Josephine Foster

Josephine Foster

Lo scrigno della sirena

Rivisitando lieder e arie classiche con arrangiamenti e strumentazioni mutuati, di volta in volta, dal blues acustico, dall’acid-folk, dal jazz delle origini o dal cerimoniale degli indiani americani, la Foster ha adattato il suo soprano spettrale e il suo picking scarno alla maniera freak in auge negli anni 2000. Un percorso culminato su “This Coming Gladness”

di Simone Coacci, Davide Ariasso, Gianfranco Marmoro, Alessandro Biancalana

Una mìse pallida, sottile e preadolescenziale. Una giovinetta diafana sul punto di sbocciare. I capelli lisci e tesi come un’ala di corvo. Gli abiti larghi e scuri a un pezzo solo che ne ingombrano le forme fino a renderle impalpabili. A vederla aggirarsi di notte, al chiaro di luna, potresti scambiarla per il fantasma di Emily Dickinson. Ma, come succede spesso, l’apparenza inganna: anche se suona una musica senza tempo, Josephine Foster è una delle più eminenti figure cantautorali della sua generazione, una ragazza con i piedi ben piantati nel presente, una delle capofila (con Marissa Nadler, Joanna Newsom, Jana Hunter e gli Espers) del movimento New Weird America, per certi versi, l’equivalente femminile di Devendra Banhart

Cresciuta in Colorado dove a quindici anni era già una cantante professionista che, con la sua voce acuta e cesellata, allietava le platee agli eventi più disparati (dai matrimoni ai funerali, passando per tutte le altre funzioni religiose), bruscamente terminati gli studi d’arte (un “opera-school dropout” si definirà poi), si stabilisce infine a Chicago dove, passo dopo passo, ottempera una teoria musicale votata al progressivo abbattimento degli steccati, per lei incomprensibili, che separano la musica “alta” dalla tradizione popolare. Rivisitando lieder e arie classiche con arrangiamenti e strumentazioni mutuati, di volta in volta, dal jazz delle origini, dal blues acustico, dall’acid-folk o dal cerimoniale degli indiani americani, la Foster ha adattato il suo soprano ululante e spettrale, incentrato su libere variazioni micro-tonali e melismi stile theremin, il suo picking scarno ed evocativo aperto a fughe e digressioni, alla maniera freak in auge negli anni 2000.

Josephine FosterNei quattro album pubblicati a suo nome (il primo, All The Leaves Are Gone, è accreditato a Josephine Foster and The Supposed) questo dedalo compositivo ha spesso rasentato il capolavoro: il suo approccio al folk psichedelico è ubiquo, caleidoscopico, minimalista, insieme semplice e intricato come il disegno d’un origami, una trama esoterica che si sgrana assorbendo nel suo periplo tutto ciò che incontra senza tuttavia tradire la forma originaria, lo strascico che scende dal vestito di una sposa fantasma e a cui le canzoni rimangono impigliate, serpeggiando qua e là in preda a uno strano potere mesmerico.
A tutt’oggi la Foster alterna la sua attività concertistica (ha suonato praticamente ovunque fra America, Australia, Europa e Canada) a quella di insegnante di musica. Le sue performance, richiamandosi in parte il nuovo teatro americano degli anni 60 e all’“azione concertata” di Cage, sono talvolta ambientate in luoghi naturali, o non musicali (piazze, strade, luoghi di culto) e mirano all’abbattimento dei ruoli prestabiliti fra palco e platea, invitando, laddove è possibile, gli spettatori a partecipare direttamente all’evento, suonando quello che hanno a disposizione e creando buffe versioni in progress delle sue canzoni. Anche in Italia, nel 2007, ha dato vita ad alcune esibizioni suggestive come quelle alla rocca di Bazzano presso Bologna e in una chiesa sconsacrata di Padova. 

Sulle corde dell’ukulele

L’esordio sulle scene nel 2003 vede una multistrumentista Josephine Foster (chitarra, piano, harmonium, arpa, ukulele, vocals) al fianco di Andy Bar (basso e chitarra) nei The Children's Hour, duo di appassionati di folk dalla spiccata sensibilità indie-rock, che "ruba" il nome a uno sconosciuto poeta americano del 19° secolo. Il loro primo (e unico) lavoro sulla lunga distanza, SOS JFK, esce per la prestigiosa Rough Trade, e propone soffici melodie solari e suadenti voci femminili che rimandano alla Cat Power più quieta e acustica.

Poi, è la volta di un altro duo, i Born Heller, con Josephine in compagnia di Jason Ajemian. Per produrre l’album omonimo (Locust, 2004), si scomoda Paul Oldham, in quella Louisville già culla di band come Slint, For Carnation, June Of ’44.
Foster si cimenta all’ukulele, Ajemian allo stand-up bass, mentre entrambi cantano e suonano la chitarra (acustica). Il risultato sono undici bozzetti acustici, che oscillano tra abulie letargiche (“Mountain Song”, “Big Sky”) e quadretti agresti a tinte blues-folk (“Good Times”, “The Left Garden”). “I Am A Guest In Here” è invece una poesia declamata con registro aulico dalla Foster, contrappuntata da sparuti accordi di chitarra. Una raccolta di ninnananne sottilmente dissonanti e stranianti, che proietta già la sirena di Chicago nei quartieri altri dell’indie-(folk)rock a stelle e strisce. 

Più ancorato alla psichedelia classica di marca Jefferson Airplane, il disco firmato nello stesso anno con i Supposed, All The Leaves Are Gone, sempre su Locust.
Il soprano operatico della Foster si spiega su tese trame chitarristiche (a cominciare dall’iniziale "Well-Heeled Man"), dove acustica ed elettrica si sfidano a duello, punteggiate da un drumming ben più marcato rispetto alle produzioni successive. Un disco rock, insomma, inizialmente concepito – a quanto si vocifera – come un “musical” e che però porta già impressa l’impronta degli Appalachi, che marchierà a fuoco l’intera opera della Foster.
Pur nella sua discontinuità, la tracklist riserva più di una delizia: dalla sconsolata title track ("There is no end/ to your sorrow"), dove fiumi di malinconia si riscaldano al suono di una chitarra esotica, all’angosciosa "Deathknell", con il canto di Foster che pare quasi strozzarsi in gola, fino ai riff e ai contrappunti chitarra elettrica-voce dell’infuocata "Jailbird (Hero Of The Sorrow)" e alle scorribande quasi buckleyane di "Who Will Feel Better At The Days End?".
Qualche eccesso chitarristico a tratti mina l’equilibrio di un disco che, nel complesso, evidenzia soprattutto il talento cristallino di Foster e il suo modo personalissimo di interpretare i brani, solo lontano parente di muse del folk come Joan Baez e Shirley Collins. Josephine ha studiato canto lirico e si sente, ma non sfrutta la sua tecnica per abbellire o indurre un effetto di trasognamento e oblio come nel caso delle CocoRosie: la direzionalità della sua voce è tale da divenire forza trainante, flauto magico, motore di una stregoneria che incanta il mondo e lo muove a suo piacimento.

Folk su tela art nouveau

Confortata anche dai primi riscontri positivi della critica, la Foster si mette in proprio e, sempre su Locust, confeziona un anno dopo una nuova raccolta di canzoni, stavolta nettamente più orientate verso il folk tradizionale: Hazel Eyes, I Will Lead You (2005).
La raffinatezza del disco emerge fin dalla cover dal fondo brunito, sul quale dominano le linee verdi di un'allegoria in cui una donna sembra offrirsi come guida al mistero di una natura dai tratti insieme familiari e arcani. Come una rarefazione dell'art nouveau presente nella grafica psichedelica dei sixties/seventies, con in più un senso di equilibrio e una certa compostezza formale.
Nella musica racchiusa in questo scrigno c'è una libertà strutturale e d'arrangiamenti che richiama la psichedelia, c'è l'attenzione del folk verso un mondo spogliato d'orpelli, c'è una stilizzazione estrema, nella forza astratta della voce operatica e delle asciutte pennate sulla chitarra, che richiama la raffinatezza art nouveau con le sue sottili, possenti ed eleganti curve arboree slanciate in uno spazio irreale.
La materia è quella di un folk fuori dal tempo, quasi con un senso di magia arcaica che aleggia in tutto l'album. Grazie alle liriche, che adottano forme e immagini di una poesia sospesa fra simbolico, pagano e schiettamente popolare, ma soprattutto grazie a una voce duttile, sempre pronta a variazioni che apportano sorprendenti contrasti di timbro e interpretazione, senza minare l'unità dell'opera. Gli arrangiamenti sono eclettici ma essenziali, scarni eppure palpitanti, graziati da scelte inusuali che vedono voce e chitarra accompagnarsi con arpa, campane, cetra, nacchere, kazoo, ukulele, sitar e cucchiai di legno fra gli altri (quasi tutti suonati dalla stessa Foster). Sono poi nobilitati da un senso della struttura sobrio, ma ricco di innesti e piccole variazioni inaspettate, sia nell'arpeggio sia nella costruzione stessa di alcuni brani. La scabra produzione, poi, rende dinamicamente spaziale il movimento interno all'album.
Spiccano, oltre alla dolente title track, le ballate di “Stones Throw From Heaven” e “There Are Eyes Above”, con il loro mood pastorale quasi gospel, la cantilena infantile di “Crackerjack Fool” (il disco era stato originariamente pensato come una raccolta per bambini) e la struggente melodia di “Trees Lay By”, mentre “Good News” si segnala come il brano più movimentato del lotto e il solo di kazoo in “The Golden Wooden Tone” aggiunge un grazioso sapore di eccentricità. 

Josephine FosterPassano due anni, e Josephine si imbarca nella sua operazione più coraggiosa.
A Wolf In Sheep's Clothing/Ein Wolf In Schafspelz (2006) è infatti interamente incentrato sulla reinterpretazione di opere letterarie e musicali d’epoca romantica (da Schubert a Eichendorff, da Wolf a Brahms e Goethe). Una ulteriore evoluzione della musica proposta da questa ragazza amante dei suoni antichi, arcani, mai dimenticati, un mondo scomparso e accantonato da una contemporaneità che tira un calcio al passato senza carpirne il vero significato, non solo musicale.
L’atmosfera è quella di un regno medievale infestato da demoni che cantano nenie acide e sognanti, ammorbate da lancinanti rumori provenienti da strumenti sconosciuti. L’elemento estraneo che rende questo microcosmo musicale così straniante è la chitarra elettrica, quasi sempre in (piacevole) contrasto con gli accordi incantati di Josephine. Il musicista in questione è Brian Goodman, già presente in All The Leaves Are Gone.
L’iniziale "An Die Musik" parte calma, con la voce che sa districarsi fra gli accordi della classica, mentre la chitarra elettrica di Goodman non si attenua un attimo, lacerando in continuazione il libero corso melodico di Josephine. La solenne "Der König in Thule" è una novella riferita con parole monche e sfigurate: le note si smarriscono fra sentieri sperduti e il finale a capella è un brivido di paura misteriosa. "Verschwiegene Liebe" scorre come una fiaba maledetta, contrappuntata da soffi d’aria velenosa e timbri gelidi. Una giornata di pioggia nel sottofondo della successiva "Die Schwestern", ancora un dualismo leale fra l’elettrica e la classica, con vocalizzi che paiono stille di acqua limpida sgorgante in un rigolo purissimo. "Wehmut" è arricchita da un piano mesto e da una fisarmonica che sfarfalla felice.
Ma il vero tour de force del disco è "Auf Einer Burg": quasi 12 minuti di improvvisazioni psichedeliche e luciferine. Il frastuono chitarristico evoca un’ossessione infernale, con il gemito vocale che sprigiona dolore e sofferenza, lo sfrigolio elettronico, sul finale, dà il colpo di grazia. Per farci recuperare fiato e ossigeno, viene collocata come finale l’allegra "Näne Des Geliebten", una favola immediata e saltellante, fra cori spensierati e accordi eseguiti con ritmo altalenante.

A Wolf In Sheep's Clothing/Ein Wolf In è il disco più audace e profondo di Josephine Foster, la nuova tappa di un cammino artistico di qualità inconfondibili e prospettive future infinite. Un viaggio tra sibili arcani e animi erranti, gole profonde e tramonti variopinti, storie dimenticate e cammini interminabili.

L'acchiappasogni

Con This Coming Gladness (Bo' Weavil, 2008), invece, la Foster si avvicina a una sua personalissima forma di “art-rock trascendentale”.
Apre la suggestiva “The Garden Of Earthly Delight”: una specie di “acchiappasogni” congegnato sull’ordito del picking appalachiano e sugli spasmi indeterministi del sottofondo e in grado di liberare fra le sue maglie tutta la singolare malia di un sottovoce operistico. Su una ritmica jazzata quasi impercettibile “The Lap Of Your Lust” spilla con parsimonia effetti wah e twang psichedelici, mentre il cantato traccia un arcobaleno melodico fra melisma, mantra e salmodia. “Lullaby To All” e “I Love You And The Springtime Blues” balenano disarticolati orizzonti blues. Con “All I Wanted Was The Moon” gli stilemi dell’alt-country vengono rarefatti e trasognati, come un'alba colta un istante prima di addormentarsi, in una qualche sorta di elegia tzigana. “Waltz Of Green” arpeggia un vertiginoso sirtaki celtico, mentre “Sim Nao” alligna fra arabeschi raga-rock (chitarre) e jazz latino (sezione ritmica).
In “Second Sight” il fantasma di una gentildonna condannata a rivivere tutte le notti l’incubo della propria morte ulula una ballata normanna trafitta da rasoiate di feedback che sembrano fulmini abbacinanti congelati nel grigio d’un cielo in tempesta. “Indelible Rainbows” è una parlour ballad vittoriana arrangiata come un raga-folk acustico dei Velvet Underground (saranno i sonagli in sottofondo o i sordi colpi di cassa che rimandano un po’ a “All Tomorrow’s Parties”).

Con purezza di intenti e innata, discreta grazia Josephine Foster offre della intensa e solitaria poetica di Emily Dickinson una lettura personale e inedita in Graphic As A Star (2009), riuscendo a rendere della grande poetessa americana quelle "sillabe di seta" (definizione quantomai azzeccata di Stefania Felicioli), quella immensa forza che su trame di ruvida analisi e orditi di diafana tenerezza sovente è tessuta.
Sono piccole gemme spettrali e melanconiche, cantate dalla sola voce o accompagnate da una chitarra acustica e talvolta anche da un'armonica a bocca, costruite attorno al nocciolo costituito dalle liriche di Emily Dickinson. Già dalla iniziale "Trust In The Unexpected", che potrebbe aver scritto Devendra Banhart col cuore gonfio di emozioni per William Kidd, per poi seguire nella successiva "How Happy Is The Little Stone" risulta evidente la scelta stilistica di Josephine, muovendosi con delicatezza e rispetto, trasfigurando il mistero della vita reclusa della Dickinson, declinandola verso un folk essenziale, desertico.
"Beauty Crows Me Till I Die" sembra portare in sé il patrimonio genetico di Shirley Collins e delle ricerche da lei assieme alla compianta sorella Dolly condotte attorno a quella essenzialità vocale della più pura tradizione. Cionondimeno l'ascesi spirituale di questi e altri brani come "Wild Nights - Wild Nights!" bruciano nei cuori come fuochi da campo: la sola voce espianta queste piccole gemme dal tempo che sembra flettersi, mutante significante. "Ah Tenerife" si scaglia in un'aura senza tempo né spazio, portando le suggestioni vocali verso una malinconica introspezione.

La chitarra folk, suonata con distratta intenzione di lucida visione dei piani sonori accompagna brani nei quali il lascito di Joan Baez, di Dylan, o persino di Lawrence Hammond è evidente, con tanto di armonica a bocca: "Tell As A Maskman - Were Forgotten" ne è riuscitissimo esempio.
Trascorre un anno scarso, che Josephine Foster si dedica a nuova, ambiziosa avventura, conistente nella rilettura, insieme e Victor Herrero, di alcune canzoni scritte da Federico Garcia Lorca. Anda Jaleo è una raccolta di storie che raccontano una umanità variegata, che la sua voce descrive con timbriche scarne e ricche di grazia, mentre la sua duttilità vocale rende fluttuante l’alternarsi dei brani più intimi e poetici con le canzoni maggiormente impregnate di risvolti politici e sociali, il tutto tratteggiato con una strumentazione essenziale e una sconvolgente registrazione live.
Supportati da chitarre acustiche limpide e cristalline, handclapping e nacchere per creare un ambiente sonoro di grande impatto emotivo, Josephine Foster e Victor Herrero incorniciano le canzoni di Federico Garcia Lorca con la stessa efficacia con la quale i surrealisti hanno messo su tela la sua forza poetica. Ogni spazio sonoro evoca la Spagna, gioia e malinconia si adagiano su sparute note che possiedono la maestosità di un’orchestra; la terra, gli zingari, le ragazze e i toreri sono protagonisti di storie che sottolineano disagi sociali e politici in modo mai palese.
Misterioso e ricco di fascino in “Los Mozos de Monleon”, suggestivo e delicato in “Los Reyes De La Baraja”, abilmente politico in “Anda Jaleo” il nuovo album di Josephine Foster è l’ennesimo trionfo artistico, un opera che trasuda ricerca e profondità culturale con una leggerezza e un tono aulico, sconosciuto ad altri musicisti contemporanei. La bellezza trionfa ed è vestita di poesia e verità.  
La musica di Josephine Foster ha un che di occulto e trasumanante, di austero e carezzevole, è una vasca di deprivazione sensoriale, un’esperienza extra-corporea per interposta persona. Il suo approccio al folk psichedelico è ubiquo, caleidoscopico, minimalista, insieme semplice e intricato come il disegno d’un origami. La voce prima di tutto: una farfalla ancora avvinta negli ultimi filamenti del bozzolo che si libra in un volo soffice e tormentato, pieno di vortici e vuoti d’aria, una trama esoterica che si sgrana assorbendo nel suo periplo tutto ciò che incontra senza tuttavia tradire la forma originaria. La sua tecnica chitarristica e compositiva sembra lo strascico che scende dal vestito di una sposa fantasma e a cui le canzoni rimangono impigliate, serpeggiando qua e là in preda a uno strano potere mesmerico.

Josephine FosterAppena pubblicata la seconda raccolta iberica, Josephine abbandona il suo rifugio andaluso per tornare in patria e registrare il nuovo Blood Rushing, disco che rilascia uno sfacciato aroma di States sin dall’inequivocabile allegoria della copertina, personale rivisitazione pittorica della propria bandiera nazionale. Il sottile filo rosso che lega campi e firmamento è lo scorrere impetuoso di un sangue – o di un vino, stando all’incalzante ritornello di "O Stars" – che è l’essenza stessa della natura orgogliosa e indomabile.
E’ suo il diario che sfogliamo, miniature tonali e annotazioni di un misticismo astrale. Un compendio bucolico che ricorda la spensierata Arcadia di Vashti Bunyan, ma con ambientazioni e corredo simbolico profondamente americani. Un sigillo evidente nella piega populista di certe ballate, alt-country che non disdegna rigogli gospel e riscatta la maggiore prevedibilità della scrittura con tutta la classe ed il polso della cantante, oltre magari ai pregevoli orpelli flessuosi della sua chitarra. Al solito il picking nudo si apre ad un florilegio di digressioni. Stilizza fino all’osso ma non rinuncia ad aggraziare l’ordito con suggestioni arcane quanto inattese, rendendo movimentato e a tratti perfino eccentrico un album, per altri versi, dalla perentoria impronta classicista. Semplice e semplicemente arrangiata ma del tutto accattivante, la cavalcata di "Sacred Is the Star" è il manifesto emblematico di questo inedito approccio easy listening: folk melodioso e zampettante, refrain killer in una dotazione di pelli e mandolini, carta di libera cittadinanza per le orecchie di ogni ascoltatore. Anche rallentando i giri e curando più a fondo la foggia dei ricami, la scrittura si conferma penetrante e disinvolta.
Naturale e suadente Josephine, eppure impervia. Sfuggente quando al momento del congedo sceglie di far bisticciare country-blues e psych-folk e va a bersaglio per franchezza innata.
Blood Rushing è la sua improvvisa colica pop. Svolazzante. Ambigua. Nervosa, eterea, lussureggiante. Fragile come le Electrelane auliche e commoventi dell’addio. Pure pietrosa. Eruttiva ed arrembante nel suo vestitino avant-folk, a briglie sciolte in poche sfuriate elettriche come riusciva ai Gorky’s Zygotic Mynci in piena sbornia da crapule rock. Oppure esile e silvana in quella mise da maliarda à-la Joanna Newsom, che dai tempi della New Weird America le è sempre calzata a meraviglia.

Eterea e fuori da qualsiasi collocazione temporale, la musica di Josephine Foster appartiene all’infanzia (tra le sue produzioni un album di canzoni per bambini “Little Life”), ai ricordi e alla speranza. I’m A Dreamer (2013) è l’ennesima dimostrazione della volontà della Foster di annullare il divario tra musica colta e popolare. La ricerca storiografica e sonora viaggia su un unico binario dove ogni scelta stilistica diventa elemento di una purezza artistica che può solo affascinare e sedurre: la sua rilettura della grande tradizione musicale americana è ora più ortodossa rispetto al minimalismo spettrale delle sue prime produzioni, e la scrittura è più malleabile e appassionata.
Registrato a Nashville, il nuovo progetto della Foster apre le porte al jazz da torch-song richiamando le atmosfere fumose dei bordelli e dei saloon: tra i musicisti brilla la presenza di Micah Hulscher (già alla corte di Jackson Browne, Bob Dylan, Michael Jackson), pianista di formazione classica e jazz innamorato della tradizione americana. Il tocco leggiadro e il timbro deciso di Micah sottolinea le composizioni della Foster: la leggiadria di “My Wandering Heart” e la poesia di “I’m A Dreamer” scivolano con classe, la stessa che fa di “Magenta” uno dei vertici creativi dell’album, nella quale voce, piano e basso vibrano all’unisono con la voce della cantautrice per un attimo di puro e intenso piacere.
Più accessibile e seducente, l'album gode di una solida scrittura, anche se il languore di “No One’s Calling Your Name”, il tono bohémien di “This Is Where The Dreams Head, Maude” e il melodramma di “Amuse A Muse” (Nico incontra Dolly Parton) svettano come la polvere trascinata dal vento sui resti di una casa abbandonata.
Vigoroso e dilettevole, I’m A Dreamer evita i cliché anche nelle liriche che trasformano luoghi e situazioni familiari in photo-frame di grande impatto e bellezza, offrendo la possibilità di ampliare il suo pubblico senza cedere in qualità e spessore, sfiorando insomma la perfezione.

Tre anni dopo Josephine Foster ripropone con la stessa chiave di lettura, vecchie pagine della sua carriera discografica dando forma all'affascinante e austero No More Lamps In The Morning, uno dei suoi album più coraggiosi, dove l'autrice si spinge verso la stessa purezza vocale di Tim Buckley e Karen Dalton, ben coadiuvato dai sempre più audaci accordi delle corde di nylon della chitarra acustica di Victor Herrero.
Ben tre canzoni provengono da This Coming Gladness, quasi a rimarcare il distacco tra passato e presente, la voce procede senza paure o timori, tra gorgeggi e slanci armonici, che donano a “The Garden Of Earthly Delights”, “A Thimbleful Of Milk” e a“Second Sight”, quel fascino da aria da opera che sembra essere il punto di riferimento della maturità espressiva raggiunta dalla musicista americana.
Le sette tracce di No More Lamps In The Morning sono pura poesia, un distillato di spiritualità e mistero, dove tra funeree cantilene e atmosfere da cabaret si cita Ruyard Kipling  (“Blue Rose”) e James Joyce (la title track) con la stessa imprudente passione.
Un album che non sarà ricordato per le sue innovazioni, ma per quella sublimazione operistica che ha messo in libertà splendide creazioni folk, che non profumano più di revival, ma di neo-classicismo.

Passano due anni prima che Josephine Foster riapra il suo ricco scrigno ricco di tesori smarriti con uno degli episodi più ispirati e corposi della pur sempre ragguardevole produzione. Le 18 tracce di Faithful Fairy Harmony rappresentano l’esternazione più eclettica e completa finora messa in atto dall’artista.
La dimensione musicale e vocale resta sempre ultraterrena, tra blues accorati (“Pining Away”), ballate estatiche (“Eternity”), ninna nanne per eterni fanciulli (“Adieu Color Adieu”), accordi confortevoli come la carezza di una mamma, e brevi accenni di un delicato erotismo soul (“Challenger”), che hanno il fascino di una fiammella calda in un giorno di neve (“I Was Glad”).
C’è una particolare predilezione per il piano in questo nuovo album di Josephine Foster (“A Little Song”), la chitarra è a volte accantonata, spesso sostituita da una pedal steel (“Indian Burn”), uno strumento che permette all'artista di esplorare sfumature dal tono più solare e confortevole (“Force Divine”).
Il motore di tutto resta la voce quasi da soprano: essa modula, corrompe le armonie, gioca, si distrae e poi seduce, a volte sfidando i limiti dell’udibile (il finale di “Soothsayer Song”) o svolazzando sulle complesse note dell’incantevole ballata “The Virgin Of The Snow”, che si avvale anche di un lussuoso e ricco arrangiamento. Ci sono episodi che godono di una scrittura più intensa: il country di “Benevolent Spring” graziato da una performance vocale viscerale, il palpitante incedere di “Lord Of Love” che riannoda anni e anni di folk-blues con una musicalità senza tempo e ricca di mistero, ed ovviamente la provocante e distonica title track che mette definitivamente a nudo l’anima di un disco che non solo si candida tra le cose più affascinanti dell’anno che si sta consumando, ma anche come una dichiarazione d’autenticità artistica, la cui forza in un’era di mistificazione culturale e intellettuale suona come uno schiaffo alla mediocrità che imperversa nell’enorme calderone della musica in streaming.

Pubblicato a sorpresa dalla Fire, No Harm Done (2020) sigilla il ventennale della carriera di Josephine Foster con otto canzoni che offrono un altro organico insieme di musica popolare americana, assistita dal co-produttore Andrija Tokic e dal fedele musicista Matthew Schneider, qui alle prese oltre che con il consueto armamentario di chitarre e basso con la steeel guitar. Elaborate in un lungo lasso di tempo, per poi trovare una propria connessione culturale e stilistica che ne giustificasse un legame quasi antropologico, le canzoni catturano la magia indolente e quieta del blues e del country, denudata dall’imbarazzante enfasi estetica, con particolare attenzione alla non sempre manifesta sensualità della musica popolare.
Pur connessa a una natura terrena, la musicalità di No Harm Done è priva di una dimensione temporale e fisica, caratterizzata da un dualismo espressivo che incanta; il cantato quasi operistico e la soave essenza pagana delle storie e delle arie melodiche sono in perenne duello, ma a vincere è la forza poetica di un’artista che sembra non sbagliare mai un colpo. Una suggestiva atmosfera da music-hall caratterizza gli arrangiamenti dell’album, il fascino quasi metafisico di “Freemason Drag” e la seduzione strumentale del folk-jazz in bianco e nero di “How Come Honeycomb” hanno la stessa intensità di un piccolo album capolavoro ormai dimenticato, ovvero "Jazz" di Ry Cooder.
Nessuno è abile nel rendere la musica folk rurale così affascinante e seducente: si ascolti il suono delle chitarre in “ The Wheel Of Fortune”, la nobile e solenne spiritualità di “Old Saw”, il delizioso intreccio di autoharp e di una dodici corde nell’ambigua cantilena di “Conjugal Bliss”, l’acerba bellezza blues di “Sure Am Devilish” e l’ambigua e inquieta cantilena sull’amore saffico di “Leonine”.
No Harm Done è l'ennesima conferma del talento di Josephine foster, un'inattesa sorpresa che suggella un ventennio ricco di creazioni incantevoli.

Nel 2022 la cantautrice americana è tornata a casa, tra le montagne del Colorado, per offrirci un nuovo ciclo di canzoni intitolato Godmother.
Ennesimo atto esplorativo, il nuovo lavoro non smentisce la magistrale gestione della varietà stilistica da parte della Foster. Se l'avvio di "Hum Menina" sembra raffigurare il folk ancestrale cui siamo abituati, dopo un minuto ecco apparire una via alternativa, una strada parallela, fatta di synth e disturbi elettronici che accompagnerà ogni traccia dell'album.
Questi suoni misticheggianti, eterei e a volte inquieti sono la strada scelta per dare corpo alla spiritualità da sempre esplorata dall'artista, questa volta portata fuori da tempo e spazio anche nei brani più distesi, come "Gold Entwine" o il primo singolo estratto "Guardian Angel". Ed è proprio all'apparire nella sequenza di "Guardian Angel" che "Godmother" mette in luce la linea sottile che ne altera il precario equilibrio tra la voce sempre eterea e la linearità delle composizioni, avvicinandosi incautamente al territorio alt-pop di John Grant. Un procedimento in qualche modo rischioso, quello di unire l'acustica neoclassica delle ballate folk psichedeliche innervate dai bassi profondi (l'ibrido di "Sparks Fly") a questa metodologia quasi ultraterrena. Allo smarrimento iniziale subentra il fascino trasversale dell'insolita scelta stilistica, incoraggiando l'ascoltatore a soffermarsi su più particolari, sulla corsa parallela e sull'intreccio dei due strati che compongono le canzoni, domate dal sempre straordinario virtuosismo vocale della Foster, capace di innalzare verso il cielo la splendida "Old Teardrop" che dall'incipit sembra una "quasi cover" di "Hurt" dei Nine Inch Nails.
Il non facile percorso ad ostacoli di "Godmother" assume infine una propria valenza: le moleste sonorità elettroniche sono spettrali e spirituali al pari delle ortodosse trame folk del passato, a volte mettono in crisi l'apparato strutturale delle composizioni, spossando la debole struttura country di brani come "Flask Of Wine", senza per fortuna intaccare la fiabesca grazia delle voce nella ballata dall'ampio respiro incorporeo di "Dali Rama".
Il minimalismo espressivo ne esce vincente e fortificato da un'ascesi sonora che coinvolge in un solo frangente Alice Coltrane, i primi Kraftwerk e Moondog. Nuovi orizzonti, che a volte, non lo nego, risultano inquietanti, per un'artista che ha scelto di guardare oltre confine, ampliando i disturbi sottili che innestavano "Faithful Fairy Harmony" pur non rinnegando la sua vocazione di folk spirituale, mistico e psichedelico.
In quest'ottica le pagine più riuscite sono il folk psichedelico di "Nun Of The Above" e la profonda nemesi weird-folk di "The Sum Of Us All", dove le ipnotiche incursioni elettroniche gravano fino a renderlo un ipnotico mantra.
Arrangiamenti sopraffini e la voce sempre coinvolgente sono segnali evidenti di una poetica che, nonostante tutto, è rimasta immutata. "Godmother" è una discesa negli inferi, una nuova forma di barocchismo sonoro trafitto dalla natura minimale della scrittura di Josephine Foster, un passo incerto che apre nuovi orizzonti e lascia una deliziosa sensazione di misticismo e devozione dalla natura ancestrale.

La Foster di oggi è un quarzo opalescente. Una maestra di incantesimi, di fascinazioni raminghe. La sirena che intesse delicate ninnananne per un mondo spogliato di ogni armonia. E proprio come Emily nella sua stanza, continuerà a irretirci nella perfezione silenziosa della nostra solitudine.

Concertato con la co-produzione di Daniel Blumberg, il nuovo album di Josephine Foster sgretola il potere delle note e del canto, Domestic Sphere è un documentario neorealista sulla realtà più intima e quotidiana, la musica è estrema, viscerale, scheletrica, un racconto per suoni ed immagini, per molti versi affine al realismo filmico di Kaurismaki, di Pasolini e anche del recente esordio di El Zohairi “Il capofamiglia”. Come in un rito pagano le canzoni si susseguono senza alcun legame che non sia la pura trascendenza della dimensione temporale e terrena. Sono accenni di canzoni da intonare intorno al fuoco nell’attesa che riscaldi l’anima - “Burnt Offering” otto minuti di esaltante field recording – o sono accordi di chitarre e parole da dedicare a fantasmi remoti - la voce della bisnonna di origine napoletana che compare all’interno della soave “Reminiscence”.
Non è un album nel quale cercare dolcezza o conforto Domestic Sphere, è tutt’al più spirituale, intangibile, ricco di brevi interludi affidati al sol suono della natura (“Shrine Excerpt”, “Entr'acte”). Più che di melodie e armonie, è più giusto parlare di infestazioni sonore che tentano di amalgamarsi con la natura ed i suoi spazi, le canzoni sanno di polvere e blues (“Dawn Of Time”) di gorgoglii vocali che tentano un ulteriore dialogo con la natura (“Pendulum”, “Gentlemen & Ladies”). Domestic Sphere è anche un album sulla caducità umana e sulla poca incisività dell’uomo sulla magia della natura, una delicata ninna nanna “Birthday Song For The Dead” annuncia infatti la resa dei conti di fronte all’imprescindibile, per poi concludere il viaggio con un esortazione alle anime trapassate (“Haunted House”), con la segreta speranza di poter essere accolti nel grembo della terra (“Sanctuary”) . Nessuna velleità sperimentale anima l’ultimo album di Josephine Foster, è infatti scomparsa la contaminazione elettronica del precedente Godmother, in fin dei conti siamo solo spettatori di una bellezza alla cui creazione non prendiamo parte, lo sgomento che ci assale  di fronte a queste dieci forme aliene di composizione può indurre senz’altro al disorientamento emotivo, ma chi riuscirà a penetrare nel profondo di Domestic Sphere troverà infine risposta nelle piccole verità svelata e nella magia del vivere quotidiano.     
 


Contributi di Claudio Fabretti, Massimo Marchini ("Graphic As A Star"), Stefano Ferreri ("Blood Rushing"), Gianfranco Marmoro ("I'm A Dreamer"; "No More Lamps In The Morning"; "Fairy Faithful Harmony", "No Harm Done", Godmother" "Domestic Sphere"), Stefano Santoni ("Godmother")

Josephine Foster

Discografia

JOSEPHINE FOSTER

There Are Eyes Above (Self Released, 2000)
Little Life (Self Released, 2001)
Hazel Eyes, I Will Lead You (Locust, 2005)

8

A Wolf In Sheep's Clothing (Locust, 2006)

8

This Coming Gladness (Bo'Weavil, 2008)

7,5

Graphic As A Star (Fire, 2009)

8

Blood Rushing(Fire, 2012)

7

I’m A Dreamer (Fire, 2013)

8

No More Lamps In The Morning (Fire, 2016)7,5
Faithful Fairy Harmony(Fire, 2018)8
No Harm Done(Fire, 2020)7
Godmother (Fire, 2022)7
Domestic Sphere (Fire, 2023)7
JOSEPHINE FOSTER AND THE SUPPOSED
All The Leaves Are Gone (Locust, 2004)

7

JOSEPHNE FOSTER AND VICTOR HERRERO
Anda Jaleo (Fire, 2010)
THE CHILDREN'S HOUR
SOS JFK (Rough Trade, 2003)
BORN HELLER
Born Heller (Locust, 2004)

6,5

Pietra miliare
Consigliato da OR

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There Are Eyes Above (Live in San Diego, 2005, da Hazel Eyes, I Will Lead You)
Crackerjack Fool (Live in San Diego, 2005, da Hazel Eyes, I Will Lead You)
Estratto da un concerto a Padova, in una chiesa sconsacrata (2007)
Estratto da una esibizione al Festsaal Kreuzberg di Berlino (2007)