Accostarsi a un nuovo disco di Marissa Nadler è sempre operazione delicata. Bisogna varcare le soglie di un mondo intimo e appartato, dove spiriti e fantasmi si agitano nell'ombra, appena rischiarati da una fioca fiammella. Serve una sorta di transfert emozionale per decifrare l'incanto antico delle sue ballate, così spoglie, eppure così dense di suggestioni e inquietudini. E accade lo stesso anche con "Little Hells", quarto album in cinque anni della damigella del Massachusetts. Dieci passi nel buio che confermano l'impronta personale del suo songwriting e tuttavia solo in parte seguono la falsariga musicale dei lavori precedenti.
La novità sta anzitutto nel cast che si è riunito attorno a Marissa, sotto l'egida della nuova etichetta, la newyorkese Kemado. In cabina di regia, il duo formato da Chris Coady (Cat Power, Tv On The Radio, Blonde Redhead, !!!) e “Farmer” Dave Scher (fondatore di Beachwood Sparks, All Night Radio e Future Pigeon, nonché collaboratore di Elvis Costello e Interpol), mentre Simone Pace, batterista dei Blonde Redhead, affianca Myles Baer aka Black Hole Infinity, polistrumentista da tempo collaboratore della Nadler. Ne scaturiscono arrangiamenti più ricchi e corposi, innervati dall’elettronica e da una sezione ritmica decisamente più robusta rispetto al passato. Niente di posticcio o artefatto, comunque: il nuovo sound funziona, anche se a volte finisce col sacrificare un po' quel fingerpicking in cui Marissa notoriamente eccelle.
Approdo estremo di questo new deal è la vorticosa "Mary Comes Alive", dove un pattern di drum machine detta una cadenza ossessiva, su cui si innestano una ostinata progressione di chitarra e una linea di synth che si fa via via più penetrante. Una cornice così spessa non mina, però, l'interpretazione della Nadler, alle prese con un'altra commossa riflessione sulle stagioni dell'amore e della vita (“I know we had a beautiful life, but things changed”...). Anche il singolo "River Of Dirt" poggia su una sezione ritmica tirata a lucido, con il drumming potente e un incalzante riff di basso a irrobustire le tonalità eteree del canto, mentre la conclusiva "Mistress" suona quasi allegra, nel suo incedere country tra le pennellate cariche di echi della slide.
Abbandonata la carovana polverosa del folk-revival, di cui rappresentava al contempo l'ala più "eterodossa" e tradizionalista (più Cohen-Baez-Mitchell, meno Banhart-Newsom-Foster, in sintesi), la cantautrice americana volge lo sguardo verso i lidi placidi e trasognati del dream-pop e di quel pop psichedelico portato all'apogeo dai Mazzy Star, ma senza tagliare le sue radici, ben salde alle pendici dei monti Appalacchi. Abile dispensatrice di incanti onirici, Marissa soffia parole di vetro nel carillon-thrilling di "Heart Paper Lover", si strugge nella ninnananna diafana di "Brittle Crushed And Torn", pizzicata sulle corde della chitarra, e tiene in bilico su due note di piano il requiem di "The Whole Is Wide" ("The man she loved best... died in a fiery crash"). La sua voce, sempre angelica e mesmerica, resta lo strumento principe, capace di cambiare faccia ai brani con un solo sospiro. E allora a volte può bastare anche il minimo degli orpelli, come nella title track, ritratto di un cuore in frantumi su tela dream-country, o nell'arpeggio ostinato di "Ghosts And Lovers", sconsolata litania col cuore in gola ("ghosts and lovers will haunt you for a while/ from the stars and from the sheets and from the ground"). Brani sì scarni, ma altrettanto ricercati, e a volte persino con un pizzico di autocompiacimento di troppo.
Le qualità "atmosferiche" del sound della Nadler riemergono soprattutto dal vortice di "Loner", dove è un organo sepolcrale a reggere il gioco, assieme all'effetto-drone della chitarra acustica e ai refoli dei synth, che sibilano sinistri sullo sfondo.
Dovendo però individuare un brano che condensi al meglio tutte queste intuizioni, la scelta cadrebbe su "Rosary", un valzer di seducente bellezza, cullato nei riverberi di una slide guitar e su melodie vocali che sembrano provenire direttamente da un altro mondo.
Proseguendo sulla strada inaugurata con "Songs III: Bird On The Water", Marissa Nadler amplia ulteriormente il suo spettro sonoro e affina il suo songwriting all'insegna di una sofisticata eleganza, che solo a tratti compromette la nuda visceralità del suo approccio. Un passo avanti rispetto al predecessore, in ogni caso, anche se il traguardo formale ed emozionale di "The Saga Of Mayflower May" resta distante.
Valore aggiunto, lo storytelling di questa poetessa dal gusto noir, influenzata da Edgar Allan Poe e dai risvolti più foschi dell'età Vittoriana.
21/02/2009