale che toccano livelli di rarefazione tali da lambire la trance.
La collaborazione con Michio Kurihara si ripeterà anche in Cloud Chamber (2008), due soli brani estesi che non si discostano molto da quanto ascoltato su The Thing Which Solomon Overlooked, insistendo sul loro lato più assordante e, concedeteci la libertà di usare questo aggettivo, monotono.
Nel 2007 vede la luce anche un’altra collaborazione con l’artista noise giapponese Merzbow risalente al 2001, l’Ep Walrus/Groon. Sono due brani: il primo una cover strampalata di “I Am The Walrus” dei Beatles, il secondo un turbine di noise libero che vortica su percussioni tribali. Dopo la rarità live dello split con gli statunitensi Doomriders, intitolata Long Hair And Tights (2007) e vicino al verbo stoner-rock, arriva lo split Ep con i connazionali Stupid Babies Go Mad, chiamato Damaged (2007) e ispirato ai Black Flag e al loro hardcore-punk micidiale.
È un periodo assai prolifico, che porta anche a un altro split Ep, con la sola Wata che partecipa con l’artista giapponese Ai Aso a due cover, una delle quali è “Island” dei King Crimson. Arriva anche una maestosa documentazione live, Rock Dream (2007), che testimonia un concerto insieme al solito Merzbow dove la band giapponese mette insieme molti dei momenti migliori della carriera, compresi 35 minuti dedicati a “Feedbacker” e la versione definitiva, orgiastica e caotica, di “Just Abandoned Myself”.
Calma apparente e una nuova trilogia: da Smile a Attention Please.
Con Smile (2008) tornano alla discografia maggiore, aprendo con una cover allucinogena di “Flower Sun Rain” dei connazionali Pyg e passando a più scatenate sfuriate di rock’n’roll distorto e assordante, di nuovo nel solco dei loro episodi più digeribili e arrembanti. Si tratta di un nuovo tributo all’energia del rock, che comunque nel finale omaggia anche la loro componente più colossale con un memorabile serpentone conclusivo, senza titolo e di 15 minuti, con lo zampino di Stephen O’Malley e una spiccata vena psichedelica.
Meno inafferrabile di molti altri loro album, Smile è un ideale punto di partenza per i neofiti che non se la sentono di confrontarsi con i più ostici episodi della loro prolifica carriera. Per dire, è il loro secondo album, dopo Amplifier Worship, a contenere tutti brani cantati. A conferma della sua veste più potabile per un pubblico anche fuori dalla loro nicchia, l’album fa capolino nella “Top Heatseekers” di Billboard, al #20. Smile -Live at Wolf Creek- (2008) fotografa l’album in sede live e fa coppia con Smile -Live In Prague (2009). Per gli inguaribili collezionisti esce anche Boris Variations (2010) un compilation con alcune rarità e nuove registrazioni.
Segue un periodo di relativa calma, interrotto prima da una nuova pubblicazione con Merzbow, le vecchie registrazioni del 2004 edite come Klatter (2011) e quindi con l’ennesima stravaganza, la tripletta New Album, Heavy Rocks II e Attention Please (2011): tre album formalmente distinti e profondamente differenti, ma pubblicati a otto giorni di distanza. Il primo è un lotto di brani pop-rock alla maniera giapponese, con elementi shoegaze ed elettronici, ma con ampie aperture al ballabile e a un kitsch ipertrofico, fatto di una spettacolarità esibita senza pudore.
La malinconia radiofonica di una “Flare”, con la sua anima futuristica e distopica degna dei migliori Muse, forse resisterà meglio al tempo di un motivetto bubblegum come “Party Boy” o alla supersonica irrequietezza di “Luna”, fin troppo affollata nell’arrangiamento e prolissa nei suoi otto minuti abbondanti.
Arrivati all’altezza di un ballabile ottantiano come “Jackson Head”, comunque, il dubbio di trovarsi davanti a degli eclettici da antologia, capaci di confezionare un intero album di stili “altri” rispetto al loro canone, è ormai praticamente una certezza. Fra le tante strade intraprese, “Looprider” raccoglie forse i frutti più maturi: la melodia j-pop è piegata a un meccanismo ritmico kraut-rock, immerso in una melassa shoegaze che chiude con una coda onirica.
Heavy Rocks (2011) rappresenta la controparte più ortodossa della doppietta, il loro nuovo contributo al canone dello stoner e del rock’n’roll più acidi e distorti. Non a caso, ha lo stesso titolo del loro album del 2002, a voler ribadire la continua ricerca sulla “pesantezza” dei giapponesi. Non mancano comunque delle deviazioni dal solco principale, verso il ballabile dance-punk (“Jackson Head”), lo shoegaze (un’altra versione di “Tu, La La”), il drone-doom virato al celestiale (la lunga “Aileron”) e soprattutto la malinconica “Missing Pieces”, 12 minuti e mezzo di ninnananna psichedelica degna dei più sconfinati Bardo Pond che esplode in un climax centrale atomico. Attention Please (2011) ritorna invece al pop-rock, questa volta tinto di noise e soluzioni da rock alternativo, riproponendo anche quattro brani già ascoltati su New Album, in versioni alternative.
Fusioni impossibili: gli album psichedelici, onirici e assordanti.
Il ritorno in studio arriva con Präparat (2013) e non può che fare tesoro di quanto accaduto negli ultimi anni di carriera. Si apre psichedelico e strumentale con “December”, poi vira verso un drone sognante e ammaliante, cantato con un filo di voce (“Elegy”) e concluso con un arrembaggio ritmico. Nella logica della loro illogicità, non può che arrivare un episodio come "Evil Stack 3", un harsh-noise caotico, per chiudere il trittico d’apertura.
L’opera prosegue alternando psichedelia (“Monologue”, "Castle In The Air") e più consuete esplorazioni sludge-drone (la Melvins-iana “Method Of Error”; il grunge mefitico di "Bataille Sucre"), trovando nel gotico trasognato di "Mirano" un’altra composizione stilisticamente incatalogabile. Nel complesso Präparat sembra riassumere l’ampio spettro che hanno sviluppato nel 2011 con un trittico di album in un’opera assai più concisa e, sostanzialmente, più a fuoco.
Noise (2014) segue lo stesso modello, riassumendo in una scaletta assai variegata il loro estro multiforme, che racchiude doom, sludge, shoegaze e dream-pop. Il titolo fuorviante nasconde in realtà uno dei loro album più equilibrati e di facile ascolto, deliziosamente ballabile e fragoroso (“Melody”), contagiosamente trascinante (“Vanilla”) e dolorosamente malinconico (“Ghost Of Romance”), capace nei 18 minuti di "Angel" di scrivere un tardivo, sorprendente classico che congiunge atmosferico, onirico, psichedelico ed esplosivo grazie a sfumature quasi cameristiche e maestosità para-sinfoniche.
La "canzone del diavolo" "Quiksilver" rilegge in dieci minuti il loro ultra-rock'n'roll imbrigliandolo in melodie distese, intarsi progressivi e arrangiamenti ariosi ed epici, pur concedendosi quella coda drone-doom da manuale. Nello stesso anno pubblicano anche Archive II (2014), diviso fra live e demo.
Una nuova trilogia, materiale per collezionisti e documenti live.
Nel 2015 segue una nuova trinità: Urban Dance, Warpath e Asia. Il primo elemento del trittico invade anche il campo del post-rock, pur conservando forti elementi noise, drone e sperimentali, mettendo a dura prova i timpani e la sanità mentale dei coraggiosi che intraprendono l’ascolto ma ripagando con lo schizofrenico incrocio di trasognato e cacofonico di “Surrender” e con il doom spaziale e psichedelico di “Endless”.
Negli altri due capitoli domina invece il loro spirito più oltranzista psych-drone-noise, sviluppato per brani estesi (Warpath) o persino colossali (“Terracotta Warrior” su Asia), strumentali e astratti. In "Behind The Owl" tutta la materia musicale si riduce a un minimalismo estremo fatto di riverberi, e poco più in là arriva "Dreamy Eyed Panjandrum", rendendo Warpath un’esperienza per pochi completisti e inguaribili curiosi.
La succitata “Terracotta Warrior” nei suoi 21 minuti trasforma una rifrazione dark-ambient in una solenne messa funebre per chitarre distorte, confermando che neanche la delirante prolificità della band giapponese riesce a soffocarne la peculiare creatività, ma rende solo più ardimentoso scovare i nuovi gioielli nel marasma di pubblicazioni assortite, in cui sono facilmente compresi gli altri brani di Asia.
Non contenti di questa mole di musica pubblicata, il 2015 è l’anno anche di due collaborazioni regalate ai concerti: la cassetta/Lp di EROS (con Endon) e il cd/12” Low End Meeting (con Goth-Trad), vere chicche per collezionisti. Crossing Waltz (2016) è invece un nuovo documento live.
Gensho (2016) è una nuova collaborazione con Merzbow, un doppio così diviso: una prima parte sono nuove registrazioni di vecchi brani e una cover dei My Bloody Valentine; una seconda parte sono nuove composizioni firmate da Merzbow. I due dischi, neanche a dirlo, sono pensati per essere ascoltati contemporaneamente, come per Dronevil. Si tratta di un’aggiunta ai loro lavori creati per i fan e apprezzabili, forse, solo da loro.
L'autocelebrazione di una carriera unica: da Dear a NOW, fino al trentennale.
Dear (2017), album del venticinquesimo anniversario, si presenta come un addio. Come per i loro padri spirituali Melvins, dopo cinque lustri i Boris hanno detto tutto e il contrario di tutto e la loro eventuale conclusione di carriera è sicuramente una prospettiva deprimente ma anche comprensibile: come si potrebbe chiedere a loro di ripetersi, quando hanno fatto dell’eclettismo in ambito estremo la loro bandiera? E infatti Dear misura quel comune denominatore rock che pure attraversa trasversalmente la loro estetica, proponendo nuove composizioni all’insegna della pesantezza e del potere (un brano si chiama appunto “The Power”) catartico dei decibel, delle distorsioni, dei riverberi e degli echi, sin dall’iniziale “D.O.W.N. (Domination Of Waiting Noise)”.
Il ritorno alla grammatica dei droni è impreziosita della dimensione onirico-meditativa sviluppata nell’ultimo decennio, come ben dimostrano brani quali “Kagero” e “Biotope”. L’apice emotivo è invece la lunga “Dystopia-Vanishing Point”, strabordante power-ballad dalle bave psichedeliche e gli eccessi assordanti. Più che un album che funga da pietra tombale, quindi, si tratta di un auto-tributo, che non poteva che chiudersi con un omaggio ai Melvins come la title track.
L’autocelebrazione prosegue prima con il live Eternity (2018) e quindi con LφVE & EVφL (2019), un doppio che racchiude l’ampio spettro sonoro esplorato in carriera. L’equilibrio di contrasti vividi è ormai una loro precisa arte, tanto che nel contesto della loro discografia suona normale aprire con la docile “Away From You”, praticamente un sussurro fiabesco e impalpabile, e proseguire con la trenodia galattica di “Coma”, prima di schiantarsi nella danza di guerra che apre “EVOL”, in 16 minuti e mezzo capace di dilatarsi in un sussurro febbricitante e quindi articolarsi in un midtempo dominato dalla splendida chitarra di Wata, prima della lunga coda post-rock. La seconda parte passa per la colloidale “LOVE”, degna degli Electric Wizard, ma chiude con "Shadow Of Skull", altra tradiva aggiunta del loro canzoniere drone-doom.
NO (2020) interpreta il difficile periodo dell’isolamento conseguente all’ondata pandemica, attraverso brani diretti ed esplosivi, con tanto hardcore-punk e un’energia inarrestabile. Negli stessi mesi arriva anche il commovente Refrain, con Z.O.A., una lunga composizione di 33 minuti, aperta in punta di piedi, portata a un'accorata esplosione e lasciata languire in territori desolanti per tutta la seconda parte, una ancora nuova, e suggestiva, rilettura del loro verbo dronico.
2R0I2P0 (2020) chiude il difficile anno con una nuova collaborazione con Merzbow, fotografia dell’ultimo evento live insieme di fine febbraio ed ennesima occasione, per i completisti, per mettere a repentaglio i propri timpani. Fra le curiosità, troviamo anche una cover dei Melvins, proprio quella “Boris” da cui presero il nome: è un modo per chiudere il cerchio, dopo tanti anni e tante pubblicazioni. Sicuramente non è però il momento di parlare di fine della carriera, perché superata la difficile congiuntura, i Boris torneranno a fare, siamo sicuri, nuove e imprevedibili “canzoni del diavolo”.
Il debutto su Sacred Bones è allineato con il catalogo prevalentemente atmosferico della nuova label, ma rimane in contatto con il resto della loro sconfinata, eterogenea e spesso assordante discografia senza disconoscere completamente la passione per un sound temibile. In contrapposizione con il precedente NO (2020), che stordiva con volumi devastanti e sludge-doom colossali, i nove brani di W (2022) ritornano in lidi post-rock visitati a più riprese nei decenni precedenti ma qui curvati maggiormente verso il dream-pop e lo shoegaze. Il seguito onirico di NO, che unito a questo W forma non casualmente la parola “NOW”, cioè “ora” in inglese, è quindi un’avventura da ascoltare in tandem con l’album precedente in una logica di distruzione e rigenerazione, uno yin e yang che racconta un periodo difficile per la formazione, costretta a fermare la vitale attività live, e per l’umanità tutta, alle prese con la pandemia più grave dell’ultimo secolo.
Manca la tensione tipica dei loro classici e troppi brani vagano senza giungere a compimento, tanto che il termine di paragone più immediato è probabilmente il loro Soundtrack From The Film Mabuta No Ura (2005).
Ritornano in occasione del trentennale per un terzo capitolo della discografia intitolato Heavy Rocks, da affiancare a quelli del 2002 e del 2011 e come gli altri concentrato su suoni hard'n'heavy settantiani riletti dalla pazzoide creatività del combo nipponico con energia stoner-noise. Volumi assordanti, energia a fiumi e un certo gusto post-moderno che fa rimanere tutto sospeso fra imitazione e tributo sono il motore di dieci nuovi brani che ingrossano il loro catalogo meno sperimentale e più immediato, senza rinunciare del tutto a qualche colpo creativo.
È l'ideale compromesso fra l'adrenalinica potenza della band (vedi "She Is Burning", "My Name Is Blank") e la loro mai sopita voglia di sperimentare e sconfinare ("Nosferatou", l'industrial-thrash-metal di "Ghostly Imagination", il rumoroso cantautorato pianistico di "(Not) Last Song"). È una vera sorpresa solo se avete perso la vasta discografia precedente ma l'intensità dei brani, la costante capacità di giocare con l'ascoltatore e di eludere le sue previsioni sono ancora degne di attenzione per chi ha affinità con sonorità così intense.
I Boris sono ancora una bestia irrequieta e quell'ultimo brano troncato a metà fa ragionevolmente intuire che non sia ancora il momento di appendere gli strumenti al chiodo. A sorpresa, il 2 dicembre 2022, pubblicano Fade direttamente su Bandcamp: è un modo per celebrare anche l'anima più drone con oltre un ora di distorsioni galattiche. Arriverà in doppio vinile solo nel 2023, per il sollazzo di chi li segue dai primi anni, e poco dopo anche un lavoro in coppia con i newyorkesi Uniform, Bright New Disease (2023)