Turn on, tune in, drop out.
Dall’alto del suo scranno, lassù all’ottavo circuito della consapevolezza, Timothy Leary sarebbe contento di sapere che, una volta tanto, le sue parole sono state colte alla lettera e tradotte nell’idioma universale dell’arte. E noi tutti dovremmo ringraziare unanimi il corpo docente per aver, bene o male, aiutato la nostra, autodefinitasi una “opera-school dropout”, a scoprire la sua natura più autentica e a trovare la propria strada: vagabondando nel dharma come una delle capofila del movimento New Weird America (con Marissa Nadler, Jana Hunter e gli Espers, fra gli altri) e pubblicando tre album (“All The Leaves Are Gone”, accreditato a Josephine Foster And The Supposed, “Hazel Eyes, I Will Lead You” e “A Wolf In Sheep Clothing”).
La musica di Josephine Foster ha un che di occulto e trasumanante, di austero e carezzevole, è una vasca di deprivazione sensoriale, un’esperienza extra-corporea per interposta persona. Il suo approccio al folk psichedelico è ubiquo, caleidoscopico, minimalista, insieme semplice e intricato come il disegno d’un origami. La voce prima di tutto: una farfalla ancora avvinta negli ultimi filamenti del bozzolo che si libra in un volo soffice e tormentato, pieno di vortici e vuoti d’aria, una trama esoterica che si sgrana assorbendo nel suo periplo tutto ciò che incontra senza tuttavia tradire la forma originaria. La sua tecnica chitarristica e compositiva sembra lo strascico che scende dal vestito di una sposa fantasma e a cui le canzoni rimangono impigliate, serpeggiando qua e là in preda a uno strano potere mesmerico.
Rivisitando lieder e arie classiche con arrangiamenti e strumentazioni mutuati, di volta in volta, dal jazz delle origini, dal blues acustico, dall’acid-folk o dal cerimoniale degli indiani americani, con l’ultimo “This Coming Gladness”, la Foster sembra più che mai prossima al compimento di una sua personalissima forma di “art rock trascendentale”.
Apre la suggestiva “The Garden Of Earthly Delight”: una specie di “acchiappasogni” congegnato sull’ordito del picking appalachiano e sugli spasmi indeterministi del sottofondo e in grado di liberare fra le sue maglie tutta la singolare malia di un sottovoce operistico. Su una ritmica jazzata sì e no percettibile “The Lap Of Your Lust” spilla con parsimonia effetti wah e twang psichedelici, mentre il cantato traccia un arcobaleno melodico fra melisma, mantra e salmodia. “Lullaby To All” e “I Love You And The Springtime Blues” balenano disarticolati orizzonti blues: la prima, col piano percussivo, i controtempi della batteria e i queruli intarsi della chitarra elettrica, la seconda, inclinando i flessuosi gorgheggi nel singhiozzo dello shout, fra slide da cerimonia zen, tamburi e rullanti propiziatori. Con “All I Wanted Was The Moon” gli stilemi dell’ alt-country vengono rarefatti e trasognati, come un'alba colta un istante prima di addormentarsi, in una qualche sorta di elegia tzigana.
“Waltz Of Green” arpeggia un vertiginoso sirtaki celtico, mentre “Sim Nao” alligna fra arabeschi raga-rock (chitarre) e jazz latino (sezione ritmica). In “Second Sight” il fantasma di una gentildonna condannata a rivivere tutte le notti l’incubo della propria morte ulula una ballata normanna trafitta da rasoiate di feedback che sembrano fulmini abbacinanti congelati per pochi istanti nella grigia teca del cielo in tempesta. “Indelible Rainbows” è una parlour ballad vittoriana arrangiata come un raga-folk acustico dei Velvet Underground (saranno i sonagli in sottofondo o i sordi colpi di cassa che rimandano un po’ a “All Tomorrow’s Parties”).
Josephine ha ragione: la felicità è a portata di mano. E fintanto che questo disco pernotterà nel vostro lettore, condividerla sarà un piacere.
31/08/2008