Succede d'innamorarsi a prima vista della copertina di un disco e di avere la certezza che la musica lì contenuta ci ammalierà con la stessa bellezza. "Hazel Eyes, I Will Lead You" ha una cover dal fondo brunito, sul quale dominano le linee verdi di un'allegoria in cui una donna, al centro del quadro, sembra offrirsi come guida al mistero di una natura dai tratti insieme familiari e arcani. Come una rarefazione dell'art nouveau presente nella grafica psichedelica dei sixties/seventies, con in più un senso di equilibrio e una certa compostezza formale.
Nella musica racchiusa in questo scrigno c'è una libertà strutturale e d'arrangiamenti che richiama la psichedelia, c'è l'attenzione del folk verso un mondo spogliato d'orpelli, c'è una stilizzazione estrema, nella forza astratta della voce operatica e delle asciutte pennate sulla chitarra, che richiama la raffinatezza art nouveau con le sue sottili, possenti ed eleganti curve arboree slanciate in uno spazio irreale. La materia è quella di un folk fuori dal tempo, quasi con un senso di magia arcaica che aleggia in tutto l'album. Grazie alle liriche, che adottano forme e immagini di una poesia sospesa fra simbolico, pagano e schiettamente popolare, ma soprattutto grazie alla voce, che si rivela fin dall'inizio il tratto più peculiare di questo disco, senza nulla togliere alla sobrietà e alla bellezza della musica.
Josephine ha studiato canto lirico e si sente, ma non sfrutta la sua tecnica per abbellire o indurre un effetto di trasognamento e oblio come nel caso Cocorosie, bensì la direzionalità della sua voce è tale da divenire forza trainante, flauto magico, motore di una stregoneria che incanta il mondo materiale e lo muove a suo piacimento.
Ma non si creda che una voce così personale venga a noia prima della fine dell'album perché, come c'è da aspettarsi, è pronta a variazioni che apportano sorprendenti contrasti di timbro e interpretazione senza minare l'unità dell'opera. Gli arrangiamenti sono eclettici ma essenziali, scarni eppure palpitanti, graziati da scelte inusuali che vedono voce e chitarra accompagnarsi con arpa, campane, cetra, nacchere, kazoo, ukulele, sitar e cucchiai di legno fra gli altri. Sono poi nobilitati da un senso della struttura sobrio, ma ricco di innesti e piccole variazioni inaspettate, sia nell'arpeggio sia nella costruzione stessa di alcuni brani.
Ottima, ancora, la scabra produzione, che pone un'attenzione particolare al posizionamento dei pochi strumenti, rendendo dinamicamente spaziale il movimento interno all'album. Questo è il suo primo disco da solista, ma la chicagoana Josephine Foster ha già dato alle stampe un paio di altri album, uno del duo a nome Born Heller (inquietante e sublime sintesi di folk degli Appalachi e tradizione inglese), l'altro come Josephine Foster & the Supposed (l'anima più rock, acida e soul). I paragoni con le più raffinate stelle del firmamento vocale folk e non solo si sono già sprecati, primo fra tutti quello con Shirley Collins, ma questo è uno di quei casi in cui lo spreco potrebbe non bastare.