Un suono asciutto, scarno, essiccato. Una bava infuocata di slide guitar ad accompagnare i passi incerti di un uomo che vaga nel deserto come un fantasma, in giacca, cravatta e berretto rosso, con una tanica di benzina in mano da cui aspirare le ultime gocce d’acqua. L’inquadratura che si apre sui paesaggi sconfinati della Frontiera. E quel suono ostinato, che continua a scavare dirupi, nella terra sabbiosa, abbacinata dal sole, ma anche nell’animo del viaggiatore, smarrito nel gigantesco vuoto della sua solitudine. Se un grande film si vede anche dall’incipit, quello di “Paris, Texas” non ha alcuna intenzione di fare eccezione. Aperto da quella formidabile sequenza, il capolavoro del 1984 di Wim Wenders è anche una delle più abbaglianti dimostrazioni di come musica e immagini possano non solo coesistere in modo perfetto, ma integrarsi e arricchirsi a vicenda.
È noto come per il regista di Düsseldorf l'azione sia spesso una conseguenza dello spazio in cui essa si trova a svolgersi; “non sono i luoghi, quindi, a trasformarsi in base alle scelte dei protagonisti che li abitano (come nel cinema classico), ma i personaggi a dover modellare le loro scelte sul paesaggio che li circonda e li sovrasta” (cfr. Eugenio Radin, “Paris, Texas”). Ma è altrettanto vero che nel cinema di Wenders anche le musiche non si sono mai limitate fornire un semplice commento sonoro, assumendo sempre un ruolo centrale (dalle incursioni di Nick Cave in “Il cielo sopra Berlino” agli incantevoli Madredeus di “Lisbon Story" fino all’affresco rock corale di “Until The End Of The World”).
Il deserto dunque – quello reale e quello metaforico del protagonista - è il vero dominus di “Paris, Texas”, ma la colonna sonora ne è parte integrante, contribuisce a forgiarlo e ad animarlo: un volo radente di chitarre sottili, che strisciano come serpenti tra i cactus delle desolate lande texane, amplificando l’immane silenzio di questa deriva nel nulla. Una inesorabile litania country-folk, con i sinuosi fremiti dell'archetto (a cura di David Lindey) e i flebili rintocchi di piano di Jim Dickinson, ad assecondare la chitarra. Non certo una chitarra qualsiasi: quella di Ry Cooder.
Pioniere della ricerca etnomusicale e mago della slide, il californiano Ryland Peter Cooder, per gli amici Ry, è uno dei massimi chitarristi americani (n.31 nella speciale Top 100 di Rolling Stone), forte di uno stile raffinatissimo, improntato all'uso di varie accordature aperte e a un peculiare uso del "Bottleneck". Partito dalle sorgenti della roots music, Cooder ha via via ampliato il suo percorso, lambendo culture diversissime tra loro, dal raga indiano ai ritmi sudamericani passando per la musica africana. Sarà tra l’altro il principale iniziatore, nel 1996, del celebre progetto Buena Vista Social Club. Ma il suo nome resterà per sempre legato a queste dieci fiammeggianti partiture desertiche, che scandiscono il pellegrinaggio di Travis, interpretato da un ancora emergente Harry Dean Stanton (“Era importante che fosse sconosciuto – spiegherà Wenders - E Harry, benché avesse fatto già più di 100 film, era praticamente sconosciuto. Aveva avuto solo ruoli secondari ed era bravissimo”).
La fine della storia d'amore con la bellissima e giovanissima Jane (Nastassja Kinski) nonché il necessario abbandono del figlio Hunter getteranno Travis nella bocca del deserto, creandogli il vuoto attorno e privando la sua vita di un qualsiasi scopo, se non ritrovare quel luogo del quale conserva una foto consumata: Paris in Texas, dove anni addietro aveva acquistato un pezzo di terra, la sua terra natale.
Cooder allestisce una raffigurazione scabra e al tempo stesso palpitante di questo inabissamento esistenziale. A partire dai semplici e memorabili accordi della title track, ispirata da “Dark Was The Night (Cold Was The Ground)” di Blind Willie Johnson, pezzo di storia del blues che il chitarrista californiano descrive come “il più pieno d'anima, il più trascendente della musica americana”. Quelle sinuosità laceranti, quelle vertigini di slide lasciate vibrare nell’aria sembrano penetrare l’anima stessa del protagonista, in una dimensione trascendente che troverà un degno erede dieci anni dopo nelle struggenti tessiture chitarristiche di Neil Young per “Dead Man”, il western metafisico di Jim Jarmusch.
Se “Brothers” è la naturale reprise del tema principale, in versione ancor più sfibrante ed essiccata, “Nothing Out Here” – in poco più di un minuto e mezzo - spalanca una voragine di angoscia, mettendo definitivamente a nudo tutta la desolazione del protagonista. A spezzare il silenzio giunge così la voce dello stesso Stanton, improbabile (ma efficacissimo) menestrello ispanico alle prese con i tormenti sentimentali della messicana “Cancion Mixteca”. È uno dei pochi episodi vocali, di un disco in gran parte strumentale, in cui la slide di Cooder torna subito protagonista, nei panneggi sperimentali della tremante “No Safety Zone” e dell’anemica “Houston In Two Seconds” (quasi post-rock in anticipo di un decennio). Suggestioni desertiche che si fanno più incalzanti nello strumentale più lungo della raccolta, “Leaving The Bank”, con le insistite punteggiature dell’archetto a sporcare le striscianti frasi di chitarra.
Dopo la nuova breve ripresa del tema principale (“On The Couch”), tocca agli stessi protagonisti salire in cattedra, in uno dei dialoghi più commoventi della pellicola: Travis e Jane uno di fronte all’altra, separati da una parete di vetro trasparente che consente all’uomo di potere osservare senza essere visto, come da prassi del Peep Show (“I Knew These People”, con la chitarra di Cooder a sopraggiungere in medias res, suggellando l’intensità del colloquio). “Disappeared” è l’ultima parola pronunciata da Stanton. E sotto i suoi piedi – saldamente ancorati a terra, come testimoniano la sua paura di volare e l'ossessione maniacale per le scarpe – si apre l’ultimo baratro: “Dark Was The Night” è la tappa finale di un pellegrinaggio condannato in partenza dalla ineluttabilità di un destino di esilio e solitudine. Cooder lascia scivolare lentamente le dita tra le corde della sua slide, i filamenti della chitarra si fanno ancora più esili e rarefatti, con l’ultimo accordo strascicato e disperato, a suggellare la fine del viaggio.
Frutto della creatività di tre menti geniali (Wenders, Cooder e il co-sceneggiatore Sam Shepard), “Paris, Texas” vincerà la Palma d’oro a Cannes sintetizzando forse il miglior amalgama tra Neuer Deutscher Film e cinema classico americano. Ma non sarà l’unico traguardo raggiunto dalla sua colonna sonora: con questa memorabile raccolta di twang chitarristici, pennellate di slide e squarci ambientali, Ry Cooder getterà le basi del futuro desert rock dei vari Thin White Rope, Calexico, Giant Sand, Howe Gelb & C., lasciando in dote alla musica tutta un nuovo modo di scolpire le immagini attraverso i suoni.
14/04/2019