Registrato il 26 marzo del 1995, ma pubblicato solo due anni dopo, "Well Oiled" è senza dubbio il capolavoro del progetto Hash Jar Tempo, varato dal neozelandese Roy Montgomery (uno dei massimi musicisti degli ultimi anni) insieme ai Bardo Pond (i fratelli Gibbons alle chitarre; Clint Takeda al basso; Joe Culver alla batteria; unica assente, la cantante e flautista Isobel Sollenberger).
"Well Oiled" è un'opera monumentale; un inno alla potenza chiarificatrice della Musica: 78 minuti di psichedelia ultra-dilatata e delirante, venata di kosmische-musik, di space-rock granulare e straripante di un'intensità "wagneriana". Una vera e propria "suite", il cui unico collante è, per l'appunto, il delirio, il suo infinito tendere verso una catarsi fatta di un unico suono totalizzante.
Il volo onirico di "Dark Star" (Grateful Dead) si è fatto eterno, circolare. I sibili intermittenti e le frequenze astrali di "Interstellar Overdrive" (Pink Floyd) hanno acquisito un'abrasività magmatica e tumultuosa. Più che semplici jam strumentali, quelli di "Well Oiled" sono buchi neri, intenti a risucchiare tutto lo scibile psichedelico (e non) concepito in circa trent'anni di rock. Qua e là affiorano brandelli di mastodontici "rituali spaziali" (Gong, Hawkwind, Ash Ra Tempel), schegge di follia sonnambula ma pericolosamente visionaria (Peter Green), lamenti siderali di impressionante spiritualità (Cluster, Klaus Schulze), trance esasperate ed esasperanti (Velvet Underground + Neu! + Glenn Branca), rigurgiti mantrici (Popol Vuh) e bolgie supersoniche (Chrome). Il "viaggio" è diventato definitivamente "metafisico": la presenza di tre chitarre elettriche lascia che si sprigioni una massa imponente di emozioni, germogli inconsci alla ricerca di una qualche possibile razionalità.
È tutto un gioco di "interplay". Di triangolazioni spericolate. Solitamente, le progressioni sono assordanti, cariche di droni apocalittici, martellanti ed estenuanti. Ma nel loro distendersi impetuoso, le chitarre fluttuano libere e indisturbate, spesso scandendo all'unisono un terrificante inno astrale. Per questo, ma non solo, rispetto a tutte le altre grandi jam psichedeliche della storia del rock, "Well Oiled" sembra una vera e propria "ultima Thule", un anfratto oscuro e, al tempo stesso, luminosissimo di incredibile forza spirituale, capace di porsi nei pressi del caos sonoro senza lasciarsi inghiottire. Questa è musica altamente drammatica: il suo compito è quello di rappresentare quella vicinanza, non certo quello di darne un'immagine concreta. La rappresentazione si pone come trascendenza: sospesa in una sorta di limbo, a metà strada tra il sogno e la realtà.
Da un punto di vista "compositivo", la parola chiave è "sintesi". Sintesi come estenuante ricerca di un filo sottile che sia capace di porsi come essenza di tutto ciò che è "psichedelico" (in campo musicale e non). E, alla fine, sintesi come superamento dello stesso concetto di "psichedelia". Fatto non trascurabile, poi, è che non esistono titoli; solo durate. Tempi che non corrispondono a quelle misurazioni, perché non possono. Perché la musica sigilla altri accordi: con una presenza eterna, che tralascia i numeri e le lancette, e blocca i paesaggi e le persone dentro una bolla di vetro, come su di un palcoscenico dove non esistono personaggi e canovacci, ma solo un'unica, spaventosa visione.
La traccia 1 (13.33) inizia con un passo scomposto di batteria, degli accordi di chitarra e dei riverberi sempre più vicini, sempre più caldi. Gli strumenti sembrano vascelli sballottati da un mare in tempesta. Sulle decelerazioni della batteria, si schiantano i cromatismi al napalm delle chitarre. A un tratto, Montgomery lascia che il suo tocco diventi più riconoscibile: le sue peripezie sono tanto terrene quanto spaziali; l'incedere è cristallino ma, al tempo stesso, sudicio, malsano, febbrile. Come quando, a 5'58", la sua chitarra inizia a urlare senza sosta, in preda ai demoni della mente e del corpo. Uno dei momenti più alti. La catastrofe è dentro quelle mazzate ovattate che Culver vibra sui piatti; tra le scale perpendicolari e impercettibili del basso di Takeda (una pulsar morente dentro una tempesta di asteroidi impazziti); dentro quelle micro-polluzioni armoniche che i fratelli Gibbons spargono sul respiro ansimante di questa prima, magistrale sinfonia dello spazio infinito. Flusso di coscienza per astronauti disperati: per sempre vagabondi nel nulla. Psichedelia.
La traccia 2 (1.58) sembra un omaggio, dolente e rabbioso, al miglior Peter Green, ai suoi scenari lugubri, alla sua spiritualità deforme e pagana, pregna di esalazioni chimiche. I lenti vagiti dondolanti che introducono la traccia 3 (13.05) aprono il campo al planare sonnacchioso della mente. È una lenta ascesa verso quel suono totalizzante cui accennavo più sopra: un'ascesa tanto difficile quanto solenne; tanto languida quanto, in fondo, drammatica. Scansione minimale di feedback intarsiati, echi sbilenchi e armonici in apnea. Sibilare tetro e minaccioso del Vuoto. Ipnotica risonanza "cosmica". In fondo, una serenata per le stelle più lontane. Dal canto suo, invece, la traccia 4 (11.09) si lancia in un tumulto magniloquente ed inarrestabile di space-rock. Culver è furibondo, indemoniato. Secco e preciso (anche se tenuto in disparte), il suo drumming regge tutta l'impalcatura, nonostante le detonazioni atomiche dei fratelli Gibbons e gli assoli intergalattici di Montgomery spingano questa meteora in fiamme sempre più a fondo, in un lago scintillante di timbri e di risonanze velenosissime.
Dagli abissi giungono i droni cosmici e le vibrazioni metalliche che fanno da cornice alla preghiera solitaria e universale della traccia 5 (13.51). Accecanti oscurità procedono per frammenti dentro un grandioso scenario di apocalisse imminente. Cluster e Jerry Garcia a braccetto per valli silenziose e dolorosamente "impraticabili". Roy Montgomery sulle scogliere della pre-esistenza come un bardo muto. Il suo chitarrismo sospeso nel vuoto, pregno malinconia e di rassegnazione (si vedano soprattutto il suo "Temple IV" e "This Is Not A Dream" dei Dadamah), sigilla un patto indissolubile tra melodia e rumorismo: l'uno come simbolo di un'arcana pacificazione con il mondo; l'altro come riflesso vivido di tormenti interiori. Da questo scontro "apparente", nasce un maestoso saliscendi, che segue, dentro quegli accordi lanciati verso un cielo nero-catrame, le tracce più evidenti di un cammino millenario. Tuttavia, negli ultimi minuti, ciò che poco prima era estasi diventa fragore, epilessia sonica, mentre geyser elettronici spingono gli ultimi sospiri della sei corde dentro un vortice di rumori dissolutori.
Il balletto ultraterreno della traccia 6 (18.44) sboccia come un battito soffice, ma sempre più ipnotico e distorto. Battito come apoteosi della vita, intenta a generare manifestazioni su manifestazioni di bagliori divini. È il viaggio più lungo, più ossessivo. Apparentemente statico, ma sfiancato da variazioni infinitesimali che lo espongono continuamente al rischio di un collasso "definitivo". Il tocco jazzato di Culver conferisce all'intero brano un'andatura altalenante. Questa volta il suo apporto è più fisico, meno subdolo e straniante. Al suo fianco sfrecciano, sospinte da un vento siderale, le scansioni tintinnanti delle chitarre, capaci di innalzarsi in un volo tanto epico e sublime da chiamare in causa i magniloquenti scenari cosmici di "Irrlicht" (Klaus Schulze).
Il delirio è completo, totale, disperso fra le galassie come il suono sotterraneo del big-bang, amplificato da qualche folle congrega di alieni emarginati. Non è più l'uomo a generarla: è la musica che lo rapisce e lo scaraventa in un baratro senza fondo. Le chitarre sono morenti. Gemono in un letto di fiori marci. Tutto quello che possono fare ancora è vomitarsi una addosso all'altra. Il resto è bisbiglio. L'essenza che cercavano, impavide (traccia 7; 6.01).
30/10/2006