E’ proprio una cattiva ragazza, Marissa Nadler, sempre in compagnia di personaggi loschi come il doomer Stephen O'Malley, il gruppo black-metal dei Xasthur o i visionari Okkervil River. Non stupisce, dunque, questo nuovo gemellaggio con Stephen Brodsky (Cave In, Mutoid Man, New Idea Society e Old Man Gloom) frutto di un incontro avvenuto anni fa e che solo ora i due musicisti hanno concretizzato con un progetto discografico.
“Droneflower” mette a dura prova i confini artistici dei due protagonisti, sviluppando idiomi espressivi in parte inediti. Il punto d’incontro tra il canto cristallino e da mezzo soprano della Nadler e il bagaglio metal, hardcore e progressive-rock di Brodsky giace nell’oscurità e nel sempre affascinante mondo del gothic-folk.
E’ un disco frutto di continue mutazioni progettuali, concepito in origine come una potenziale colonna sonora di un film horror, di questa idea primigenia resta solo l’intensità delle immagini che la musica riesce a evocare.
Marissa Nadler non è stata mai cosi intensa e brusca, e Stephen Brodsky non è mai apparso così incline alla dolcezza come in “Droneflower”. Tutto avviene senza alcun minimo sforzo da parte dei protagonisti, quasi come se le dieci canzoni fossero già state create in un universo parallelo, in attesa solo di essere catturate e rivelate ai comuni mortali.
Nulla che non fosse già noto, tuttavia, come quando un pittore cattura la poesia di un tramonto svelandone sfumature inedite, così le istantanee sonore lievemente dissonanti dei due musicisti rinnovano stupore e meraviglia.
Una cover di “Estranged” dei Guns & Roses fa bella mostra di sé al centro della sequenza dell’album, dando vita a uno dei momenti più epici e suggestivi, con Brodsky che dilata e rallenta il brano mentre organo e fuzz-guitar conducono per mano la voce della Nadler, che si adagia con naturalezza su note dolorose e gelide. A far da leit-motiv per le atmosfere di “Droneflower” sono le minimali e cinematiche “Space Ghost I” e “Space Ghost II”: due strumentali dalle sonorità molto introspettive e funeree, scandite da toni grevi di piano, echi lontani della voce e chitarre acustiche appena percettibili. Ed è in questi spazi oscuri che Brodsky architetta alcune delle più interessanti e intriganti incursioni musicali: prima con una serie di accordi agrodolci di chitarra elettrica in “Watch The Time”, poi con ruvidi e spettrali accordi mutanti che confondono la percezione delle evoluzioni vocali, spostandosi da atmosfere eteree e vellutate verso toni più cupi e ancestrali.
Una spiritualità più ruvida e malvagia s’impossessa di “For The Sun”, con i due musicisti che danzano su agili accordi elettrici e ululati sonori, restando abilmente in bilico tra sogno e incubo. Una sinergia che si ripete in parte nell’altra cover del disco, ovvero “In Spite Of Me” dei Morphine, che i due musicisti profanano con delicato candore, chiamando Dana Colley e il suo sax, in supporto di un’altra pagina emblematica e carismatica di “Droneflower”.
Con la speranza che questa collaborazione abbia un seguito, non si può tacere della magia di “Buried In Love“ o della viscerale dolcezza di “Shades Apart”, altri tasselli di un puzzle multicolore che apre interessanti prospettive future.
Quella che sembrava un’estemporanea destinata solo ai fan più curiosi di Marissa Nadler si rivela invece un piccolo scrigno di preziose gemme. Con l’aiuto di Stephen Brodsky la cantautrice ha scoperto un altro lato oscuro della personale e complessa dimensione artistica.
A volte le cattive compagnie aiutano a crescere.
18/05/2019