Ogni album di
Josephine Foster è uno scrigno ricco di tesori smarriti: canzoni che possiedono la chiave d’accesso per un mondo fantastico, dove anche la malinconia diventa momento di giubilo e di estasi lirica e poetica. In questo percorso “Faithful Fairy Harmony” rappresenta uno degli episodi più ispirati e corposi della pur sempre ragguardevole produzione, con diciotto tracce distribuite in un doppio vinile (il formato cd è singolo) che rappresentano l’esternazione più eclettica e completa finora messa in atto dall’artista.
La dimensione musicale e vocale resta sempre ultraterrena, tra blues accorati (“Pining Away”), ballate estatiche (“Eternity”), ninne nanne per eterni fanciulli (“Adieu Color Adieu”), accordi confortevoli come la carezza di una mamma e brevi accenni di un delicato erotismo soul (“Challenger”), che hanno il fascino di una fiammella calda in un giorno di neve (“I Was Glad”).
C’è una particolare predilezione per il piano, in questo nuovo album di Josephine Foster (“A Little Song”), mentre la chitarra è a volte accantonata, spesso sostituita da una
pedal steel (“Indian Burn”), uno strumento che permette alla voce di esplorare sfumature dal tono più solare e confortevole (“Force Divine”).
Chitarra, piano, organo, arpa, autoharp, basso, violoncello e
pedal steel accordano una serie di affascinanti e misteriose canzoni, che sembrano recuperate da un polveroso e antico giradischi a manovella (“Pearl In Oyster”), appena tradite della loro dimensione temporale da un breve e impercettibile input elettronico (“Peak Of Paradise”).
Il motore di tutto resta la voce quasi da soprano: essa modula, corrompe le armonie, gioca, si distrae e poi seduce, a volte sfidando i limiti dell’udibile (il finale di “Soothsayer Song”) o svolazzando sulle complesse note dell’incantevole ballata “The Virgin Of The Snow”, che si avvale anche di un lussuoso e ricco arrangiamento.
Ci sono episodi che godono di una scrittura più intensa: ad esempio, il country di “Benevolent Spring”, graziato da una
performance vocale viscerale, il palpitante incedere di “Lord Of Love” che riannoda anni e anni di folk-blues con una musicalità senza tempo e ricca di mistero. E poi ovviamente la provocante e distonica
title track che mette definitivamente a nudo l’anima di un disco che non solo si candida tra le cose più affascinanti dell’anno che si sta consumando, ma anche come una dichiarazione d’autenticità artistica, la cui forza in un’era di mistificazione culturale e intellettuale suona come uno schiaffo alla mediocrità che imperversa nell’enorme calderone della musica fruibile sulle piattaforme di streaming.