“Domestic Sphere”, più che un album folk, è un documentario neorealista sulla realtà più intima e quotidiana di Josephine Foster. L'"Entrance" della prima traccia è la chiave d’ingresso in un luogo solitario, in quel mondo nel quale l’artista americana crea, ispirandosi ai suoni della natura, al pianto di un bimbo, al miagolio di un gatto, al rimbombo dei passi in luoghi deserti.
Mai così estrema e viscerale, la musica di “Domestic Sphere” è scheletrica ed essenziale. Un racconto per suoni e immagini per molti versi affine al realismo filmico di Kaurismaki, di Pasolini e anche del recente esordio di El Zohairi “Il capofamiglia”. Concertato con la co-produzione di Daniel Blumberg, il nuovo album di Josephine Foster sgretola il potere delle note e del canto.
Come in un rito pagano e parimenti inquietanti, le canzoni si susseguono senza alcun legame che non sia la pura trascendenza della dimensione temporale e terrena. Sono accenni di brani da intonare intorno al fuoco nell’attesa che riscaldi l’anima - “Burnt Offering”, otto minuti di esaltanti field recordings – o sono accordi di chitarre e parole da dedicare a fantasmi remoti (la voce della bisnonna di origine napoletana che compare all’interno della soave “Reminiscence”).
Non è un album nel quale cercare dolcezza o conforto, “Domestic Sphere”, è tutt’al più spirituale, intangibile, ricco di brevi interludi affidati al solo suono della natura (“Shrine Excerpt”, “Entr'acte”). Più che di melodie e armonie, è più giusto parlare di infestazioni sonore che tentano di amalgamarsi con la natura e con i suoi spazi. Le canzoni sanno di polvere e di blues (“Dawn Of Time”), di gorgoglii vocali che tentano un ulteriore dialogo con la natura (“Pendulum”, “Gentlemen & Ladies”).
“Domestic Sphere” è anche un album sulla caducità umana e sulla poca incisività dell’uomo sulla magia della natura: la delicata ninna-nanna “Birthday Song For The Dead” annuncia infatti la resa dei conti di fronte all’imprescindibile, per poi concludere il viaggio con una esortazione alle anime trapassate (“Haunted House”), con la segreta speranza di poter essere accolti nel grembo della terra (“Sanctuary”).
Nessuna velleità sperimentale anima l’ultimo album di Josephine Foster: è infatti scomparsa la contaminazione elettronica del precedente “Godmother”. In fin dei conti, siamo soltanto spettatori di una bellezza alla cui creazione non prendiamo parte. Lo sgomento che ci assale di fronte a queste dieci forme aliene di composizione può indurre senz’altro al disorientamento emotivo, ma chi riuscirà a penetrare nel profondo di “Domestic Sphere” troverà infine risposta nelle piccole verità svelate e nella magia del vivere quotidiano.
03/07/2023