Prosegue senza passi falsi la saga dei Black Mountain, un percorso che ha assunto nel tempo le sembianze di un monolite con le radici ben innestate nell’hard psichedelia figlia dei decenni 60 e 70. “Destroyer”, quinto capitolo della formazione canadese, allunga ulteriormente la striscia virtuosa, confermando un rendimento sul quale siamo ormai certi di poter investire a occhi chiusi.
Nei mesi che hanno preceduto la pubblicazione di “Destroyer” si sono succeduti alcuni cambi di line-up, anche molto importanti: Amber Webber, da sempre voce femminile del gruppo, in grado di dare un’impronta determinante a tante composizioni, e Joshua Wells hanno abbandonato la partita, sostituiti da Arjan Miranda, Rachel Fannan (Sleepy Sun) e Adam Bulgasem (Dommengang, Soft Kill). Sono invece intervenuti a dare il proprio contributo estemporaneo Kliph Scurlock (Flaming Lips), Kid Millions (Oneida) e John Congleton (St. Vincent, Swans).
Anticipato dai due singoli “Future Shade” e “Boogie Lover”, dei quali il primo è considerabile il nuovo inno ufficiale, con “Destroyer“ la formazione guidata da Stephen McBean da un lato punta sul sicuro, assestandosi spesso su strade confortevoli gia ben percorse in passato, come nel caso di “Horns Arising”, che miscela chitarroni, vocoder e intermezzi bucolici a due passi dal prog, della più heavy “Licensed To Drive” e dell’intermezzo a tinte space “Closer To The Edge”.
In altri momenti, la band cerca invece di sorprendere: non tanto puntando sul vorticoso glam di “High Rise”, quanto nel mirabile lavoro di sintesi svolto su una “Pretty Little Lazies” in grado di centrifugare modalità sonore appartenute a Doors, Jeff Buckley, Sabbath e Barrett, e soprattutto nella conclusiva “FD 72”, avvolta in spirali proto-wave che rimandano al Bowie berlinese. Elementi di svolta che iniettano in “Destroyer” una rinnovata vitalità, qualificandolo come step interlocutorio verso un promettente futuro che non intende lesinare novità.
27/05/2019