Insieme con Sam Rosenthal (Black Tape For A Blue Girl) e Daniel Vahnke (Vampire Rodents), Roy Montgomery è uno dei massimi geni musicali degli ultimi anni. Lasciatosi alle spalle quel definitivo monumento alla psichedelia che risponde al nome di "Well Oiled", registrato con i Bardo Pond nel 1995 e pubblicato nel 1997 con la ragione sociale Hash Jar Tempo (in omaggio agli Ash Ra Tempel di Manuel Göttsching), Montgomery registra due album con i Dissolve ("That That Is" e "Third Album From The Sun") e due album solisti ("Scenes From The South Island" e "Temple IV"). Poi, decide di tornare a lavorare in proprio, come spinto dal bisogno di mettere ordine nella sua vita. Infatti, "And Now The Rain Sounds Like Life Is Falling Down Through It" è lavoro eminentemente psicoanalitico, legato ai temi del "sottosuolo", della noia e dell'alienazione. Montgomery ha in mente la triade Kafka-Dostoevskij-Goncarov, e ciò è evidente soprattutto nella scrittura dei testi. Tuttavia, anche la musica finisce per essere impregnata di un'atmosfera sofferta, angosciata, spesso rassegnata. Il timbro "nero" e dilatato della chitarra plana sovente dentro scenari cupi, ma affascinanti, come in una versione gotica della musica ambientale, mentre, a tratti, sembra di riascoltare certe sonorità dei Dadamah, ma privati del loro afflato spaziale.
In effetti, con questo lavoro, Montgomery abbandona momentaneamente le fughe ascensionali e i deliri metafisici degli Hash Jar Tempo per sublimare una tensione emotiva tutta risolta in uno spazio ristrettissimo, tentando di esorcizzare le grida sconnesse di fastidiosissimi fantasmi interiori. La sua voce è al contempo calda e tagliente. Ha un timbro "profetico", da Ian Curtis con la barba bianca. Di solito, più che cantare, declama, probabilmente tenendo conto anche delle sue esperienze nel campo del teatro d'avanguardia. L'iniziale "No She Never Made It To Japan" è un brevissimo acquerello impressionista, dipinto con i colori tenui di un piano solitario. Al girotondo millenario di "In Our Time", che srotola un tappeto di accordi riverberati da uno spazio vuoto, segue "The Opportunity Passed Us By in Less Than a Minute", altro piccolo paesaggio sonoro tratteggiato con tocchi soffusi ed eleganti.
La ciclicità ossessiva di "Down From That Hill And Up To The Pond" è un omaggio particolarissimo alla psichedelia spaziale dei Bardo Pond. Un arabesco di chitarre sfuggenti e, al contempo stratificate, ripete una sorta di loop estatico, su cui danzano, volteggiando, figure minimali di synth. L'effetto è falsamente statico, come nei monoliti tumultuosi dei fratelli Gibbons. La title track è musica da camera per sonagliere, a differenza di "Kafka Was Correct" (insomma: la vita non merita di essere vissuta.) che si trascina in un delirio mistico fatto di chitarre taglienti ma costrette a ripetere le stesse note all'infinito; di voci crepitanti e altre private della benché minima possibilità comunicativa; di rigagnoli sintetici e scheletrici, spolpati di qualsiasi profondità. In "Catherine At Aldeburgh", invece, la chitarra riacquista luminosità, anche se la progressione dà l'impressione di perdersi, poco alla volta, in un vicolo cieco. E' probabile che in questo suo indugiare sugli stessi, semplici accordi, Montgomery stia cercando di ottenere un effetto ipnotico capace di attuare una risoluzione "dall'interno" delle fratture psicologiche.
L'effetto di trance è meno oppressivo in "Entertaining Mr Jones": la litania cadenzata della prima parte lascia il posto, infatti, a una seconda tutta giocata sull'accumularsi "implosivo" di linee deformi di synth e accordi franti di chitarra. Montgomery è un compositore eccezionale; uno dei pochi capaci di far convivere, in maniera elegantemente creativa, il calore intimista del miglior cantautorato con l'intellettualismo "umano" della vera avanguardia. La dolcezza intimorita del piano ritorna nella mini sonata di "The Small Sleeper (For Jack)", con i soliti, sinistri rumori di sottofondo. E' una "fourth world music" perversamente psichedelica (ma di una psichedelia vagamente "esotica") quella che, invece, troneggia incontrastata in "Algeria?". Dal canto suo, "A Little Soundtrack (For Epic)", introdotta dal suono inquietante della chitarra (filtrata attraverso un processore) e scandita da un piano follemente inchiodato agli stessi accordi, riconduce l'esperienza di "Well Oiled" a un infernale diatriba tra musica dissonante e divagazioni melodiche.
Il culmine di questa ricerca tanto personale quanto universalistica è senza dubbio negli oltre undici minuti di "Ill At Home". Il punto di vista è, per l'appunto, quello di chi è costretto a letto da un malanno ("psichico", come nell'Oblomov di Goncarov) e che, nel possibile, cerca di evadere. La forza "onirica" di queste premesse si ritrova potenziata lungo tutto il brano: come da manuale space-rock, la chitarra delimita i confini spazio-temporali mediante una scansione meccanica. Ma è, invero, uno space-rock incredibilmente claustrofobico, così come confermato anche dalla voce "silente" di Montgomery e dalle traiettorie sinuose e avvolgenti del synth. Il piano è l'unico strumento che sembra conferire al tutto un tocco malinconicamente "terreno". Tutto il resto, infatti, è proteso, minimalisticamente, verso l'alto, in una liturgia della quiete siderale, in una celebrazione della potenza immaginativa del cuore e della mente. In un solo brano, il neozelandese riesce a condensare mirabilmente le litanie parossistiche dei Dadamah, le escursioni ultra-terrene degli Hash Jar Tempo e l'ambient-music rumorista dei Dissolve. Il risultato è un capolavoro nel capolavoro, a cui il nostro affida la vera conclusione del disco, dato che "In Another Time" sembra "semplicemente" riprendere il tema di "In Our Time"; anche se, rinvigorito, com'è, da un'ariosità rigenerante, mostra un piccolo spiraglio di luce in fondo al tunnel.
Ancora una volta, un uomo venuto da lontano e un disco che non è un sogno, ma che ha tutta l'aria di esserlo.
02/11/2006