
Se prendiamo in analisi il primo tentativo di full-length, quel New Amsterdam uscito in cd-r nel 2009 (sempre per Sacred Bones) possiamo scavare tra i suoi ostacoli rumoristici e la sua, talvolta, opprimente monotonia psichedelica per trovarvi l'elegia lo-fi di un dream-pop in cerca di un raggio di luce, oppure il fiero rigurgito post-punk di un amante dei Suicide più malati e corrosi come della no wave più acida ("New Amsterdam", "Odessa", "Dogs"). Un'anima che sa raccontare una tragicità metallica, tagliente, cinica e lirica al tempo stesso, come nell'ottima "Last Day", perla di un nero opaco che nasconde dentro di sé la forza vocale della futura Zola Jesus.

Nasce così l'Ep Stridulum, che avrà due versioni, americana ed europea (con tracklist diversa), e l'immagine di una cantante immersa in una notte diversa, non più sperduta dentro un orizzonte post-atomico o qualche incubo lo fi–goth, ma capace di cucire le diverse anime di uno stile che unisce la spiritualità eterea con le luci al neon di una geometria urbana alienante.
Se "I Can't Stand" nuota tra amore e morte, e "Night" danza malinconicamente, sensualmente, durante una lenta fuga notturna da una solitudine glaciale, è la title track che ci mostra l'animo di una crisalide, sospeso su un livello di riflessione mistico, una specie di meraviglioso soliloquio a occhi chiusi in cui si vuole raggiungere lo spettro di Meredith Monk.
L'aspetto psichico di Stridulum si può denotare sin dal titolo, che cita un vecchio film cult del 1979 imperniato sui poteri paranormali in una lotta tra bene e male; una visione piacevolemente contorta della realtà che troveremo ancora più distorta nella sua collaborazione con Amanda Brown (Pocahaunted) e il suo progetto LA Vampires.
LA Vampires Meets Zola Jesus è un Ep interessante e forse un po' troppo sottovalutato dalla critica che ha seguito il percorso rapido di Nika. Un vinile uscito per l'etichetta underground più hype di sempre, la Not Not Fun di San Francisco (co-fondata dalla stessa A.Brown), in cui troviamo la nostra giocare e danzare tra pattern sonori al confine tra il tribale e un free-synth che trasmutano la sua forza vocale in un immaginifico nuovo e spettrale.
Il trittico "Searching", "Vous" e "Bone Is Bloodstone" è esemplifico di questo mondo trasmutato dalla cupa lirica di Zola Jesus e dalle trame psichedeliche di LA Vampires, dove nebbie a bassa fedeltà si mischiano a ritmiche pesanti e storte per lasciare spazio solo a raggi di luce saturi di colori acidi.

"Avalanche" (con gli archi suonati da Sean McCann e Ryan York) e il singolo "Vessel" aprono idealmente il disco a un orizzonte senza punti di riferimento, immerso in uno spazio osmotico di eterna drammaticità. Si muoveranno successivamente dei battiti electro e techno fra le diverse Hikikomori", "Shivers" e "Ixode", deframmentazioni dell'animo in forme più contorte e plastiche, in cui ormai l'attitudine DIY e lo-fi si è del tutto persa.
Le conclusive "Skin" con il suo drappeggio pianistico e la furia nichilista di "Collapse" muovono gli ultimi secondi del crepuscolo di un disco intenso e difficile da ascoltare con leggerezza, ricco di sfumature dense e intrecciate in una coerenza estetica molto forte. Una visione concettuale, quella di Conatus, che ha impressionato in maniera eterogenea sia la critica musicale che la scena attorno, producendo numerosi cloni tra gli orfani del tramonto Witchouse e affascinando artisti inaspettati, come il regista David Lynch. Questi era in procinto di uscire quasi nello stesso periodo con il suo primo vero debutto a suo nome, "Crazy Clown Time", e trovò nel brano "In Your Nature" di Zola Jesus un ottimo punto di partenza per un remix che cambiasse la struttura intima del suono, convertendolo a un approccio più chitarristico e rugginoso.
Una scelta sicuramente coraggiosa che taglia molti legami con il passato originario e che mostra un'artista capace di raccogliere e seguire i molti indizi e sentieri che trova sul suo cammino, assimilandoli e crescendo con essi.
Se Conatus indicò la strada, adesso tocca a Taiga, primo lavoro pubblicato sotto l'egida della Mute, percorrerla fino in fondo, raggiungere, finanche toccare, quegli sprazzi di luce che avevano rischiarato la fitta tenebra attorno a Zola Jesus. E quella luce deve averla conosciuta davvero, anche soltanto per un istante, a giudicare dalle affermazioni della stessa Danilova, che ha candidamente asserito di considerare proprio questa sua ultima fatica il suo esordio effettivo. Impossibile determinare con precisione quale motivazione si celi dietro a un'asserzione così pesante, è indubbio però che la determinazione della musicista di guardare avanti, incurante del proprio passato e della "legacy" che è riuscita a costruirsi in tutta la sua carriera, sia quantomeno ammirevole: un'ostinazione che sa superare steccati e legittime (o meno) aspettative, per proiettarsi oltre, alla ricerca di un pubblico mai prima d'ora cercato con tanto desiderio. Un aggiustamento di rotta più comunicativo che strettamente musicale, insomma: eppure, ben più di un nodo viene al pettine, all'ascolto di un lavoro che disattende in larga misura gli obiettivi che si era prefissato.
"Dangerous Days" (pensata comunque per il precedente disco), singolo di lancio di questa quarta fatica, sembrava mettere in chiaro che la linea tratteggiata da "Vessel" e "Seekir", battito electro-pop minimale e brillante senso della melodia, non sarebbe stata soltanto una parentesi estemporanea da riporre nel cassetto a progetto concluso. Pure "Dust", con la sua ambizione di rimodellare le sinuosità dell'r&b alla luce delle sfumature teatrali del proprio timbro, tutto sommato si staglia come brano che in una scaletta ipoteticamente diversa avrebbe saputo indubbiamente il fatto suo. I problemi sorgono nell'approcciarsi ai rimanenti pezzi della collezione, nei quali a prevalere è sovraccarico, un affastellamento senza grande progettualità di idee accomunate da un senso di tronfia grandeur che affossa del tutto quel poco che nella scrittura riesce a risaltare. Piuttosto che sulle melodie, alla fine l'elemento principe in un disco che vorrebbe definirsi pop, l'attenzione si sposta su tutto il resto, dalla produzione, rifinita di tutto punto, agli arrangiamenti, forti addirittura di un'intera sezione orchestrale (che a tratti potrebbe addirittura azzardare di guardare in alto verso i vertiginosi madrigali di Sam Rosenthal) nonché di una diffusa ambience ottenuta attraverso l'utilizzo di sparsi effetti vocali. Tanta ricchezza sonora, un dispiego importante di soluzioni e accorgimenti che se da un lato trova spesso l'adatta via espressiva (la marcia digitale di "Lawless", la techno da camera di "Hunger"), dall'altro non trova sostegno in una forma canzone troppo sfilacciata, spesso davvero ridotta ad un'impronta, all'idea di quello che potrebbe/dovrebbe essere.
Paradossalmente, nella sua rottura così eversiva da Stridulum il sottovalutato Conatus colpiva nel segno con una precisione e un'accuratezza che Taiga al più può soltanto immaginarsi: ripartire dalle ottime intuizioni di quel lavoro, ripensarle e ricalibrarle potrebbe rivelarsi la tattica vincente.
Ed è proprio da quelle intuizioni che Okovi ha tratto spunto. Fallito miseramente il progetto di un assalto alle classifiche da parte di Nika Roza Danilova, il ritorno nei ranghi della Sacred Bones, l'etichetta che l'ha lanciata, accudita e portata a inizio decennio a diventare una stella di prim'ordine nel firmamento dark mondiale, dice di un ripensamento sostanziale sulla direzione da imprimere alla propria carriera, sotto ogni aspetto considerabile. Lo testimonia la cover, decisamente meno angelica e ricolma di quella pece nera che ricopriva del tutto i tratti del volto ai tempi di Stridulum, un titolo in slavo traducibile con un inquietante "ceppi, pastoie", ma soprattutto un abbandono deciso dell'asepsi electro-pop che aveva contraddistinto l'ultima prova in studio, per un recupero del pathos e delle atmosfere più tenebrose e opprimenti degli esordi. Il risultato coniuga i linguaggi toccati dall'artista nel corso del suo percorso oramai decennale, catalizzandoli in una raccolta febbrile e intensa, che riporta Zola Jesus di nuovo su un'insperata retta via. È tutt'altro che una cosa da poco.
Occorre comunque chiarire come lo sguardo gettato al passato non possieda alcuna connotazione nostalgica, un desiderio di tornare all'epoca più fortunata dal punto di vista artistico. Con la mente sempre proiettata alla prossima mossa, Danilova effettua in Okovi una riconversione in chiave pop (talvolta sconfinando in territori prossimi addirittura alla techno e la dance) delle ambientazioni plumbee e sinistre dei primi album, coniugando quindi ad esse non soltanto la maggiore accessibilità melodica acquisita negli ultimi anni, ma anche interpretazioni più piene e corpose, che riflettono l'estrazione classica dell'autrice. In un lavoro contrassegnato da un senso costante di dolore e afflizione, in cui il fraseggio spinge sul lato più emotivo della vocalità dell'autrice, anche con qualche discreto tentennamento la penna intercetta una memorabilità che passa per refrain imponenti, costruzioni cesellate al millimetro, una gestione degli spazi sonori che sa potenziare a dismisura la necessità dei vuoti e le esplosioni dei pieni, in una raccolta che a suo modo centra nel presentare Danilova nella maniera più immediata e "popular" possibile.
Non che l'enfasi sia stata prosciugata, anzi, se per questo ci si trova di fronte al disco più rigoglioso ed elaborato della musicista, quello in cui i dettagli sonori rivestono importanza talvolta pure superiore al resto. In questo senso, il canto dai toni lirici di Zola Jesus, consapevole del dramma che si agita nel fitto comparto lirico dei brani, trova un corrispettivo perfetto nelle poderose aperture d'archi e nel ritorno di trame elettroniche al confine con l'industrial, che svaporano quasi del tutto le velleità dance delle precedenti prove. Il discorso si fa più articolato e affascinante, in un'intersezione stilistica che sposa spunti folk e attitudine neoclassica in una suggestiva ambientazione electro-gotica. Ne vengono fuori poderose romanze su cui Danilova costruisce melodie degne della sua estrazione operistica, ma anche suadenti motivi dark-pop in cui trasformare la catatonia espressiva di Lana Del Rey in un crogiolo di affascinanti pad cameristici e secchi beat di stampo industrial-hip-hop (il bel singolo "Soak", una sorta di fastoso aggiornamento dell'estetica asettica presentata dapprima in Conatus), come imponenti sinfonie in cui il comparto strumentale si evolve e si frange su se stesso, tra potenti staccati cameristici e improvvise scariche di elettricità, per un affascinante incontro-scontro tra mondi.
Nonostante vicissitudini personali e familiari che l'hanno vista partecipe di un periodo non propriamente facile della sua vita, pare comunque che il peggio sia passato, e che nuova linfa abbia cominciato a rifornire la fonte ispiratrice di Nicole Hummel, che nonostante le pastoie decantate dal titolo ha ritrovato una libertà espressiva e un coraggio da tempo oramai perduti. Se comunque non manca ancora qualche tentennamento di scrittura, ciononostante Okovi ritesse le fila di un percorso che pareva smarritosi per sempre, riportando di nuovo il nome di Zola Jesus e la sua conturbante anima dark sotto i riflettori. Per adesso si può essere più che soddisfatti.
Contributi: Vassilios Karagiannis ("Taiga", "Okovi")