Solo due 7 pollici pubblicati (i mediocri "Poor Sons" e "Soeur Sewer") e già un piccolo culto per Zola Jesus, da Madison, Wisconsin. Misteri dell'underground americano, o, forse, sarebbe meglio dire di quella pseudo-scena tutta al femminile che risponde al nome di Crimson Wave, dove ragazzacce incazzate e annoiate rispondono colpo su colpo proponendo un suono primitivista e urticante, pur senza mai perdere di vista il formato (?) canzone (?).
Zola dovrebbe essere la migliore di tutte e per verificarlo aspettavamo proprio questo "New Amsterdam", cd-r che la vede alle prese con quello che potremmo tranquillamente definire, con un po' di coraggio, lo-fi bedroom psych wave. Non gridiamo al miracolo, ma questo suo primo lavoro sulla lunga distanza presenta un'artista sicuramente più conscia dei propri mezzi, anche se i limiti dell'operazione sono piuttosto evidenti (una certa monotonia di fondo, per dire).
Apre "Odessa": già presente su "Soeur Sewer", qui viene spogliata di quella claustrofobia tipica dei primissimi Suicide, per trasformarsi in un salmodiare tedioso (Lydia Lunch + Siouxsie Sioux), tra drumming tribale e aliene vertigini sintetiche. Similmente, procedono senza variazioni di rilievo, "Dog" e "Orthodox", come una processione desolata verso la fine, un calvario di lamenti e pulviscoli elettronici che sembrano sotterraneamente incitare al suicidio... O è solo suggestione?
Zola è una donna che ne ha viste tante, sia chiaro. Non c'è nemmeno bisogno di indagare a fondo - basterebbe, infatti, una "Last Day" in cui la voce modula tensioni operistiche. Questa musica parla per lei, dopo tutto. Ma parla una lingua che, pur se "personale", non riesce ancora a giustificare lo status di next big thing che qualcuno ha voluto affibbiarle.
Se il materiale emozionale è, infatti, quello che è, la sua trasfigurazione musicale si risolve in un affare fin troppo superficiale, mai davvero "tragico" e "altisonante" come dovrebbe. Con quella voce che è solo un lamento vago e indistinto, riesce, così, a perdersi tra subliminali, quanto poco incisive variazioni electro (la title track, "Nativity") e giochini fin troppo inconcludenti ("Be Your Virgin").
Ma anche nei momenti di un certo interesse (le scansioni industriali e i corpi harsh-noise in defibrillazione di "Lady Maslenitsa" e il dream-pop radioattivo di "Lady In The Radiator"), la signorina riesce semplicemente a sussurrarci, tra le righe, che è meglio fidarsi delle proprie orecchie che dei presunti hype.
20/03/2009