"‘Bardo' comes from the Tibetan Book of the Dead, and ‘pond' just sounded cool in conjunction with the other word. Bardo is the point where a soul arrives upon its corporal body as it is dying. During the course of the Bardo there is a determination as to where the soul will then proceed to, based upon the soul's prior life experiences. This moment and place was determined to be a good place for fishing, hence ‘pond' was added to the name".
"Bufo alvarius" è un viaggio. Una navigazione attraverso l'universo come si faceva in piena ondata psichedelica e space rock. Ritorno a esplorazioni di territori oltre le normali porte della percezione. Un'opera che segna a fuoco i 90 come un nuovo decennio, non solo ma fortemente (anche) di scorribande cosmiche. Dilatazioni spazio-temporali che disperdono un corpo immateriale in un pulviscolo di materia stellare, pericolosamente vicino alla forza di attrazione di un buco nero. Materia che si distacca da se stessa, vagando in attesa di trovare una direzione certa da raggiungere. Un trip a movimento spiraliforme tra tempeste elettriche e immensi spazi quieti.
I Bardo Pond si formano a Philadelphia nei primi anni 90 dall'incontro tra i fratelli Gibbson, chitarristi, il bassista Clint Takeda, il batterista Joe Culver e la cantante e flautista Isobel Sollenberger. Trascorsi alcuni anni tra auto produzioni e concerti a supporto, la Drunken Fish decide di prenderli sotto la sua ala.
"Bufo alvarius" è il loro primo album per la casa discografica statunitense. Il titolo prende il nome da un rospo diffuso nel deserto di Sonora (tra Stati Uniti e Messico) che secerne sostanze allucinogene da alcune ghiandole sulla schiena. Questo culto per le sostanze psicotrope mostra già pienamente la fonte di ispirazione dei Bardo Pond, collegandola direttamente alla cultura sixties e all' influsso della musica e delle droghe sulla percezione sensoriale. Omaggio non isolato nei vari lavori. Altre sostanze verranno citate nei titoli degli album, basti citare il successivo "Amanita".
"Amen 29:15" non è altro che il titolo della traccia finale e della sua durata temporale. Un flusso armonico e dis-armonico al tempo stesso, melodico e dissonante, che si avvolge in linee spiraliformi. Un vortice che conduce direttamente nello spazio più profondo, lasciando un corpo intontito e quasi immateriale a fluttuare in pulviscoli di feedback pronti ad avvolgersi su se stessi, trascinandosi dietro tutto quanto incontrano. Una struttura che vaga in vortici magmatici e corposi ma che si fa ciclo che ritorna inesorabilmente sempre al medesimo punto, rimettendo sempre nell'occhio del ciclone. Un involucro esterno caotico e cacofonico, sorretto da un'impalcatura perfettamente armoniosa e musicale. Dicotomia tra rumore e melodia. Un tutt'uno da cui non si può scorporare un elemento senza sovvertire l'effetto ottenuto in combinazione con l'altro. Con un risultato mutuato dalle melodie noise dei My Bloody Valentine e dalla trance rumorista degli Spacemen 3, ma che sostituisce al sostrato "pop" dei primi una hard psichedelia e alle reiterazioni di poche note dei secondi ripetizioni cicliche più complesse e articolate.
"Adhesive", la traccia di apertura, presenta già all'orecchio tutti gli elementi tipici dei Bardo Pond. Un accenno di cori in eco viene subitaneamente zittito dall'ingresso delle chitarre: una prima mandata in feedback avvolge l'intera atmosfera, mentre l'altra tratteggia una melodia in delay. Sono due strumenti liberi di divagare in spazi infiniti, ma che inesorabilmente ritornano sempre allo stesso punto. Una circolarità tipica del chitarrismo di Roy Montgomery, che riserva sempre uno scarto nel chiudersi completamente e confonde il moto in una spirale di distorsioni. Su tutto questo la batteria di Culver e il basso di Takeda, si propongono come fattori di sottolineatura della melodia: marcano pesantemente il suo andamento per non farla disperdere al vento cosmo-dronico. Qui sta tutto l'equilibrio magico del loro suono.
Su questa scia si pongono anche "On A Side Street" e "Capillary River". Il primo si apre con un'armonia dolce e liquida, sferzata da correnti di interferenze droniche. Il drumming si fa cinetico e potente, quasi risucchiato dalla flusso innescato dai fratelli Gibbson. "Capillary River" è una cacofonia magniloquente. Un accordo reiterato e ultra-distorto che si attorciglia attorno a una linea di chitarra che tenta di abbozzare una melodia rumorosa. Un accumulo di energia che esplode in un noise degno dei Sonic Youth più free, ma che non riesce a sovrastare il sottotesto psichedelico della canzone.
"Absence" testimonia ancor di più l'influenza della band newyorkese. Il canto della Sollenberger tocca territori prossimi a quelli di Kim Gordon, così come il gioco fra le due chitarre non può che rimandare al connubio Moore-Ranaldo. La presenza maggiore è però, come dice il titolo, quella dell'assenza: è un rumore spoglio, lasciato alla deriva nel vuoto cosmico.
Lo sciame di loop porta "Vent" dentro un gorgo al rumore bianco: una confusione in grado di produrre estasi trascendentali attraverso il frastuono. Disturbi provocati intenzionalmente da voci che si sovrappongono su canali occupati, disgregando il suono in un materia densa.
Compaiono nell'album anche blues involuti. In "Back Porch" la voce ovattata di Isobel Sollenberger si muove tra chitarre liquide e frammenti riverberati. "No Time To Waste" è un blues storto, fatto di fermate e ripartenze in cui il duetto vocale è sepolto sotto ondeggianti e sporchi riff.
Le campane suonano a festa. La celebrazione è giunta. "Amen" è il definitivo compimento, l'allucinato Alleluia! dei Bardo Pond. Scampanio intrecciato ad accordi pesantissimi. Un basso che rimbomba maestoso nel silenzio. Chitarre che echeggiano libere e aritmiche, senza alcuna razionalità apparente. Voci di sirene che chiamano da lontano il navigatore delle stelle e lo invitano a perdersi definitivamente insieme a loro. Un flusso eterno che può essere protratto all'infinito ma che si arresta dopo 29 minuti. Suono mistico e quasi prossimo alla sacralità dei Popol Vuh di "Hosianna Mantra". Liquidità che pervade tutto l'ambiente circostante e ne scioglie i contorni come i migliori episodi degli Ash Ra Tempel. E' una suite dai confini indefiniti e infiniti, che si espande impercettibilmente in ogni istante.
Si potrebbero esaminare tutte le singole componenti di "Bufo alvarius, amen 29:15" e riesumarne le influenze. Ma si perderebbe il tutto in un insieme di dettagli che non permetterebbero l'abbandono al flusso sonoro del disco. I Bardo Pond fanno rinascere elementi ripresi dalla musica anteriore riletti alla luce di istanze profondamente moderne: riescono a ravvivare la psichedelia con le intuizione del noise e dello shoegaze. Ne scaturisce un'opera fortemente moderna, ma di una bellezza classica, senza tempo. Un modo di suonare che farà scuola e che tanto seguito troverà nella scena post-psichedelica. La definitiva consacrazione arriverà dall'incontro con Roy Montgomery. Dall'unione tra il neozelandese e i Bardo Pond nascerà infatti uno dei capolavori assoluti della musica rock: "Well Oiled", a nome Hash Jar Tempo.
22/08/2010